(Foto)copiare sì, ma con giudizio

La riproduzione di opere dell'ingegno, attraverso fotocopiatura o strumenti simili, è lecita soltanto per uso personale e limitatamente al quindici per cento di ogni singolo volume. Tale attività presuppone il pagamento di un compenso agli aventi diritto.

E' quanto affermato dalla Corte di Cassazione, con la sentenza 2000/20, depositata il 20 gennaio. Il fatto. La Corte d'Appello competente, confermando la statuizione del Tribunale di prime cure, condannava un imputato per l'illecito di riproduzione abusiva, a fini di lucro, di opere scientifiche art. 171- ter , lett. b , l. n. 633/1941 . In particolare, lo stesso, proprietario di una copisteria, era risultato in possesso – a seguito di ispezione da parte della Guardia di Finanza - di più di un centinaio di copie di testi scientifici, senza marchio SIAE, contenenti il testo intero e originale dell'opera di riferimento. Il disco rigido del computer della copisteria, poi, conteneva tanto i titoli delle opere, catalogati in un file excel, quanto la scansione di alcune delle stesse, in pdf. L'imputato ricorreva per cassazione, lamentando vizio di motivazione e violazione dell'art. 25 l. n. 633/1941, per il superamento del limite temporale di tutela del diritto d'autore. Limiti alla riproduzione delle opere d'ingegno. La Corte ha ritenuto inammissibile il ricorso. Esaminando congiuntamente gli art. 171- ter e 168 l. n. 633/1941, gli Ermellini hanno ricordato che è lecito riprodurre opere dell'ingegno, attraverso fotocopiatura o strumenti simili, soltanto per uso personale e limitatamente al quindici per cento di ogni singolo volume. Tale attività, peraltro, impone il pagamento di un compenso agli aventi diritto. Chi non ottemperi a quanto sopra, riproducendo opere dell'ingegno a fini di lucro, deve ritenersi penalmente perseguibile. Nel caso di specie, non vi sono particolari dubbi sullo scopo di guadagno dell'illecito, dal momento che la condotta è stata perpetrata in un esercizio pubblico e a favore di una clientela. Nè può esserci alcun dubbio in merito al fatto che le opere siano protette dal diritto d'autore, dal momento che i manoscritti riproducono testi scientifici. Il Collegio ha aggiunto poi, che ai fini dell'integrazione della fattispecie, non rileva soltanto lo strumento della fotocopiatura, ma anche quello della scannerizzazione. Limiti temporali della tutela. Ai sensi dell'art. 25 l. n. 633/1941, la tutela del diritto dell'autore opera per tutta la vita e settanta anni dopo la morte dello stesso. Questa disposizione rappresenta un'eccezione, che elide la rilevanza penale della condotta illecita. I Giudici del Palazzaccio hanno sottolineato che all'interno del procedimento penale, vi è una ripartizione dell'onere della prova per cui l'imputato non deve provare la sua innocenza, che sussiste fino a prova contraria. Però, certamente, qualora il giudice abbia già accertato degli elementi indicanti la colpevolezza dell'imputato, spetta a quest'ultimo darne prova contraria oppure instillare nel giudice almeno un dubbio in merito alla stessa. La Corte ha, quindi, dichiarato inammissibile il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 15 novembre 2019 – 20 gennaio 2020, n. 2000 Presidente Di Nicola – Relatore Scarcella Ritenuto in fatto 1. Con sentenza 27.02.2019, la Corte d’appello di Milano confermava la sentenza del tribunale di Monza 25.11.2015, appellata dal C. , che lo aveva condannato alla pena di 4 mesi di reclusione ed Euro 1800,00 di multa, con il concorso di attenuanti generiche, sostituita la pena detentiva L. n. 689 del 1981, ex art. 53, nella pena pecuniaria di 30.000Euro, per una pena complessiva di Euro 31.800,00, oltre alle pene accessorie di legge, riconoscendo il beneficio della sospensione condizionale delle predette pene, perché ritenuto colpevole del reato di cui alla L. n. 633 del 1941, art. 171-ter, lett. b , per aver abusivamente riprodotto a fini di lucro svariate opere scientifiche di cui deteneva, oltre ad esemplari già stampati, anche le copie in formato excel ed in pdf all’interno del proprio tower pc, in relazione a fatto contestato come commesso in data 2.10.2012. 2. Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del difensore di fiducia, iscritto all’Albo speciale previsto dall’art. 613 c.p.p., articolando un unico motivo, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. c.p.p 2.1. Deduce, con tale unico motivo, il vizio di mancanza della motivazione in relazione agli specifici motivi di gravame dedotti nell’atto di appello. Premesso che la sentenza d’appello non può essere valutata isolatamente da quella di primo grado, si osserva che l’ipotesi della c.d. doppia conforme è legittima ove il giudice di appello tenga conto sia delle censure dell’appellante che delle argomentazioni del primo giudice in ordine agli argomenti difensivi. Nel caso in esame, nè la sentenza di primo grado nè quella d’appello avrebbero risposto alle contestazioni difensive mosse nell’atto di appello dove si deduceva, da un lato, l’assenza del marchio SIAE all’interno dei volumi di cu si pretendeva la riproduzione abusiva da parte dell’imputato e, dall’altro, il superamento del limite temporale di tutela previsto dalla L. n. 633 del 1941, art. 25. Trattandosi di condizioni oggettive di punibilità, le stesse andavano verificate dal giudice, dandone conto nella motivazione, ciò che non sarebbe avvenuto nel caso di specie, atteso, peraltro, che il loro positivo accertamento avrebbe comportato l’assoluzione del reo d’altronde, si conclude, la prova della colpevolezza dell’imputato non poteva dirsi raggiunta a prescindere dalla verifica delle due condizioni di cui sopra, non potendo fondarsi la condanna su un quadro probatorio incompleto. Considerato in diritto 3. Il ricorso è inammissibile per genericità e manifesta infondatezza. 4. È anzitutto affetto da genericità per aspecificità, in quanto non si confronta con le argomentazioni svolte nella sentenza impugnata che confutano in maniera puntuale e con considerazioni del tutto immuni dai denunciati vizi motivazionali le identiche doglianze difensive svolte nel motivo di appello che, vengono, per così dire replicate in questa sede di legittimità senza alcuni apprezzabili elementi di novità critica , esponendosi quindi al giudizio di inammissibilità. Ed invero, è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione v., tra le tante Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 - dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849 . 5. Lo stesso è inoltre da ritenersi manifestamente infondato, atteso che la Corte d’appello ha, con motivazione adeguata e del tutto immune dai denunciati vizi, spiegato le ragioni per le quali ha disatteso le identiche doglianze difensive esposte nei motivi di impugnazione. 5.1. Ed invero, dalla sentenza impugnata - le cui motivazioni, come ricorda il ricorrente, si integrano reciprocamente con quelle della sentenza di primo grado Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013 - dep. 04/11/2013, Argentieri, Rv. 257595 risulta che nel corso di un accesso eseguito dalla GdF nei locali della copisteria gestita dall’imputato, erano state rinvenute e sequestrate 148 copie di testi scientifici, costituite a manuali di scienze mediche pubblicate da diverse case editrici, tra cui la Edises, riproducenti per intero il testo originale e munite di rilegatura, emergendo il rinvenimento di una sola copia di ciascun testo e solo per alcuni di essi, di due o al massimo tre copie. Nel disco rigido del computer presente nei locali della copisteria erano stati rinvenuti un file excel recante l’elenco di titoli di opere scientifiche tra cui quelle integralmente riprodotte dalle copie sottoposte a sequestro, sia alcuni file in formato pdf, relativi alla scansione alcune delle copie rinvenute in copia integrale nella copisteria. I giudici hanno escluso la fondatezza tesi difensiva, osservando come la dipendente non aveva ricevuto alcuna istruzione in ordine ai limiti della riproduzione delle opere d’arte da parte dei clienti nè aveva alcuna possibilità di effettuare verifiche a tal proposito. Analogamente priva di pregio era poi la giustificazione fornita dall’imputato quanto alla presenza delle copie rilegate, in assenza di un elenco dei clienti che le avrebbero consegnate per la rilegatura, come sostenuto dal ricorrente. 5.2. Circa, infine, la doglianza difensiva svolta in ricorso, secondo cui sarebbe riscontrabile il vizio di omessa motivazione in ordine al motivo di impugnazione con cui si contestava la sussistenza del reato, mancando per ogni singola opera scientifica sequestrata, i dati essenziali al fine di determinare l’ambito di tutela accordata dalla legge, segnatamente la presenza del marchio SIAE ed il superamento o meno del limite temporale di tutela previsto dalla L. n. 633 del 1941, art. 25, è agevole replicare come la mancanza di qualsiasi motivazione sul punto discendesse dall’inammissibilità del motivo. 6. Ed invero, si rileva come la norma L. n. 633 del 1941, art. 171-ter, lett. b , punisce la condotta di chiunque a fini di lucro abusivamente riproduce, trasmette o diffonde in pubblico, con qualsiasi procedimento, opere o parti di opere letterarie, drammatiche, scientifiche o didattiche, musicali o drammatico-musicali, ovvero multimediali, anche se inserite in opere collettive o composite o banche dati . Tale disposizione deve essere letta in combinato disposto con l’art. 68 della predetta L. n. 633 del 1941, che così dispone 1. È libera la riproduzione di singole opere o brani di opere per uso personale dei lettori, fatta a mano o con mezzi di riproduzione non idonei a spaccio o diffusione dell’opera nel pubblicomma 2. È libera la fotocopia di opere esistenti nelle biblioteche accessibili al pubblico o in quelle scolastiche, nei musei pubblici o negli archivi pubblici, effettuata dai predetti organismi per i propri servizi, senza alcun vantaggio economico o commerciale diretto o indiretto. 3. Fermo restando il divieto di riproduzione di spartiti e partiture musicali, è consentita, nei limiti del quindici per cento di ciascun volume o fascicolo di periodico, escluse le pagine di pubblicità, la riproduzione per uso personale di opere dell’ingegno effettuata mediante fotocopia, xerocopia o sistema analogo. 4. I responsabili dei punti o centri di riproduzione, i quali utilizzino nel proprio ambito o mettano a disposizione di terzi, anche gratuitamente, apparecchi per fotocopia, xerocopia o analogo sistema di riproduzione, devono corrispondere un compenso agli autori ed agli editori delle opere dell’ingegno pubblicate per le stampe che, mediante tali apparecchi, vengono riprodotte per gli usi previsti nel comma 3. La misura di detto compenso e le modalità per la riscossione e la ripartizione sono determinate secondo i criteri posti all’art. 181-ter della presente legge. Salvo diverso accordo tra la SIAE e le associazioni delle categorie interessate, tale compenso non può essere inferiore per ciascuna pagina riprodotta al prezzo medio a pagina rilevato annualmente dall’ISTAT per i libri. 5. Le riproduzioni per uso personale delle opere esistenti nelle biblioteche pubbliche, fatte all’interno delle stesse con i mezzi di cui al comma 3, possono essere effettuate liberamente nei limiti stabiliti dal medesimo comma 3 con corresponsione di un compenso in forma forfetaria a favore degli aventi diritto, di cui al comma 2 dell’arti-colo181-ter, determinato ai sensi del secondo periodo del comma 1 del medesimo art. 181-ter. Tale compenso è versato direttamente ogni anno dalle biblioteche, nei limiti degli introiti riscossi per il servizio, senza oneri aggiuntivi a carico del bilancio dello Stato o degli enti dai quali le biblioteche dipendono. I limiti di cui al comma 3 non si applicano alle opere fuori dai cataloghi editoriali e rare in quanto di difficile reperibilità sul mercato. 6. È vietato lo spaccio al pubblico delle copie di cui ai commi precedenti e, in genere, ogni utilizzazione in concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all’autore . 6.1. Ne discende, dunque, che, ai sensi della L. n. 633 del 1941, art. 68, è consentita la riproduzione per uso personale di opere dell’ingegno mediante fotocopiatura, o procedimenti analoghi, se limitata al quindici per cento di ogni volume ed è corrisposto un compenso forfettario a favore degli aventi diritto. Pertanto, la condotta di chi abusivamente riproduce opere letterarie tutelate dal diritto di autore per uso non personale e per trarne lucro ha rilevanza penale ed è punita a sensi della L. n. 644 del 1941, art. 171-ter, comma 1, lett. b . 6.2. Quanto all’elemento soggettivo, premesso che deve rilevarsi la differenza tra fine di profitto , contenuto nell’originaria versione della norma in esame, e fine di lucro , introdotto nel testo con la L. n. 248 del 2000, nondimeno, essa non ha incidenza dal momento che la abusiva riproduzione è avvenuta in un esercizio aperto al pubblico, qual è la copisteria, a favore di clienti, per cui lo scopo di un guadagno economico era insito nella operazione commerciale n senso conforme, da ultimo, cfr. Cass. pen. Sez. III, 8 marzo 2012, n. 13956 Cass., Sez. III, 11 maggio 2010, Garneri, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2010, 979, secondo cui l’abusiva riproduzione di opere letterarie tutelate dal diritto d’autore integra il reato previsto dalla L. n. 633 del 1941, art. 171-ter, comma 1, lett. b , solo nel caso di uso non personale ed in presenza del fine di profitto, configurandosi, in difetto, l’illecito amministrativo contemplato dall’art. 68 della citata legge . 6.3. Nel caso in esame, che si trattasse di copie tutelate dal diritto d’autore non richiedeva alcun specifico approfondimento, trattandosi di copie di testi scientifici riproducenti per intero il testo originale e munite di rilegatura, di cui l’imputato custodiva nel proprio pc sia il catalogo sul file excel che l’integrale contenuto scansionato sul file pdf . Ne discende, dunque, che, trattandosi di copie di testi scientifici riproducenti per intero il testo originale e munite di rilegatura, come descritto nelle sentenze di merito, era esclusa in radice la possibilità che sulle stesse fosse presente il marchio SIAE , nè risultando dagli atti che all’interno della copisteria fossero stati rinvenuti gli originali delle predette opere scientifiche, ma solo una o più copie stampate, oltre che il file pdf relativo alla scansione di alcune delle opere rinvenute in copia integrale nella copisteria, trattandosi di esercizio al pubblico non di vendita degli originali delle predette opere dell’ingegno ma solo di copisteria, dunque, destinato, per sua stessa finalità, alla vendita e commercializzazione delle fotocopie delle opere dell’ingegno. 6.4. A ciò, peraltro, si aggiunge quanto già chiarito dalla stessa sentenza d’appello, ossia che, in tema di tutela penale del diritto d’autore, integra il reato previsto dalla L. 22 aprile 1941, n. 633, art. 171 ter, comma 1, lett. b , la detenzione su elaboratore elettronico, per uso non personale ed al fine di profitto, di opera dell’ingegno abusivamente riprodotta mediante tecnica di scansionamento e destinata alla realizzazione di copie cartacee da porre in vendita In motivazione, la Corte ha osservato che la cd. scannerizzazione rientra, a mente del comma 3 dell’art. 68 della legge citata, tra i sistemi di riproduzione analoghi alla fotocopia e alla xerocopia Sez. 3, n. 23365 del 26/01/2016 - dep. 07/06/2016, Caggiano, Rv. 267342 . 7. Ad analogo approdo deve pervenirsi quanto all’ulteriore questione relativa al superamento o meno del limite temporale di tutela previsto dalla L. n. 633 del 1941, art. 25. Ed invero, l’eccezione difensiva si riferisce alla previsione secondo cui I diritti di utilizzazione economica dell’opera durano tutta la vita dell’autore e sino al termine del settantesimo anno solare dopo la sua morte . La durata dei diritti di utilizzazione economica delle opere dell’ingegno e dei prodotti tutelati dalla L. n. 633 del 1941, si noti, è stata prorogata dapprima di sei anni con D.Lgs.Lgt. 20 luglio 1945, n. 440, poi fino al 31 dicembre 1961, con L. 19 dicembre 1956, n. 1421, ed infine al 31 dicembre 1962, con L. 27 dicembre 1961, n. 1337. Per i termini di durata di protezione dei diritti di utilizzazione economica delle opere dell’ingegno vedi, ora, la L. 6 febbraio 1996, n. 52, art. 17, che l’ha elevata a settanta anni. In sostanza, trascorsi i 70 anni dalla morte dell’autore, l’opera si considera caduta in pubblico dominio ovvero non è più soggetta al diritto d’autore. Nel caso delle opere composte dal contributo indistinguibile di più soggetti, la durata dei diritti di utilizzazione economica è determinata sulla base della vita del coautore che muore per ultimo. Nelle opere collettive a ciascun soggetto spettano i diritti di utilizzazione economica sulla parte di cui egli è autore esclusivo. La durata dei diritti patrimoniali sull’opera collettiva nel suo complesso è di 70 anni dal momento della prima pubblicazione dell’opera. Quest’ultimo principio dei 70 anni dalla prima pubblicazione si applica anche per le opere anonime o pseudonime. 7.1. Trattandosi di eccezione che, di fatto, tende a privare di rilevanza penale la condotta di abusiva duplicazione mediante fotocopiatura dell’opera dell’ingegno coperta dal diritto d’autore - o meglio, delle sole prerogative patrimoniali riservate all’autore, che hanno una durata circoscritta nel tempo, laddove i diritti morali sono imprescrittibili - in quanto fondata sul decorso del termine di durata dei settanta anni, ne discende che l’onere di allegare l’elemento negativo del fatto, rappresentato dalla caduta in pubblico dominio dell’opera, grava sulla parte che intende beneficiarne, gravando sulla Pubblica Accusa l’obbligo di fornire la prova della sussistenza degli elementi del fatto tipico nella specie, il fine di lucro della riproduzione fotostatica delle opere dell’ingegno l’uso non personale delle copie fotostatiche l’abusività della riproduzione delle opere dell’ingegno . 7.2. In altri termini, dunque, l’onere della prova che l’opera dell’ingegno sia caduta in pubblico dominio a seguito dell’intervenuto decorso del termine di settanta anni, in quanto destinata a privare di rilevanza penale la condotta prevista dalla L. n. 633 del 1941, art. 171-ter, lett. b , grava su chi intende avvalersene, non ravvisandosi sul punto alcuna inversione dell’onere probatorio. 7.3. Del resto, la giurisprudenza di questa Corte ha già avuto modo di precisare, sebbene con riferimento alla ipotesi dell’art. 384 c.p., che, contemplando la stessa un’esimente ovvero un elemento negativo del fatto-reato, la prova della cui ricorrenza è demandata all’imputato che intende avvalersene e che, al fine di assolvere all’onere probatorio, non può limitarsi alla mera allegazione delle condizioni della sua esistenza, occorrendo l’indicazione di elementi specifici che pongano il giudice in condizione di rilevarne l’applicabilità Sez. 6, n. 1401 del 25/11/2014 - dep. 14/01/2015, Vigneri, Rv. 262054 . 7.4. Trattasi di soluzione ampiamente condivisibile. Ed invero, aderendo alla concezione che inquadra l’art. 25, I.d.a. come elemento negativo del fatto di reato, è possibile concludere che la pubblica accusa abbia l’onere di provare gli elementi positivi della fattispecie oggettiva, cioè la condotta dell’imputato, ed eventualmente il nesso di causalità e l’evento naturalistico, mentre la difesa debba provare gli elementi negativi del fatto o almeno insinuare il dubbio sulla presenza di essi , fra i quali si segnala, a mero titolo esemplificativo, la presenza delle cause di giustificazione. Per quanto riguarda l’elemento soggettivo, la pubblica accusa ha l’onere di provare la rappresentazione o la rappresentabilità degli elementi oggettivi del reato, mentre la difesa la rappresentazione della presenza di una causa di giustificazione, anch’essa elemento negativo del fatto. 7.5. A ben vedere, questa interpretazione non appare costituzionalmente illegittima, poiché l’oggetto di accertamento del procedimento penale resta comunque la colpevolezza dell’imputato, non la sua innocenza, sicché l’onere della prova in capo all’imputato sorgerebbe solo e soltanto qualora la pubblica accusa avesse dato prova della presenza degli altri elementi fondanti la colpevolezza dell’imputato in caso contrario, naturalmente, l’imputato potrebbe mantenere una condotta processuale inerte senza dover soddisfare alcun onere della prova ed essere ugualmente assolto. Inoltre, gli ultimi sospetti di illegittimità costituzionale possono essere fugati tenendo conto del differente quantum probatorio richiesto all’accusa e alla difesa infatti, l’art. 533 c.p.p. prevede che sia pronunciata una sentenza di condanna solo nel caso in cui l’imputato sia risultato colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio ciò significa che risulterebbe sufficiente un ragionevole dubbio riferito a qualsiasi elemento fondante la colpevolezza per assolvere l’imputato perché il fatto non sussiste o non costituisce reato art. 530 c.p.p. , anche qualora dei fatti indicanti la colpevolezza fosse stata data una prova più piena rispetto a quella offerta per i fatti a sostegno dell’innocenza dell’imputato. 7.6. D’altra parte, come si è anticipato, non è richiesto che l’imputato dia una prova completa della presenza o della rappresentazione di una delle cause di giustificazione, ma è sufficiente che insinui nel giudice anche solo il dubbio su di essa. In definitiva, l’onere della prova formale e quello sostanziale sembrano convergere, verso un unico concetto di onere della prova, in base al quale sia il pubblico ministero sia l’imputato devono provare i fatti che sostengono, altrimenti il giudice non potrà prenderli in considerazione. Lo stesso meccanismo opera, d’altra parte, ogniqualvolta il pubblico ministero riesca in un primo momento a convincere il giudice della colpevolezza dell’imputato la difesa, infatti, si troverebbe a questo punto gravata dall’onere di fornire una prova contraria. In altre parole, onere formale e onere sostanziale evidenziano aspetti diversi di uno stesso fenomeno il primo si adempie introducendo in giudizio gli elementi di prova secondo l’iter previsto dalla legge, mentre il secondo, anche detto onere della prova materiale, si soddisfa convincendo il giudice del fatto affermato. È bene mettere in luce che, anche se si adempie l’onere formale della prova, è comunque possibile che il giudice non sia convinto del fatto introdotto e quindi che l’onere sostanziale non sia soddisfatto d’altra parte, non sarebbe impossibile adempiere l’onere sostanziale pur non avendo soddisfatto quello formale si pensi ad un fatto introdotto incautamente dalla controparte, o persino dal giudice, nonostante l’inerzia di una parte . 7.7. Conferma decisiva della ricostruzione appena riportata si trae poi dall’insostenibilità delle conseguenze che deriverebbero dalla sua negazione infatti, a prescindere dal fatto che si voglia o meno riconoscere all’art. 25, I.d.a. natura di elemento negativo della fattispecie oggettiva di reato, risulterebbe davvero problematico richiedere alla pubblica accusa la prova della sua mancanza. Alla luce delle considerazioni precedenti, appare possibile riconoscere anche all’interno del processo penale la vigenza di una ripartizione dell’onere della prova, anche se ciò non significa che sia l’imputato a dover provare la propria innocenza infatti, l’imputato è e rimane innocente fino a sentenza definitiva di condanna art. 27 Cost., comma 2 , pertanto ben potrebbe rimanere inerte ed essere comunque assolto, qualora la sua colpevolezza non fosse dimostrata al di là di ogni ragionevole dubbio. È la colpevolezza dell’imputato il thema probandum del processo, non la sua innocenza. Tuttavia, qualora il giudice avesse già accertato gli elementi fondanti la colpevolezza dell’imputato, ricade su quest’ultimo l’onere di dare prova contraria, o almeno di insinuare nella mente del giudice un ragionevole dubbio sulla presenza di elementi che escludano la responsabilità penale, quali, ad esempio, la presenza di una causa di giustificazione, la non rappresentabilità o l’inevitabilità dell’evento o la concreta assenza di pericolo per l’interesse giuridico richiedere al giudice, viceversa, di accertare oltre agli elementi fondanti la responsabilità anche l’assenza di quelli che la escludano significherebbe nella maggior parte dei casi costringerlo ad una probatio diabolica. Inoltre, è la disciplina stessa degli elementi in questione ad orientare verso una ricostruzione di questo tipo, a partire dalle cause di giustificazione non è l’assenza delle cause di giustificazione a fondare la responsabilità penale, ma la loro presenza ad escluderla. Discorso analogo può essere fatto con riferimento alla colpa specifica non sono la rappresentabilità ed evitabilità dell’evento a permettere l’imputazione per delitto colposo, bensì è la non rappresentabilità o l’inevitabilità dell’evento ad escluderla, rispettivamente per caso fortuito o forza maggiore. Ancora, in caso di imputazione di un reato di pericolo presunto, non è l’accertamento concreto della messa in pericolo dell’interesse giuridico a fondare la responsabilità dell’agente, bensì è l’accertamento della concreta assenza di pericolo ad escluderla. 7.8. In ultima analisi, nell’accertamento della responsabilità penale sembra possibile distinguere tra gli elementi che fondano la responsabilità, che devono essere provati al di là di ogni ragionevole dubbio, e quelli che invece la escludono, come nel caso dell’art. 25, I.d.a. sarà sufficiente che dalle risultanze processuali emerga un ragionevole dubbio sulla presenza di questi ultimi per indurre il giudice a pronunciare sentenza di assoluzione, ed è anche questa garanzia a rassicurare ulteriormente sul rispetto dei principi costituzionali. 8. Ne discende, pertanto, l’inammissibilità originaria del motivo dedotto, rispetto alla quale, dunque, il silenzio motivazionale della Corte d’appello non inficia la sentenza impugnata, trovando infatti applicazione il principio, consolidato, secondo cui in tema di impugnazioni è inammissibile, per carenza d’interesse, il ricorso per cassazione avverso la sentenza di secondo grado, che non abbia preso in considerazione un motivo di appello, che risulti ab origine inammissibile per manifesta infondatezza, in quanto l’eventuale accoglimento della doglianza non sortirebbe alcun esito favorevole in sede di giudizio di rinvio tra le tante Sez. 2, n. 10173 del 16/12/2014 - dep. 11/03/2015, Bianchetti, Rv. 263157 . 9. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della somma, ritenuta adeguata, di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende. P.Q.M. La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende.