Assistenza familiare: il detenuto inadempiente assolto per mancanza del dolo

Nonostante lo status detentivo non costituisca un’esimente in grado di far venir meno sempre e comunque la responsabilità per il delitto di violazione degli obblighi di assistenza familiare, va considerato che la privazione della libertà personale del soggetto obbligato deve, invece, essere valorizzata al fine di giudicare la sussistenza o meno del richiesto elemento soggettivo doloso.

Così ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione, Sezione Sesta Penale, con la sentenza n. 4116 depositata il giorno 30 gennaio 2019. Galeotto fu il mantenimento. Un detenuto viene tratto a giudizio per rispondere del reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare e, in particolare, per aver fatto mancare il mantenimento alla figlia minorenne durante il periodo nel quale – immaginiamo per altri motivi – si trovava dietro le sbarre. All’esito del primo grado è assolto la pronuncia liberatoria viene confermata dalla corte di appello. La procura, che non condivide le ragioni assolutorie fondate sulla carenza della prova di un doloso comportamento inadempiente, propone ricorso per cassazione senza, però, incontrare migliore fortuna. Vediamo subito le ragioni della definitiva conferma dei primi due verdetti di merito. La detenzione non è una scriminante. Nelle aule di giustizia siamo ormai avvezzi ad ascoltare ogni possibile e immaginabile giustificazione di fronte ad un’accusa come quella elevata all’imputato protagonista della sentenza che commentiamo c’è chi tenta di dimostrare di non avere più nemmeno gli occhi per piangere, chi si arrabatta – allegando scontrini e ricevute – per dimostrare che le accuse sono menzogne e che l’ex di turno l’ha denunciato per ripicca, chi, infine, afferma di essere rimasto senza lavoro e conseguentemente senza un centesimo . Qual è la sorte di tesi difensive del genere? Spesso, dobbiamo riconoscerlo, non è quella desiderata la giurisprudenza di legittimità – e di merito – è molto rigorosa, e ne comprendiamo bene le ragioni. Gli obblighi di assistenza inerenti alla responsabilità genitoriale coniugale, o ex coniugale sono giustamente oggetto di una tutela quanto il più possibile serrata. Se a questo aggiungiamo che contestazioni del genere si inseriscono, di solito, in situazioni personali derivanti dalla volontaria interruzione di un rapporto matrimoniale o sentimentale e dalla fulminea instaurazione di un analogo rapporto con qualcun altro , comprendiamo bene che la stringente tutela è più che giustificata sarebbe altrimenti facile dimenticarsi” dei propri doveri, sol perché si è voltato pagina nella vita di coppia. Cosa succede, però, quando l’obbligato sostiene di non poter adempiere in quanto ristretto nella libertà personale? La giurisprudenza di legittimità, al riguardo, ha elaborato un indirizzo interpretativo secondo il quale lo status detentivo non fa venir meno automaticamente il dovere di contribuire al mantenimento di coniuge e figli. Esso acquisterebbe forza scriminante soltanto a condizione che il periodo detentivo coincida con quello dei mancati versamenti, che il soggetto obbligato non abbia percepito comunque alcun reddito e che il soggetto non sia riuscito a trovare un lavoro interno o esterno al luogo di detenzione, presentando l’apposita domanda all’amministrazione penitenziaria. La prova del dolo incombe sempre sull’accusa. Altro aspetto, pure valorizzato nella sentenza, è quello dell’onere probatorio sull’imputato grava il ben noto dovere di allegazione dei fatti a propria discolpa. Ciò significa, evidentemente, che se la difesa intende voler dimostrare l’incolpevole inadempimento derivante dalla privazione della libertà personale dovrà certamente allegare” quanti più elementi possibili per rappresentare al giudice che il soggetto obbligato non era nelle condizioni materiali di versare le somme dovute, nonostante abbia tentato in ogni modo di riuscirvi. Questo, però, non significa – come correttamente tengono a sottolineare gli Ermellini – che l’imputato si presume colpevole e che sia quest’ultimo a dover fornire la prova completa della propria innocenza. L’onere di dimostrare l’inadempimento e il dolo che lo ha sorretto rimane sempre e comunque il compito principale della pubblica accusa. Così vuole il nostro sistema processuale e, prima di lui, il principio costituzionale della presunzione di innocenza.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 2 luglio 2019 – 30 gennaio 2020, n. 4116 Presidente Mogini – Relatore Silvestri Ritenuto in fatto 1. La Corte di appello di Trento ha confermato la sentenza con cui H.R. è stato assolto dal reato previsto dall’art. 570 c.p. all’imputato è contestato di avere fatto mancare i mezzi di sussistenza alla figlia minore, non corrispondendo a titolo di mantenimento la somma di 400 Euro mensili, fissata dal Tribunale di Bolzano il reato sarebbe stato commesso dall’01/01/2012 al 31/12/2012. 2. Ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte di appello di Trento, articolando un unico motivo con cui deduce erronea affermazione della non sufficienza di prove del dolo così testualmente il ricorso la sentenza sarebbe viziata nella parte in cui ha ritenuto che l’imputato, in ragione del suo stato detentivo intervenuto nel corso dell’intero anno 2012, fosse in uno stato di assoluta impossibilità incolpevole di adempiere ai propri obblighi genitoriali, tenuto peraltro conto che la madre aveva dichiarato che il padre aiutava economicamente la figlia, quando poteva . Dunque, secondo la Corte di merito, nella specie non sarebbe stato configurabile il dolo del reato contestato. Secondo il Procuratore impugnante, la Corte di appello non avrebbe correttamente applicato i principi affermati dalla Corte di cassazione che, in più occasioni, ha ritenuto non incolpevole l’inadempimento derivante dallo stato detentivo dell’obbligato nella specie non sarebbe stato verificato se l’imputato, pur detenuto, si fosse adoperato presentando domanda all’amministrazione penitenziaria per essere ammesso al lavoro - per procurarsi proventi o avesse percepito redditi, non potendosi attribuire decisiva valenza alla circostanza che la minore fosse stata aiutata economicamente dalla di lei madre. Considerato in diritto 1. Il ricorso è infondato. 2. La questione attiene al se ed eventualmente a quali condizioni lo stato di detenzione del soggetto obbligato possa rilevare ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 570 c.p Secondo una prima impostazione, che ha trovato riconoscimento nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, in tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare mediante l’omesso versamento delle somme stabilite dal giudice della separazione per il mantenimento dei figli minori, lo stato di detenzione dell’obbligato può configurarsi quale scriminante a condizione che 1 il periodo di detenzione coincida con quello dei mancati versamenti 2 l’obbligato non abbia percepito comunque dei redditi 3 lo stesso si sia attivato per procurarsi legittimamente dei proventi presentando all’amministrazione penitenziaria la domanda per essere ammesso al lavoro all’interno o all’esterno del luogo di detenzione. Solo nel caso in cui tale richiesta non sia accolta, si è precisato, non potrebbe essere addebitata all’obbligato la mancata percezione di guadagni durante il periodo di detenzione Sez. 6, n. 2382 del 15/12/2017, dep. 2018, L., Rv. 272024, in cui la Corte ha annullato con rinvio la sentenza che aveva ritenuto responsabile il ricorrente senza che fosse stato accertato se questi avesse o meno presentato domanda di ammissione al lavoro durante lo stato di detenzione . Si tratta di una impostazione che fa riferimento al principio secondo cui alla configurabilità del reato non osta una situazione di indisponibilità economica dell’obbligato, colpevolmente determinata, e perdurante nel periodo in cui si verifica l’inadempimento. Si esclude quindi la valenza esimente sia dello stato di disoccupazione cfr. tra le altre, Sez. 6, n. 5751 del 14/12/2010, dep. 2011, P., Rv. 249339, e Sez. 6, n. 10085 del 15/02/2005, Pegno, Rv. 231453 , salvo a valutare la concreta situazione Sez. 6, n. 7372 del 29/01/2013, S., Rv. 254515 , sia, più in generale, della indisponibilità dei mezzi necessari, quando questa sia dovuta, anche parzialmente, a colpa dell’obbligato Sez. 6, n. 11696 del 03/03/2011, F., Rv. 249655 . 3. Si tratta di una impostazione che lascia sullo sfondo il tema di chi debba provare la volontaria violazione dell’obbligo. Ove infatti si volesse recepire l’indirizzo giurisprudenziale indicato, nondimeno la prova della incolpevole impossibilità di adempiere non potrebbe essere posta a carico dell’imputato perché, se così fosse, sarebbero violate le regole dell’accertamento probatorio che impongono al pubblico ministero di provare il fatto oggetto della imputazione e la sua attribuibilità soggettiva al di là di ogni ragionevole dubbio. Dunque, è la pubblica accusa a dover provare che il soggetto, pur potendo, non abbia volontariamente adempiuto ovvero si sia posto in condizione di non adempiere. Diversamente, si addosserebbe all’imputato la prova di un fatto liberatorio strumentale all’esonero di una sorta di presunzione di responsabilità per posizione derivante dal mero fatto dell’inadempimento se cioè la prova della impossibilità incolpevole di adempiere fosse posta a carico dell’imputato si costruirebbe un meccanismo presuntivo per cui, in assenza di prova contraria, l’imputato dovrebbe ritenersi sempre responsabile del reato, persino nei casi in cui questi abbia assolto ad un onere di allegazione puntuale di fatti e circostanze specifiche ed astrattamente rilevanti. Un onere di allegazione che tuttavia non può trasmodare in una richiesta di prova diabolica, nè può essere inteso in collisione con la presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27 della Carta costituzionale. Le strettoie del diritto e del processo non possono essere superate per andare al cuore empirico della vicenda, massificando condotte e responsabilità individuali in nome di una semplificazione, o peggio, indifferenza, probatoria. Nel caso di specie, pur volendo ragionare con l’indirizzo nomofilattico su indicato, la Corte di appello ha spiegato che l’imputato a era stato detenuto in carcere per l’intero periodo in contestazione, cioè per tutto il tempo in cui il reato sarebbe stato commesso b aveva aiutato la figlia quando aveva potuto . A fronte di tale quadro di riferimento, nulla di specifico è stato dedotto, non avendo provato alcunché il Procuratore impugnante sulle condizioni economiche - anche pregresse - dell’imputato ed essendosi limitato ad affermare che l’imputato non ha fornito la prova, come avrebbe dovuto, che la sua incapacità economica non fosse assoluta . Un motivo di ricorso che, in assenza di un completo accertamento degli elementi costituitivi dell’accusa ed in presenza di un adeguato onere di allegazione da parte dell’imputato, pone a proprio fondamento un meccanismo probatorio presuntivo non consentito. Se è vero che, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, l’indisponibilità da parte dell’obbligato dei mezzi economici necessari ad adempiere si configura come scriminante soltanto se perduri per tutto il periodo di tempo in cui sono maturate le inadempienze e non sia dovuta, anche solo parzialmente, a colpa dell’obbligato - e, dunque, si tende a non attribuire allo stato di detenzione dell’obbligato la valenza di causa di forza maggiore idonea a scriminarne l’inadempimento atteso che tale condizione sarebbe a questi imputabile Sez. 6, n. 41697 del 15/09/2016 B, Rv. 268301 - si coglie tuttavia la tensione di tali affermazioni con i principi fondamentali dell’accertamento probatorio della penale responsabilità. In tal senso si comprende il senso dell’affermazione nomofilattica secondo cui, sebbene la situazione di detenzione prolungata non possa considerarsi quale causa giustificativa dell’inadempimento, tuttavia essa può essere valutata ai fini della verifica sulla sussistenza dell’elemento soggettivo, cioè della coscienza e volontà di sottrarsi, senza giusta causa, agli obblighi inerenti alla propria qualità e nella consapevolezza del bisogno in cui versa il soggetto passivo Sez. 6, n. 4960 del 21/10/2014, dep. 2015, S., Rv. 262157 . 4. Ne deriva l’infondatezza del ricorso. P.Q.M. Rigetta il ricorso del Pubblico Ministero. In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.