‘Nonnismo’ in caserma, militari condannati

Evidenti le responsabilità di quattro uomini che hanno preso di mira tre commilitoni, sottoponendoli a vessazioni e maltrattamenti fisici, e poi hanno condiviso in una chat tramite WhatsApp le immagini degli atti di ‘nonnismo’ compiuti. Impossibile, chiariscono i giudici, parlare di mero scherzo tra militari”.

Il ‘nonnismo’ vale una condanna. A ribadirlo la Cassazione, confermando la condanna a carico di quattro militari che in caserma prima avevano preso di mira tre commilitoni, sottoponendoli a umilianti maltrattamenti fisici, e poi avevano condiviso on line tramite WhatsApp le immagini delle loro ‘imprese’. Nessun dubbio, quindi, sulla sussistenza dei reati contestati, ossia percosse” e diffamazione” Cassazione, sentenza n. 47291/19, sez. I Penale, depositata oggi . Degrado. Linea di pensiero comune per i giudici di primo e di secondo grado. In particolare, i magistrati della Corte militare d’appello ritengono evidenti le colpe dei quattro militari finiti sotto processo per avere picchiato e umiliato tre commilitoni. Ciò perché, a prescindere dalla definizione quali atti di ‘nonnismo’ , le condotte in esame andavano oltre ogni possibile consuetudine goliardica, essendo state inferte con modalità gravemente lesive della dignità, dell’onore e della reputazione dei militari presi di mira . A rendere più grave la posizione dei quattro uomini sotto accusa, infine, il fatto che essi abbiano condiviso in una chat le immagini delle persone offese nell’atto di subire le condotte degradanti . Scherzo. A chiudere la brutta vicenda provvede ora la Cassazione, confermando la pronuncia di secondo grado e respingendo la tesi difensiva finalizzata a ridimensionare la gravità delle compiute dai quattro militari sotto processo. Per l’avvocato l’accaduto rientra nello ‘scherzo’ tra militari . Per i magistrati, invece, le modalità dei fatti sono incompatibili con un innocuo ‘scherzo’ , poiché le condotte in esame sono state subite dalle tre vittime in modo mortificante, nel clima di soggezione del momento e a fronte di sicure ritorsioni in caso di loro ribellione . E a sostegno di questa valutazione anche alcune fotografie che ritraggono le vistose ecchimosi riportate da uno dei tre militari presi di mira. Per chiudere il cerchio, infine, viene ritenuto irrilevante il richiamo a una presunta diversa lettura degli episodi da parte delle vittime. Su questo fronte il legale sostiene che è richiesta una percezione, da parte della persona offesa, della lesione del bene giuridico tutelato onore, decoro, reputazione, incolumità fisica . I Giudici ribattono che determinati beni vanno salvaguardati a prescindere, avendo come riferimento la dignità umana .

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 8 ottobre – 21 novembre 2019, n. 47291 Presidente Di Tomassi – Relatore Binenti Ritenuto in fatto 1. La Corte militare di appello, con la sentenza indicata in epigrafe, confermava quella di condanna emessa in primo grado limitatamente ai reati ascritti ai capi a , c ed f per Ad. Ce., ai reati ascritti ai capi a , c , d e g per Al. De Lu., ai reati ascritti ai capi a , c , d e g per Ma. Ra., nonché ai reati ascritti ai capi a , b e c per Gi. Sc., riducendo di conseguenza le pene rispettivamente inflitte ai medesimi imputati. 2. Gli addebiti riguardavano i delitti previsti dall'artt. 227 diffamazione , 226 ingiuria e 222 percosse cod. pen. mil. pace, con l'aggravante di cui all'art. 47 stesso codice, fatti commessi il 17 aprile e il 13 giugno 2014 in Livorno, nella caserma del 187. Reggimento Paracadutisti Folgore, al quale appartenevano sia gli imputati che le persone offese. Le condotte accertate, in danno dei militari An. Ga., Lu. Co. e Vi. Fr. Ma., secondo i giudici di merito integravano i reati di cui sopra poiché, a prescindere dalla definizione quale atti di nonnismo , andavano oltre ogni possibile consuetudine goliardica, essendo state inferte con modalità gravemente lesive della dignità, dell'onore e della reputazione dei militari presi di mira, tanto più che Ma. veniva mortificato nella persona anche tramite l'inflizione di umilianti percosse. La diffamazione si era realizzata con la diffusione, in una chat WhatsApp, delle immagini delle persone offese nell'atto di subire le condotte degradanti. 3. Propongono ricorso per cassazione gli imputati, con un unico atto attraverso il comune difensore, svolgendo censure affidate a quattro motivi. 3.1. Il primo motivo denuncia violazione dell'art. 192 cod. proc. pen. e mancata valutazione delle prove a favore della difesa, per non essere stati presi in considerazione passi decisivi delle deposizioni dei testi Nocita, Ga. e Ma., che dimostravano sia l'assenza di violenze idonee a provocare una sensazione dolore, sia la riconducibilità dell'accaduto allo scherzo tra militari. 3.2. Il secondo motivo lamenta violazione dell'art. 43 cod. pen., non avendo risposto la sentenza impugnata agli interrogativi circa la consapevolezza degli imputati di partecipare a fatti integranti tutti gli estremi dei reati ascritti. 3.3. Con il terzo motivo ci si duole della violazione delle specifiche previsioni delle fattispecie incriminatrici, richiedendo queste una percezione da parte della persona offesa della lesione del bene giuridico tutelato l'onore, il decoro, la reputazione o l'incolumità fisica rimasta nella specie indimostrata. 3.4. Il quarto motivo lamenta violazione dell'art. 131-bis cod. pen., atteso che le caratteristiche dei fatti ne rivelavano chiaramente la particolare tenuità. Considerato in diritto 1. Il ricorso va dichiarato inammissibile per le ragioni di seguito illustrate. 2. Il primo motivo non ha alcuna attitudine a dimostrare la violazione di legge che prospetta. Infatti, invoca il diretto confronto solo con una parte del materiale probatorio costituito da certi passaggi dichiarativi di alcuni testi, senza così misurarsi con le spiegazioni intervenute nella motivazione della sentenza. Esse rappresentano come le accertate modalità dei fatti e le altre dichiarazioni degli stessi o di altri testi, abbiano dato ampia prova delle condotte incompatibili con l'innocuo scherzo , ma subite dalle vittime in modo mortificante, nel clima di soggezione del momento e a fronte delle sicure ritorsioni nel caso di ribellione. Tali ragionamenti hanno ampiamente risposto ai rilievi mossi sul tema. Allo stesso modo il motivo, con riferimento alle percosse, citando solo alcune dichiarazioni del teste Ma. circa l'assenza di sensazioni di dolore, non si confronta minimamente con le risposte anche al riguardo intervenute, che hanno evidenziato in termini decisivi, ai fini della configurazione delle percosse, le vistose ecchimosi inferte a Ma., così come rilevabili dalle fotografie in atti. Il motivo risulta, pertanto, con evidenza inammissibile poiché non prospetta violazioni di legge, ma introduce soltanto talune sovrapposizioni valutative, prive di ogni confronto con la precisa motivazione intervenuta sui medesimi temi. 3. Il secondo motivo, elencando interrogativi generici e in termini peraltro inediti rispetto alle prospettazioni rappresentate in sede di appello, espone solo alcune riflessioni circa i requisiti dell'elemento soggettivo ai fini dell'integrazione dei reati contestati, in assenza di qualsiasi rapporto con la rappresentazione delle modalità dei fatti da cui è stata logicamente desunta la prova del dolo generico. Ne deriva l'inammissibilità del motivo in ragione dell'evidente aspecificità. 4. Il terzo motivo, che intende escludere gli estremi oggettivi dei reati contestati sul rilievo della mancata percezione da parte delle persone offese della lesione del bene tutelato, non si relaziona minimamente con la descrizione in motivazione delle condizioni di degradante umiliazione e degli effetti delle percosse inferte. Pare, invece, assumersi quale presupposto argomentativo la stessa inammissibile rivalutazione in fatto già rappresentata con il primo motivo. Inoltre, si introducono considerazioni in diritto in palese contrasto con il dettato normativo così come interpretato dalla consolidata giurisprudenza di legittimità. Infatti, si giunge ad affermare che la realizzazione dei reati contro la persona di cui trattasi dovrebbe dipendere in definitiva dalla rappresentazione delle sensazioni puramente soggettive vissute e interiorizzate da ciascun individuo che di volta in volta subisce la condotta. Di contro, i beni considerati dalle fattispecie vengono salvaguardati in sé, tenendo presente con riguardo alla tutela penale dell'onore il criterio di media convenzionale e, in ogni caso, i limiti invalicabili a salvaguardia della dignità umana posti dall'art. 2 Cost. Sez. 5, n. 19070 del 27/03/2015, Rv. 263711 Sez. 5, n. 21264 del 19/02/2010, Rv. 247473 Sez. 1, n. 7157 del 06/12/2006, dep. 2007, Rv. 235891 Sez. 1 . Conseguentemente, neppure i rilievi svolti con il terzo motivo possono superare il preliminare vaglio in ordine all'ammissibilità in sede di legittimità. 5. Il quarto motivo risulta anch'esso inammissibile poiché, con riferimento al diniego della non punibilità ai sensi dell'art. 131-bis cod. pen., svolge rilievi assolutamente generici che partendo da sovrapposizioni valutative riferite solo a taluni profili, ignorano le precise risposte intervenute anche sul punto, che richiamano l'ampia descrizione della carica offensiva e della pluralità dei fatti. 6. Dalla dichiarazione di inammissibilità discende la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e, considerati i profili di colpa, della somma determinata in Euro tremila in favore della cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento della somma di Euro tremila in favore della cassa delle ammende.