Oscillazioni giurisprudenziali sulla valenza scriminante della crisi di liquidità

Il reato di omesso versamento IVA è integrato dalla scelta consapevole di omettere i versamenti dovuti, a nulla rilevando la circostanza che la società attraversi una fase di criticità e destini risorse finanziare per fare fronte a pagamenti di debiti ritenuti più urgenti, elemento che rientra nell’ordinario rischio di impresa e che non può certamente comportare l’inadempimento della obbligazione contratta con l’Erario.

La Corte di Cassazione con la pronuncia in commento n. 50007/19 torna a stringere le maglie per riconoscere valenza scriminante alla crisi di liquidità, rispetto al delitto di omesso versamento IVA. Crisi di liquidità e gruppo di società. Il merito della vicenda, da cui trae origine la pronuncia in commento, si segnala per l’appartenenza della impresa a cui viene attribuita la condotta incriminata ad un gruppo aziendale più vasto. Avverso la sentenza della Corte di Appello di Bologna propone infatti ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato deducendo che la grave crisi finanziaria, che aveva colpito l’autoconcessionaria in questione, era stata fronteggiata dall’imprenditore di riferimento del gruppo di società con ingenti interventi finanziari, che tuttavia non avevano avuto valenza risolutiva, in quanto l’azienda aveva dovuto prioritariamente pagare gli stipendi ai dipendenti ed il principale fornitore, cioè la casa automobilistica, onde non essere costretto ad una repentina interruzione dell’attività di impresa. Evidenziava, dunque, il ricorrente come la grave crisi di liquidità fosse stata fronteggiata dall’imprenditore facendo ricorso a tutte le risorse disponibili, anche ponendo in essere atti di disposizione sfavorevoli per il proprio patrimonio personale e dunque l’imputato avesse assolto il rigoroso onere di allegazione che la giurisprudenza di legittimità richiede onde ritenere escluso il dolo rilevante ai sensi del delitto di omesso versamento di IVA. Nel dettaglio, l’imprenditore di riferimento del gruppo aziendale aveva anche ipotecato un proprio bene immobile per fronteggiare la crisi e contenere gli oneri finanziari e ridare operatività alle proprie società, fra cui quella di cui era legale rappresentante l’odierno ricorrente. Si evidenziava, infine, come anche le norme sul concordato preventivo ed il nuovo codice della crisi di impresa e d’insolvenza non prevedessero la postergazione dei crediti tributari rispetto a quelli del lavoro. La stretta” della Cassazione. Particolarmente rigoroso l’atteggiamento assunto dagli Ermellini. Osservano infatti i giudici della Suprema Corte che la Corte di Appello ha fatto corretta applicazione delle norme di legge e della giurisprudenza di legittimità elaborata sul tema. Sul fronte obbiettivo, evidenzia la Corte, deve constatarsi il mancato pagamento dell’IVA per ben due anni, IVA che l’imprenditore aveva regolarmente incassato e i cui proventi erano state destinati, per stessa ammissione del ricorrente, al pagamento di stipendi e dei principali fornitori per garantire la continuità dell’attività aziendale. Sulla base di tale premesse la Corte ripercorre i precedenti giurisprudenziali fornendone, come anticipato, una interpretazione restrittiva. Si osserva, infatti, come la prova del dolo del reato in questione - che si qualifica come omissivo istantaneo – si rinviene nella scelta di non pagare l’imposta dovuta in base alla stessa dichiarazione presentata dall’imprenditore, a nulla rilevando che il mancato pagamento derivi dalla scelta imprenditoriale di privilegiare il saldo di fornitori essenziali e dipendenti. Ciò attiene, si evidenzia, ai motivi a delinquere, ma non alla esclusione del dolo di inadempimento. Peraltro, osserva la Corte, l’invocata forza maggiore deve riferirsi ad un avvenimento imponderabile che annulla la signoria del soggetto sui propri comportamenti, impedendo di configurare un’azione penalmente rilevante per difetto del generale requisito della suitas della condotta. La stessa espressione letterale di forza maggiore, prosegue la motivazione, prefigura la situazione di un soggetto assolutamente privo della possibilità di sottrarsi a una forza per lui irresistibile in proposito si dice che il soggetto non agit, sed agitur . Operando dunque una rilettura degli stessi precedenti richiamati dal ricorrente ritiene la Terza Sezione che nei fatti ricostruiti in sentenza non possa in alcun modo configurarsi la forza maggiore. Da un lato, la crisi aziendale, risalente al 2008, non era un evento assolutamente imprevedibile nel 2010 e 2011, dall’altro lato, l’omesso versamento dell’IVA, conclude la Corte, fu solo il frutto di una scelta volontaria e discrezionale dell’imprenditore, che, pur avendo le risorse, aveva scientemente scelto di pagare altri creditori, a ciò [etero]destinando l’IVA pur entrata nel suo patrimonio. Il precedente di segno contrario. E’ il caso di segnalare come la stessa Sezione, seppur in diversa composizione, con pronuncia risalente a meno di due mesi fa Cass. Pen. Sez. III, 16.10.2019, ud. 05/06/2019, n. 42522 si fosse pronunciata in senso diametralmente opposto in vicenda del tutto analoga a quella appena disaminata, a carico del medesimo ricorrente, legale rappresentante, nell’occorso, di altra società, ma facente parte del medesimo gruppo di aziende, di cui alla pronuncia in commento. Nel proprio recente – e di segno opposto – precedente la cassazione era stata chiamata a pronunciarsi su ricorso proposto dal Procuratore generale presso la Corte di Appello avverso sentenza assolutoria della Corte di Appello di Bologna che aveva riformato la pronuncia di condanna emessa dal Tribunale di Modena. I giudici di appello avevano ritenuto di pervenire alla assoluzione dello stesso imputato, sempre legale rappresentante di altra autoconcessionaria, sulla base del rilievo che i soci di controllo della medesima società capogruppo avevano adottato soluzioni idonee a tentare di fronteggiare la crisi finanziaria che aveva, tra le altre, colpito anche la società amministrata dall’imputato, facendo ricorso anche a beni personali allo scopo di reperire la liquidità necessaria per assolvere alle obbligazioni sociali. La Corte di appello aveva sottolineato che la scelta dell’imputato di provvedere al pagamento di dipendenti e fornitori era avvenuta in una prospettiva di continuità aziendale, nella convinzione che tale opzione avrebbe consentito la prosecuzione dell’attività di impresa, il conseguimento di ricavi e la produzione di utili e, quindi, anche l’adempimento della obbligazione tributaria alla scadenza, con la conseguente insussistenza della rappresentazione da parte dell’imputato medesimo della mancanza delle risorse necessarie per assolvere a tale adempimento alla scadenza. La Cassazione aveva ritenuto, nel rigettare il ricorso proposto dal Procuratore Generale, che la Corte di Appello avesse fatto buon governo dei principi giurisprudenziali elaborati sul punto e confermato la pronuncia assolutoria del giudice di secondo grado. Un contrasto da risolvere in nome della nomofilachia. Appare evidente come quanto sopra riportato fornisca la plastica prova di una attuale esistente e ormai persistente incertezza interpretativa sulla base di principi giurisprudenziali che, formalmente vengono condivisi e ripetuti in modo costante dalla giurisprudenza di legittimità, ma dei quali nel caso concreto, pur in presenza della medesima identica situazione fattuale nel caso di specie trattavasi del medesimo imputato e del medesimo gruppo aziendale viene operata da parte anche della stessa Sezione della Cassazione, interpretazione opposta. L’incertezza interpretativa che ne deriva appare integrare un insanabile contrasto con la funzione nomofilattica che il nostro ordinamento attribuisce alla Corte di cassazione, che invece, nel caso di specie, diventa foriera di dubbi e di contrapposte interpretazioni. Resta da chiedersi se l’aperto contrasto debba trovare soluzione ad opera delle Sezioni Unite, ovvero non sia sufficiente il ricorso ad una necessaria quanto auspicabile costante interpretazione più garantista ed aderente al dato sostanziale, rispetto a quella formalistica e punitiva che la pronuncia in commento pare rilanciare”.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 4 ottobre – 11 dicembre 2019, n. 50007 Presidente Izzo – Relatore Semeraro Ritenuto in fatto 1. La Corte di Appello di Bologna, con sentenza del 19 marzo 2019, in parziale riforma di quella del Tribunale di Modena del 24 novembre 2016, ha condannato B.M. , concesse le circostanze attenuanti generiche, la sospensione condizionale della pena e la non menzione, alla pena di sei mesi di reclusione, oltre alle pene accessorie D.Lgs. n. 74 del 2000, ex art. 12, per il delitto di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter, perché in qualità di legale rappresentante della Modena Sport Car s.r.l., non versò l’imposta sul valore aggiunto, pari ad Euro 301.900,00 dovuta in base alla dichiarazione annuale relativa all’anno d’imposta 2010, nel termine ultimo previsto per il relativo versamento dell’acconto, il omissis , con fatti commessi in . La corte territoriale ha, altresì, dichiarato non doversi procedere nei confronti dell’imputato per il delitto di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter, commesso il omissis , per l’anno d’imposta 2009, con iva non versata pari ad Euro 679.995,00, perché estinto il reato per prescrizione. 2. Avverso la sentenza della Corte di Appello di Bologna, ha proposto ricorso per cassazione il difensore di B.M. . 2.1. Con il primo motivo si deducono i vizi di legge e della motivazione, ex art. 606 c.p.p., lett. b ed e , in relazione alla carenza dell’elemento soggettivo del reato e all’assenza di esigibilità della condotta. La Corte territoriale non avrebbe considerato le censure e le allegazioni difensive, atte a dimostrare l’impossibilità di addebitare al ricorrente la crisi economica e finanziaria che aveva colpito la società l’appartenenza della Modena Sport Car s.r.l. ad un gruppo aziendale più vasto, al cui vertice vi era il Dott. F.V. che aveva compiuto ingenti interventi finanziari per dare sostegno alle proprie aziende nel periodo della crisi l’impossibilità oggettiva di omettere il pagamento degli stipendi e del principale fornitore del gruppo, ovvero le case automobilistiche, non essendo altrimenti possibile proseguire le attività d’impresa. Si contesta la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui sostiene che la crisi finanziaria d’impresa non inciderebbe sul dolo generico esclude che possa ravvisarsi una causa di forza maggiore considera la scelta di preservare la vita aziendale un’omissione cosciente e volontaria e non una scelta obbligata. Su quest’ultimo punto, si richiamano le sentenze n. 5467 del 2013, n. 19426 del 2014 e n. 12906 del 2018. Nel caso di crisi di liquidità, che non dipenda da scelte di non far fronte all’obbligo tributario, il dolo potrebbe essere escluso se l’imputato, osservando oneri di allegazione e di prova rigorosi, dimostri che le difficoltà economiche non siano a lui imputabili e che le stesse non possano essere fronteggiate, nemmeno con misure sfavorevoli al proprio patrimonio personale. Il ricorrente avrebbe dato la prova dell’assenza di dolo nonostante la crisi, avrebbe continuato a pagare i fornitori e gli stipendi dei lavoratori, cercando di non interrompere la continuità aziendale, così come confermato dal teste D.P. . Nonostante l’esito improduttivo, a causa di una concomitante crisi del mercato degli immobili, il Dott. F.V. avrebbe, perfino, ipotecato un proprio bene personale per contenere gli oneri finanziari e ridare operatività alle società controllate, tra cui quella di cui l’imputato era il legale rappresentante. Sarebbe errato porre il soggetto nelle condizioni di scegliere se privilegiare la remunerazione dei fattori produttivi per perseguire la sopravvivenza dell’azienda o se adempiere agli oneri tributari, e, soprattutto far dipendere da tale scelta la sussistenza o meno del dolo richiesto per l’integrazione del reato, con menzione della sentenza delle S.U. n. 34725 del 2013. Le norme sul concordato preventivo ed il nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza prevedono la postergazione dei crediti tributari rispetto a quelli del lavoro. 2.2. Con il secondo motivo si contesta la violazione dell’art. 37 c.p La corte territoriale, nel dichiarare non doversi procedere perché estinto per prescrizione il fatto commesso il OMISSIS , ha rideterminato la pena principale finale in mesi sei di reclusione, ma non avrebbe ridotto la durata della sanzione accessoria dell’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, in egual misura, peraltro, rispettando il minimo edittale previsto dalla disposizione normativa. Considerato in diritto 1. Il primo motivo di ricorso è infondato, avendo la Corte di appello fatto corretta applicazione delle norme e dei principi giurisprudenziali ed essendo la motivazione immune da vizi. 1.1. È incontestato sia l’omesso versamento dell’Iva, per altro per due anni, sia l’effettiva riscossione delle somme che il ricorrente, quale legale rappresentante, avrebbe dovuto versare a titolo di Iva. Secondo lo stesso ricorrente, le somme percepite a titolo di Iva sono state destinate al pagamento dei fornitori e degli stipendi, per non interrompere la continuità aziendale, e sarebbe stato fatto di tutto per fronteggiare la crisi. La scelta di preservare la vita aziendale costituirebbe, in sostanza, una causa di esclusione del dolo. 1.2. La tesi difensiva è infondata in diritto contrariamente a quanto si afferma nel ricorso la giurisprudenza è consolidata quanto alla valutazione della crisi di impresa in relazione al reato D.Lgs. n. 74 del 2000, ex art. 10-ter. 1.3. Secondo il costante orientamento della giurisprudenza, il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter, è di natura omissiva e istantanea è punibile a titolo di dolo generico che consiste nella coscienza e volontà di non versare all’Erario le somme dovute a titolo di Iva del periodo considerato. 1.3.1. La prova del dolo è insita in genere nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta, e che deve, quindi, essere saldato o almeno contenuto non oltre la soglia, entro il termine lungo previsto. Per la sussistenza del reato in questione non è richiesto il fine di evasione, tantomeno l’intima adesione del soggetto alla volontà di violare il precetto. Cfr. nello stesso senso Sez. 3 n. 43599 del 09/09/2015, Mondini, Rv. 265262, che ha affermato che la scelta di non pagare l’imposta dovuta prova il dolo infatti, la scelta imprenditoriale attiene ai motivi a delinquere e non può pertanto minimamente escludere la sussistenza del dolo. 1.3.2. Come indicato da Sez. 5, n. 23026 del 03/04/2017, Mastrolia, Rv. 270145 - 01, in motivazione, l’esimente della forza maggiore ex art. 45 c.p. sussiste in tutti i casi nei quali l’agente abbia fatto quanto era in suo potere per uniformarsi alla legge e che per cause indipendenti dalla sua volontà non vi era la possibilità di impedire l’evento o la condotta antigiuridica. Pertanto, la forza maggiore non può che riferirsi ad un avvenimento imponderabile che annulla la signoria del soggetto sui propri comportamenti, impedendo di configurare un’azione penalmente rilevante per difetto del generale requisito della coscienza e volontarietà della condotta previsto dall’art. 42 c.p., comma 1. Tale interpretazione dell’esimente in oggetto è quella che meglio si sposa non solo con il significato fatto proprio dall’espressione, la quale prefigura la situazione di un soggetto assolutamente privo della possibilità di sottrarsi a una forza per lui irresistibile in proposito si dice che il soggetto non agit, sed agitur , ma anche con il dato normativo, giacché, da una parte, l’art. 46 c.p. enuclea un’ipotesi speciale di forza maggiore disciplinando il costringimento fisico, peraltro esplicitandone i caratteri e, dall’altra, l’art. 54 c.p. regola l’ipotesi diversa in cui la volontà dell’autore sia coartata in modo non assoluto bensì relativo, residuando in capo al soggetto un margine di scelta. 1.3.3. Applicando tali principi al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter, la sentenza Mondini, alla cui motivazione si rimanda per la ricostruzione sistematica, ha affermato la forza maggiore sussiste solo e in tutti quei casi in cui la realizzazione dell’evento stesso o la consumazione della condotta antigiuridica è dovuta all’assoluta ed incolpevole impossibilità dell’agente di uniformarsi al comando, mai quando egli si trovi già in condizioni di illegittimità. Poiché la forza maggiore postula la individuazione di un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, che esula del tutto dalla condotta dell’agente, sì da rendere ineluttabile il verificarsi dell’evento, non potendo ricollegarsi in alcun modo ad un’azione od omissione cosciente e volontaria dell’agente, la Corte di Cassazione ha sempre escluso che le difficoltà economiche in cui versa il soggetto agente possano integrare la forza maggiore penalmente rilevante Sez. 3, n. 4529 del 04/12/2007, Cairone, Rv, 238986 . 1.3.4. Nello stesso solco si pone la sentenza di Sez. 3 del 13 novembre 2018, n. 12906, Canella, citata dalla difesa, che ha affermato che il reato di omesso versamento IVA è integrato dalla scelta consapevole di omettere i versamenti dovuti, non rilevando la circostanza che la società attraversi una fase di criticità e destini risorse finanziarie per far fronte al pagamento di debiti ritenuti più urgenti, elemento che rientra nell’ordinario rischio di impresa e che non può certamente comportare l’inadempimento dell’obbligazione fiscale contratta con l’erario. La sentenza Canella ha poi aggiunto che Tale elemento può rilevare come causa di forza maggiore di cui all’art. 45 c.p., solo se siano assolti gli oneri di allegazione idonei a dimostrare non solo l’asserita crisi di liquidità, ma anche che detta crisi non sarebbe stata fronteggiabile tramite il ricorso ad apposite procedure da valutarsi in concreto, non ultimo il ricorso al credito bancario. L’imprenditore deve quindi provare di aver posto in essere, senza successo per causa a lui non imputabile, tutte le misure anche sfavorevoli per il proprio patrimonio personale idonee a reperire la liquidità necessari per adempiere il proprio debito fiscale . . 1.3.5. Con riferimento ad altra ipotesi di reato, Sez. 3, n. 43811 del 10/04/2017, Agozzino, Rv. 271189 - 01, ha affermato che il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali è a dolo generico, ed è integrato dalla consapevole scelta di omettere i versamenti dovuti, ravvisabile anche qualora il datore di lavoro, in presenza di una situazione di difficoltà economica, abbia deciso di dare preferenza al pagamento degli emolumenti ai dipendenti ed alla manutenzione dei mezzi destinati allo svolgimento dell’attività di impresa, e di pretermettere il versamento delle ritenute all’erario, essendo suo onere quello di ripartire le risorse esistenti all’atto della corresponsione delle retribuzioni in modo da adempiere al proprio obbligo contributivo, anche se ciò comporta l’impossibilità di pagare i compensi nel loro intero ammontare. 1.4. Va poi ricordato che Sez. U, n. 37424 del 28/03/2103, Romano, Rv. 255757, hanno affermato che il debito verso il fisco relativo ai versamenti IVA è normalmente collegato al compimento delle operazioni imponibili. Ogni qualvolta il soggetto d’imposta effettua tali operazioni riscuote già dall’acquirente del bene o del servizio l’IVA dovuta e deve, quindi, tenerla accantonata per l’Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere all’obbligazione tributaria. L’obbligo di accantonamento è strettamente collegato alla natura giuridica di profitto del reato delle somme non versate a titolo di Iva. 1.5. Di tale profitto, infatti, è prevista la confisca obbligatoria D.Lgs. n. 74 del 2000, ex art. 12-bis, anche per equivalente le somme non versate a titolo di Iva, pertanto, sono destinate in caso di condanna ad essere sottratte al patrimonio del reo, essendo già a monte destinate alla collettività. Nè è possibile che consentire che l’autore del reato possa autofinanziarsi con risorse non proprie, con quelle destinate alla collettività, percependo così il profitto illecito del reato e reimpiegandolo, sottraendolo così anche alla confisca obbligatoria. 1.6. Per come ricostruiti i fatti in sentenza, non può minimamente ritenersi sussistente la forza maggiore nè inesistente il dolo. La crisi aziendale risalirebbe al 2008, quindi non era affatto un evento imprevisto ed imprevedibile nel 2010 e nel 2011, anni in cui è maturato il debito iva ed in cui scadeva il termine lungo per il pagamento le perdite secondo quanto riportato in sentenza, erano in diminuzione dal 2008, e nell’esercizio 2010, come notato dalla Corte di appello, erano di Euro 167.000. A fronte dell’analisi dei dati documentali la Corte di appello ha ritenuto che la crisi aziendale non fosse assoluta che l’omesso versamento dell’iva fu solo il frutto della scelta volontaria e discrezionale dell’imprenditore, il quale, pur avendo le risorse, essendo risultato provato che l’iva da versare era entrata nel patrimonio sociale, aveva scelto di pagare altri creditori. Dunque, la motivazione è del tutto immune da vizi ed ha correttamente applicato i principi di diritto prima enucleati, dimostrando la sussistenza del dolo. 2. Il secondo motivo è fondato limitatamente alla pena accessoria dell’interdizione degli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12. Le pene accessorie di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12, comma 2, lett. b , c sono state applicate nel minimo e non possono essere ridotte ulteriormente. La durata della pena accessoria di cui alla lett. d è fissa e non può essere modificata. 2.1. La durata della pena accessoria di cui alla lett. a fu fissata in primo grado in misura pari alla pena inflitta, tenuto conto dell’orientamento di Sez. 3, n. 14954 del 02/12/2014, rv. 263045. 2.2. Tale orientamento è stato però superato dall’interpretazione, anche costituzionalmente orientata, espressa da Sez. U, con la sentenza n. 28910 del 28/02/2019, Suraci, Rv. 276286 - 01, per cui La durata delle pene accessorie per le quali la legge stabilisce, in misura non fissa, un limite di durata minimo ed uno massimo, ovvero uno soltanto di essi, deve essere determinata in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 c.p. e non rapportata, invece, alla durata della pena principale inflitta ex art. 37 c.p. . In motivazione le Sezioni Unite hanno affermato che la regola della equiparazione meccanica della durata della pena accessoria a quella della pena principale in concreto inflitta assume una funzione residuale, cui fare ricorso nei casi in cui la legge in astratto sia priva di qualsiasi indicazione sul profilo temporale che circoscriva e guidi l’esercizio del potere dosimetrico del giudice. Ne consegue che la durata della pena accessoria deve essere rideterminata secondo il nuovo orientamento delle Sezioni Unite. 2.3. Ritiene la Corte che, ai sensi dell’art. 620 c.p.p., lett. l , tenuto conto di quanto riportato nelle sentenze di merito, può procedersi alla rideterminazione della pena accessoria nel minimo di mesi 6, secondo il criterio già adoperato per le altre pene accessorie. Pertanto, il ricorso può essere accolto limitatamente alla durata della pena accessoria dell’interdizione degli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12, lett. a la cui durata si riduce a 6 mesi. Va infine rilevato che il termine di prescrizione non è decorso, dovendo essere considerato anche il periodo di sospensione della prescrizione dal 12 giugno 2014 al 9 aprile 2015, per 301 giorni. Il termine decorrerebbe dal 23 aprile 2020. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla durata della sanzione accessoria dell’interdizione degli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, durata che ridetermina in mesi 6. Rigetta il ricorso nel resto.