La demolizione del manufatto abusivo è sanzione accessoria “oggettivamente” amministrativa

In tema di reati edilizi, e specificamente in materia di ripristino o demolizione dello stato dei luoghi anteriore alla realizzazione del fabbricato abusivo, la demolizione del manufatto abusivo, anche se disposta dal giudice penale ai sensi dell’art. 31, comma 9, testo unico dell’edilizia, qualora non sia stata altrimenti eseguita, ha natura di sanzione amministrativa che assolve ad un’autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio, non ha finalità punitive ed ha carattere reale, producendo effetti sul soggetto che è in rapporto col bene, indipendentemente dall’essere stato o meno quest’ultimo l’autore dell’abuso.

Lo ha stabilito la III sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 49416/19, depositata il 5 dicembre. La disciplina dell’ordine di demolizione nei reati edilizi Preliminarmente, occorre ricordare che l’ordine di demolizione è una sanzione amministrativa di natura ablatoria e giurisdizionale, la cui esecuzione compete all’autorità giudiziaria, non essendo ipotizzabile, né logicamente spiegabile, che l’esecuzione di un provvedimento, adottato dal giudice penale, venga affidato alla pubblica amministrazione. Peraltro, l’ordine di demolizione, pur avendo natura amministrativa, è atto giurisdizionale che deve essere disposto dal giudice con la sentenza di condanna. Ne consegue che, in caso di mancata statuizione in tal senso, il dispositivo della sentenza potrà essere integrato solo dal giudice di appello. Infatti la procedura di cui all’art. 130 c.p.p. relativa alla correzione di errori materiali nel provvedimento emanato può essere applicata solo per porre rimedio ad errori od omissioni rilevabili dal contesto del provvedimento, e di natura tale da non modificare il contenuto essenziale dello stesso, mentre l’omissione in questione integra un vitium iudicando rettificabile solo in sede di impugnazione a seguito di rituale investitura del giudice di essa. Inoltre, l’obbligo di demolizione si configura come un dovere di restitutio in integrum dello stato dei luoghi, e come tale non può non avere ad oggetto sia il manufatto abusivo originariamente contestato, sia le opere accessorie e complementari nonché le superfetazioni successive, sulle quali si riversa il carattere abusivo della originaria costruzione. L'ordine di demolizione di cui all'art. 31, comma 9, d.P.R. n. 380/2001 è sanzione caratterizzata dalla natura giurisdizionale dell'organo istituzionale al quale il relativo esercizio è attribuito, ma sostanzialmente amministrativa di tipo ablatorio, che il giudice deve disporre anche nella sentenza applicativa di pena concordata tra le parti ai sensi dell’art. 444 c.p.p A tale sentenza, sono ricollegabili tutti gli effetti di una sentenza di condanna, ad eccezione di quelli espressamente indicati dall'art. 445, comma 1, c.p.p., fra i quali non è compresa la sanzione in oggetto non trattandosi di pena accessoria né di misura di sicurezza . La natura amministrativa della sanzione demolitiva. Non deve meravigliare la possibilità di adottare da parte del giudice penale misure aventi natura di sanzione amministrativa si ritiene ormai superato il criterio che distingue tra sanzioni penali ed amministrative in base all'autorità competente ad adottarla, per cui è amministrativa la sanzione irrogata dall'autorità amministrativa, penale quella inflitta dalla relativa autorità giudiziaria. Del resto, in merito sembra fugare ogni dubbio la circostanza che il potere di ordinare la demolizione dell'opera abusiva da parte del giudice penale, non costituisce espressione di supplenza delle autorità amministrative, ma è manifestazione di un potere autonomo anche se coordinabile con quello della Pubblica Amministrazione. Quindi, tale potere ha una funzione direttamente ripristinatoria del bene offeso, attraverso l'eliminazione delle conseguenze del reato, riconnettendosi all'interesse statuale sotteso all'esercizio della potestà penale. Il contrapposto orientamento giurisprudenziale. Secondo un isolato orientamento, l'ordine di demolizione emesso dal giudice penale avrebbe invece natura di pena accessoria ciò scaturirebbe da una serie di elementi, quali la sussistenza di un reato come presupposto di una sentenza di condanna del giudice nell'esercizio di un potere autonomo e non in sostituzione della Pubblica Amministrazione di garanzie del procedimento penale del carattere della non revocabilità salva l'ipotesi d'inesistenza del reato accertata negli altri gradi di giudizio ed inderogabilità della sentenza pronunciata. Ad ulteriore sostegno di tale prospettazione si fa rilevare che il contenuto dell'ordine di demolizione ha carattere riparatorio e ciò l'avvicinerebbe alle forme di obbligazioni civili nascenti dal reato in quanto illecito anche civile, come si desumerebbe dall'art. 18 l. n. 349/1986, secondo cui in via generale e non solo nell'ambito della materia urbanistica il giudice nella sentenza di condanna ordina, ove possibile, il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile .

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 12 settembre – 5 dicembre 2019, n. 49416 Presidente Liberati – Relatore Androino Ritenuto in fatto 1. Con ordinanza del 11 aprile 2019, la Corte d’appello di Napoli, in funzione di giudice dell’esecuzione, ha rigettato l’istanza dell’interessata diretta ad ottenere la dichiarazione di revoca o sospensione dell’ordine di demolizione di un’opera edilizia abusiva, di cui alla sentenza della medesima Corte d’appello del 23 marzo 1999, divenuta irrevocabile il 15 maggio 1999, con la quale la stessa era stata condannata per l’abusiva realizzazione di un corpo di fabbrica in cemento armato, composto da piano cantinato, primo e secondo piano. 2. Avverso l’ordinanza l’interessata ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento. 2.1. Con un primo motivo di doglianza nn. 1 e 2 del ricorso , si lamentano la violazione della L. n. 724 del 1994, della L. n. 47 del 1985, artt. 31 e 38, nonché vizi della motivazione in relazione all’erronea valutazione della concessione edilizia in sanatoria n. 32 del 29 ottobre 2010 e a quanto dichiarato all’udienza del 17 gennaio 2019 dal tecnico del Comune, il quale aveva riferito che si era intesa come rilasciata l’autorizzazione paesaggistica, a seguito di silenzio-assenso della Sovraintendenza competente. La Corte d’appello avrebbe ritenuto illegittimo tale provvedimento, affermando che l’opera abusiva non sarebbe condonabile in mancanza del requisito del totale completamento del rustico alla data del 31 dicembre 1993, senza che il tecnico comunale escusso avesse chiarito nulla sul punto. 2.2. In secondo luogo nn. 3 e 4 del ricorso , si deducono vizi della motivazione in ordine alla ritenuta non condonabilità dell’opera, perché non ultimata al 31 dicembre 1993, e si lamenta la mancata assunzione di prova decisiva. Contro le conclusioni della Corte d’appello, si richiamano il certificato di residenza, le dichiarazioni di due testimoni ritenute non attendibili dalla Corte distrettuale perché smentite dalla sentenza di condanna, i rilievi fotografici del 6 novembre 1993, dai quali emergeva che le tamponature non erano state effettuate, pur essendo sufficienti due mesi di attività per concluderle. 2.3. Con una terza censura n. 5 del ricorso , si deducono vizi della motivazione e la violazione della L.R. Campania n. 21 del 2003, contestando la motivazione del provvedimento impugnato secondo cui la concessione edilizia è illegittima perché il Comune rientra in una zona rossa di rischio sismico e vulcanico. Ad avviso della ricorrente, sono suscettibili di permesso di costruire in sanatoria tutte le domande di condono edilizio presentate ai sensi delle L. n. 1985 del 1994, ad eccezione di quelle relative agli abusi edilizi realizzati sulle aree del territorio regionale sottoposte ai vincoli della L. n. 47 del 1985, art. 33, solo qualora i predetti vincoli comportino l’inedificabilità assoluta delle aree su cui insistono e siano stati imposti prima dell’esecuzione delle opere stesse. Non si sarebbe considerato, inoltre, che non vi era aumento del carico urbanistico perché il nucleo familiare aveva sempre vissuto in quel Comune e non vi si era trasferito a seguito della realizzazione dell’immobile abusivo. Sarebbero stati violati anche i principi di proporzionalità, idoneità, necessarietà e adeguatezza dell’attività amministrativa, non essendo la demolizione giustificabile dopo più di 25 anni dall’abuso, a fronte del fondamentale diritto all’abitazione. 2.4. In quarto luogo censura al n. 6 del ricorso non si sarebbe verificata la compatibilità dell’ordine di demolizione con un eventuale provvedimento amministrativo di sanatoria, non essendo stato comunicato l’ordine stesso all’amministrazione comunale, la quale avrebbe potuto fare applicazione della L.R. n. 5 del 2013, art. 1, comma 65, in base al quale il Comune, previa apposita approvazione di regolamento, può decidere per la dismissione o per la locazione del bene da demolire. 2.5. Si deduce, poi n. 7 del ricorso , l’erronea applicazione della D.L. n. 2 del 1988, art. 6, convertito dalla L. n. 68 del 1988, che ha modificato la L. n. 47 del 1985, art. 38, prevedendo - a detta della difesa - che l’oblazione estingue i reati e i procedimenti di esecuzione delle sanzioni amministrative e, dunque, anche l’ordine di demolizione contenuto nella sentenza. 2.6. Con un sesto motivo di doglianza n. 8 del ricorso , si lamenta la violazione della D.P.R. n. 380 del 2001, art. 31 e della L. n. 47 del 1985, art. 7, nonché degli artt. 167, 172 e 173 c.p., sul rilievo che l’ordine di demolizione emesso nell’ambito dei giudizi in sede penale andrebbe assoggettato alla disciplina penalistica in senso stretto e, pertanto, anche alla disciplina della prescrizione prevista dall’art. 173 c.p Si deduce anche l’illegittimità costituzionale dell’esclusione della prescrizione della demolizione, per violazione del principio di ragionevolezza e del diritto all’abitazione garantito dalla Cedu. 2.7. Con un settimo motivo nn. 8 e 9, alle pagg. 23 e ss. del ricorso , si lamentano la violazione dell’art. 32 Cost. e dell’art. 8 Cedu, per la mancata considerazione dell’interferenza fra l’ordine demolizione e il diritto all’abitazione, non essendo stata verificata la proporzionalità di tale ordine rispetto alle condizioni personali della ricorrente, residente nell’immobile e dotata di risorse economiche limitate. 2.8. In prossimità della camera di consiglio davanti a questa Corte, la difesa ha depositato motivi aggiunti. Considerato in diritto 3. Il ricorso è inammissibile. 3.1. Il primo motivo di doglianza - con cui si contesta la ritenuta non condonabilità dell’opera abusiva - è inammissibile. La difesa tenta di valorizzare elementi del tutto neutri, come le dichiarazioni del tecnico del Comune, il quale si è limitato a riferire che l’autorizzazione paesaggistica era stata data per rilasciata, a seguito di silenzio-assenso della Sovraintendenza competente, senza nulla specificare circa il momento di completamento dell’opera edilizia. Nè da tali dichiarazioni può derivare alcun elemento utile rispetto alla valutazione in diritto della situazione, in quanto la stessa è preclusa al testimone e riservata al giudice. E deve essere ritenuto del tutto corretta la conclusione cui giunge la Corte d’appello nel senso dell’illegittimità del provvedimento, sul dirimente rilievo che l’opera abusiva non è condonabile, in mancanza del requisito del totale completamento del rustico alla data del 31 dicembre 1993. 3.2. Analoghe considerazioni valgono in relazione al secondo motivo di doglianza, con cui si deducono vizi della motivazione in ordine alla ritenuta non condonabilità dell’opera, perché non ultimata al 31 dicembre 1993. Sul punto la difesa lamenta, in particolare, la mancata considerazione di prove, limitandosi ad affermare la loro decisività. Ma dallo stesso tenore del ricorso emerge che gli elementi cui la ricorrente si riferisce sono equivoci, come il certificato di residenza, che nulla prova sull’effettivo completamento dell’immobile o addirittura controproducenti, come le dichiarazioni di due testimoni, ritenute non attendibili dalla Corte distrettuale circa il momento di conclusione dei lavori, perché smentite dalla sentenza di condanna. E le stesse considerazioni valgono per i rilievi fotografici del 6 novembre 1993, da cui emerge che le tamponature non erano state effettuate, e in relazione ai quali la prospettazione di parte ricorrente si basa sull’assunto del tutto ipotetico - e, anzi, puntualmente smentito dalla sentenza di condanna e dall’ordinanza impugnata - secondo cui sarebbero stati sufficienti due mesi di attività per realizzare le tamponature. 3.3. Del tutto generica è la terza censura, con cui si deduce la violazione della legge della Regione Campania n. 21 del 2003, e si contesta la motivazione del provvedimento impugnato secondo cui la concessione edilizia è illegittima perché il Comune rientra in una zona rossa di rischio sismico e vulcanico. La prospettazione difensiva si basa, infatti, sull’assunto che in tale tipologia di zone sismiche la preclusione alla sanatoria deriverebbe solo dalla presenza di vincoli di inedificabilità assoluta imposti prima dell’esecuzione delle opere abusive ma la stessa difesa non dimostra nè - a ben vedere - compiutamente prospetta che tale sia la situazione nel caso di specie, non essendo sufficiente il generico richiamo al certificato di idoneità statica. Nell’ambito dello stesso motivo si svolgono, poi, deduzioni, parimenti generiche, circa il mancato aumento del carico urbanistico e circa la non proporzionalità dell’intervento di demolizione rispetto al diritto all’abitazione, essendo decorso un tempo molto lungo. Quanto al primo profilo è sufficiente qui osservare che l’aumento del carico urbanistico non assume alcun rilievo, positivo o negativo, ai fini della demolizione, in presenza di una sentenza di condanna per abuso edilizio, nè può essere preso in considerazione in quanto tale ai fini di un eventuale condono. Quanto al secondo profilo, deve ricordarsi che il rispetto del principio di proporzionalità in materia di diritti fondamentali, specie con riferimento ai diritti di libertà personale e reale, è stato riaffermato dalla Corte Edu Ivanova e Cherkezov c. Bulgaria, sentenza, V Sezione, 21 aprile 2016, n. 46577 in relazione all’ordine di demolizione dell’abitazione, nel senso che il giudice nazionale ha l’onere di valutare e ponderare la situazione personale dei ricorrenti e non limitarsi ad un controllo meramente formale sull’illegalità della costruzione ex multis, Sez. 3, n. 27840 del 23/03/2016, Rv. 267055 - 01 . In altri termini, il rispetto del principio di proporzionalità impone che l’autorità giudiziaria valuti caso per caso se un determinato provvedimento possa ritenersi giustificato in considerazione delle ragioni espresse dal destinatario della misura, al fine di bilanciare il suo diritto alla tutela dell’abitazione, ai sensi dell’art. 8 Convenzione Edu o di altro diritto fondamentale e l’interesse dello Stato ad impedire l’esecuzione di interventi edilizi in assenza di regolare titolo abilitativo. Dunque, deve essere il giudice a stabilire, tenuto conto delle circostanze del caso concreto dedotte dalle parti, se il provvedimento limitativo sia proporzionato rispetto allo scopo, riconosciuto peraltro legittimo dalla Corte Edu, che la normativa edilizia intende perseguire. E nel caso di specie il giudice dell’esecuzione non si è sottratto a tale compito, non essendosi limitato a richiamare i dati, del tutto pacifici, dell’abusività e non sanabilità dell’opera, ma avendo valutato la prospettazione difensiva ed avendone correttamente evidenziato l’assoluta genericità, in relazione alle effettive esigenze abitative, all’intensità delle stesse, all’esistenza di soluzioni alternative, all’effettiva condizione economica della ricorrente, alla perseguibilità dell’interesse pubblico al corretto assetto del territorio attraverso mezzi meno invasivi. Del resto, anche con il ricorso per cassazione, l’interessata si è limitata a ribadire le generiche asserzioni già formulate dinanzi alla Corte d’appello, non potendo ritenersi sufficiente il mero richiamo della lontananza nel tempo dell’abuso, che conferma, anzi, la pervicace inottemperanza all’ordine di demolizione contenuto nella sentenza di condanna. 3.4. Generico è anche il quarto motivo di doglianza. Esso rappresenta, infatti, la mera riproposizione di un’analoga censura già esaminata dalla Corte d’appello, la quale ha evidenziato che la parte non ha addotto elementi concreti dai quali possa desumersi che nel caso di specie l’amministrazione comunale avrebbe potuto fare applicazione della L.R. n. 5 del 2013, art. 1, comma 65, in base al quale il Comune, previa apposita approvazione di regolamento, può decidere per la dismissione o per la locazione del bene da demolire. Anche a prescindere da tale assorbente considerazione, deve rilevarsi che la disposizione in questione trova applicazione testualmente per gli immobili acquisiti al patrimonio dei comuni , ovvero in una situazione in cui il condannato non è più il proprietario degli immobili stessi. Trova dunque applicazione il principio, che qui deve essere ribadito, secondo cui, in tema di reati edilizi, a seguito dell’inutile decorso del termine assegnato al condannato per l’esecuzione dell’ordine di demolizione, viene meno l’interesse alla revoca o alla sospensione dello stesso, essendo il bene ormai divenuto di proprietà del Comune ex multis, Sez. 3, n. 45432 del 25/05/2016, Rv. 268133 - 01 . Deve dunque in generale affermarsi che il proprietario destinatario di ordine di demolizione di un immobile abusivo non ha interesse a far valere, attraverso l’incidente di esecuzione, l’applicabilità della L.R. Campania n. 5 del 2013, art. 1, comma 65, - secondo cui, tra l’altro, gli immobili acquisiti al patrimonio dei comuni possono essere destinati prioritariamente ad alloggi di edilizia residenziale pubblica, di edilizia residenziale sociale, anche con l’assegnazione in locazione degli immobili destinati ad uso diverso da quello abitativo, o a programmi di dismissione immobiliare - perché tale norma presuppone che egli abbia perso la titolarità dell’immobile, ormai acquisito al patrimonio comunale. 3.5. Il quinto motivo di doglianza - con cui si sostiene che, ai sensi della L. n. 47 del 1985, art. 38, l’oblazione contestuale alla domanda di condanna estingue l’ordine di demolizione contenuto nella sentenza che ha accertato l’abuso edilizio - è manifestamente infondato. Deve essere ribadito, sul punto, il noto e consolidato principio secondo cui il pagamento completo e nei termini della somma versata a titolo di obiezione per la definizione dell’illecito edilizio secondo la procedura straordinaria del condono - mentre, ricorrendo gli altri presupposti di legge, determina l’estinzione dei reati edilizi rispetto ai quali non sia ancora intervenuta sentenza di condanna definitiva, a norma della L. n. 47 del 1985, art. 38, comma 2, Sez. 3, n. 36985 del 29/09/2011, Rv. 251399 Sez. 3, n. 3582 del 25/11/2008, dep. 2009, Rv. 242737 Sez. 3, n. 6160 del 14/04/1998, Rv. 210962 - non determina invece, ove sia intervenuta sentenza di condanna, nè l’estinzione del reato nè l’automatica caducazione dell’ordine di demolizione Sez. 3, n. 24665 del 15/04/2009, Rv. 244076 Sez. 3, n. 2144 del 06/06/1995, Rv. 203631 . In tal caso, in base al disposto della L. n. 47 del 1985, art. 38, comma 3, - richiamato dalla D.L. n. 269 del 2003, art. 32, comma 25, - il pagamento dell’obiezione comporta soltanto l’esclusione degli effetti penali della condanna ai fini dell’applicazione della recidiva e della concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, mentre è soltanto il rilascio del provvedimento amministrativo di sanatoria che può valere a far revocare la sanzione accessoria dell’ordine di demolizione impartito dal giudice penale tra le più recenti, Sez. 3, n. 41270 del 15/05/2018, Rv. 274072 Sez. 3, n. 24665 del 15/04/2009, Rv. 244076 . 3.6. Il sesto motivo di doglianza - con cui si sostiene che l’ordine di demolizione emesso nell’ambito dei giudizi in sede penale andrebbe assoggettato alla disciplina penalistica in senso stretto e, pertanto, anche alla disciplina della prescrizione prevista dall’art. 173 c.p. e si deduce, in via subordinata, l’illegittimità costituzionale dell’esclusione della prescrizione della demolizione, per violazione del principio di ragionevolezza e del diritto all’abitazione garantito dalla Cedu - è manifestamente infondato. È costante orientamento di questa Corte ritenere che l’ordine di demolizione dell’immobile abusivo, impartito dal giudice penale ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 31, comma 9, non abbia natura di sanzione penale nel senso individuato dalla normativa CEDU. Impedisce tale qualificazione, soprattutto, il fatto che la demolizione imposta dal giudice non ha finalità punitive. L’intervento del giudice penale si colloca, infatti, a chiusura di una complessa procedura amministrativa finalizzata al ripristino dell’assetto originario del territorio, alterato dall’intervento edilizio abusivo, nell’ambito del quale viene considerato il solo oggetto del provvedimento l’immobile da abbattere , prescindendo del tutto dall’individuazione di responsabilità soggettive, tanto che la demolizione si effettua anche in caso di alienazione del manufatto abusivo a terzi estranei al reato, i quali potranno poi far valere in altra sede le proprie ragioni. L’intervento del giudice penale, inoltre, non è neppure scontato, dato che egli provvede ad impartire l’ordine di demolizione, soltanto se la stessa ancora non sia stata altrimenti eseguita. L’ordine di demolizione ha, pertanto, natura di sanzione amministrativa, assolvendo ad un’autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio, non ha finalità punitive ed ha carattere reale, producendo effetti solo sul soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall’essere stato o meno quest’ultimo l’autore dell’abuso. Per tali sue caratteristiche la demolizione non può ritenersi una pena nel senso individuato dalla giurisprudenza della Corte EDU e non è soggetta alla prescrizione stabilita dall’art. 173 c.p. ex multis, Sez. 3, n. 3979 del 21/09/2018, dep. 28/01/2019, Rv. 275850 - 02 Sez. 3, 3 maggio 2016, n. 41475 Sez. 3, 10 novembre 2015, n. 49331 pertanto, sono da ritenere manifestamente insussistenti sia la irragionevolezza della disciplina che la riguarda rispetto a quella delle sanzioni penali soggette a prescrizione, sia una violazione della Cedu. 3.7. Quanto al settimo motivo devono essere richiamate le considerazioni svolte sub 3.3., perché anch’esso si riferisce alla violazione dell’art. 32 Cost. e dell’art. 8 Cedu, per la mancata considerazione dell’interferenza fra l’ordine demolizione e il diritto all’abitazione, sotto il profilo della proporzionalità. 3.8. Quanto ai motivi aggiunti è sufficiente qui rilevare che l’inammissibilità delle doglianze proposte con il ricorso principale si estende agli stessi, ai sensi dell’art. 585 c.p.p., comma 4. 4. Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità , alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 2.000,00. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.