Emergenza carceri: dati, norme e rimedi

Approfittando delle ragioni che hanno portato la Giunta dell’Unione delle Camere Penali italiane ad una giornata di astensione dalle udienze per il 9 luglio scorso, l’avv. Carmelo Minnella fa il punto sull’emergenza carceri, partendo dai dati allarmanti, cercando di individuare i relativi rimedi per garantire la tutela dei diritti dei detenuti e il maggior accesso alle misure alternative alla detenzione.

La Giustizia non deve fermarsi alle porte delle carceri . Trattasi di un’affermazione ricorrente nei percorsi motivazionali delle sentenze della Corte EDU per individuare un limite al potere statuale al rispetto inderogabile della dignità umana dei detenuti ed è una espressione che fotografa drammaticamente la situazione carceraria italiana, sul duplice versante dei diritti dei reclusi sempre più violati, pur dovendo l’esecuzione della pena comprimere solo la libertà personale e quelle strettamente connesse allo status detentionis , mentre le altre devono trovare tutela anche e soprattutto all’interno del carcere e, sull’altro versante, dell’abbandono, di fatto, della finalità rieducativa della pena. Tutela dei diritti e della dignità umana e offerte rieducative sono invece intimamente connesse se la pena è disumana non può tendere come dice l’art. 27, comma 3, della Costituzione , alla rieducazione, quindi occorre rieducate nel rispetto della dignità umana. Approfittando delle ragioni che hanno portato la Giunta dell’Unione delle Camere Penali italiane una giornata di astensione dalle udienze per il 9 luglio scorso, l’avv. Carmelo Minnella cerca di fare il punto della emergenza carceri, partendo dai dati allarmanti, cercando di individuare i relativi rimedi per garantire la tutela dei diritti dei detenuti e il maggior accesso alle misure alternative alla detenzione, anche alla luce della recente sentenza della Corte EDU nel caso Viola n. 2 contro Italia del 13 giugno 2019, che apre degli spiragli alla rivisitazione del meccanismo che individua per molte categorie di condannati quelli del 4- bis ord. penit. nella collaborazione un sostituto” improprio della rieducazione.

Ergastolo ostativo contrario alla CEDU. La Corte di Strasburgo, con la recente sentenza della Prima Sezione, depositata il 13 giugno 2019, nel caso Viola n. 2 contro Italia ricorso n. 77633/2013 , ha stabilito che l’ergastolo ostativo previsto nell’ordinamento italiano per alcuni reati di particolare gravità nei casi in cui il condannato si rifiuti di collaborare con l’autorità giudiziaria è in contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Se il detenuto, a causa di questo regime, non ha la possibilità di reinserirsi nella società malgrado un cambiamento nel proprio percorso che non viene valutato proprio a causa della mancata cooperazione, lo Stato commette una violazione dell’articolo 3 della CEDU che vieta i trattamenti inumani e degradanti e compromette la dignità umana al centro del sistema convenzionale. Problema strutturale. La Corte di Strasburgo non si è fermata qui. Poiché l’ergastolo ostativo rappresenta un problema strutturale per l’Italia, in quanto un certo numero di domande sono attualmente pendenti dinanzi alla Corte e in futuro altre potrebbero arrivarne dai dati del Ministero della Giustizia, dei 1678 ergastolani, il 72,5%, ossia 1216, sono ergastolani ostativi , ai sensi dell’articolo 46 della Convenzione, ha intimato allo Stato italiano di introdurre, preferibilmente per iniziativa legislativa, una riforma del regime dell'ergastolo che garantisca la possibilità di una revisione della pena, che consenta alle autorità di determinare se, durante l'esecuzione della medesima, il detenuto si è evoluto e ha progredito sulla via dell'emendamento per cui non esistono più motivi legittimi per mantenerlo in detenzione, e al detenuto di sapere cosa deve fare perché la sua liberazione sia possibile e quali siano le condizioni applicabili. La collaborazione è diversa dalla rieducazione. La decisione Viola n. 2 individua il peccato originale della normativa penitenziaria italiana artt. 4-bis e 58-ter dell’ordinamento penitenziario – laddove si vuole spingere il condannato a collaborare con la giustizia ottenendo quale premio” i benefici che tutti gli altri detenuti non rientranti nell’altro binario penitenziario potranno ottenere se hanno intrapreso e avviato un percorso rieducativo. I giudici europei escono dalla forma mentis ormai cristallizzata nell’ordinamento italiano riassumibile nell’endiadi collaborazione uguale rieducazione, riconoscendo che il meccanismo della collaborazione ex articolo 58-ter dell’ordinamento penitenziario, risulta irrazionale se inserito nella dinamica delle misure penitenziarie, poiché non configura una valutazione sul percorso di riabilitazione del detenuto. Si resta fermi alla commissione del reato. Mantenere la equivalenza tra la mancata collaborazione e permanenza della pericolosità sociale significa ancorare la valutazione di pericolosità al momento della commissione del fatto senza tenere conto del percorso di reinserimento e dei progressi compiuti nel corso dell’esecuzione. Inoltre, la scelta di non collaborare possa dipendere dal timore di mettere a repentaglio la propria vita e quella dei prossimi congiunti. Di conseguenza la mancata collaborazione non deriverebbe sempre da una scelta e volontaria di adesione ai valori criminali e di mantenimento di legami con l’organizzazione di appartenenza. Viceversa, la collaborazione potrebbe essere legata a finalità puramente opportunistiche per superare il muro all’accesso dei benefici penitenziari ciò non rifletterebbe la scelta di dissociarsi effettivamente dal sodalizio. Le stesse conclusioni vanno estese ai detenuti 4-bis. Gli stessi profili di contrasto con la CEDU vanno estesi, mutandis mutandis, ai reati ostativi di prima fascia previsti dal 4-bis. Anche per questi l’ordinamento italiano cristallizza l’esecuzione della pena congelandola alla commissione del fatto e si disinteressa dell’evoluzione rieducativa del trattamento, offrendo al detenuto solo la collaborazione come merce di scambio per ottenere i benefici penitenziari. Ritengo che la strada della Corte EDU sia per superare questa endiadi errata che vede la collaborazione quale condicio sine qua non per ottenere benefici penitenziari ove sia presente, come lo era nel caso di Viola, un avviato percorso rieducativo senza collaborazione. Più in generale, sulla situazione carceraria nazionale, se come chiosava Fedor Dostoevskij Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni , allora l’Italia deve davvero cominciare a preoccuparsi.

Aumentano i suicidi. La situazione di intollerabilità della vita carceraria provoca rivolte all’interno delle carceri e spinge di più verso il suicidio. La perdita della libertà personale e le condizioni in cui spesso si è obbligati a scontale la pena, hanno portato a 28,7 la percentuale di detenuti che assume una terapia psichiatrica e, a ben 67 il numero dei suicidi 69 se si contano i recenti avvenimenti nel 2019, 1 suicidio ogni 3 giorni. Scende invece il tasso di omicidi dietro le sbarre, mentre dal 2015 crescono gli atti di autolesionismo, che lo scorso anno sono arrivati a 10.368. Mancano agenti e fondi. Nel corpo di polizia penitenziaria mancano all’appello circa cinquemila unità. In aggiunta alle altre cinquemila tagliate dalla legge Madia, per un totale complessivo di dieci assenti. Insomma, se la funzione degli istituti penitenziari è quella di rieducare nel rispetto della dignità umana, in Italia siamo ben lontani dall’obiettivo. E in primis lo si deve a un fattore puramente economico nonostante il lieve aumento di circa 17 milioni per i fondi destinati all’Amministrazione penitenziaria, il costo per il detenuto è sceso in modo drastico passando da 137,02 euro nel 2018 a 131,39 euro al 30 aprile 2019 causa e conseguenza, l’aumento delle persone recluse . A rimetterci, però, non sono solo i detenuti. La sola analisi numerica non è sufficiente per capire le dinamiche di un istituto penitenziario , afferma Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato penitenziari. Sono aumentate le violenze carnali tra detenuti e circa del 400% le aggressioni nei confronti dei poliziotti penitenziari . Sempre più rivolte. Si è cominciato ad ottobre 2018 con la rivolta nel carcere di Trento, alla quale ha fatto seguito quella dell’istituto di Rieti quindi, quelle di Spoleto e Campobasso, e pochi giorni fa un’ulteriore rivolta nel carcere di Poggioreale a Napoli, già teatro di precedenti manifestazioni di rivendicazione da parte dei familiari dei reclusi. È di pochissimi giorni fa la notizia di una rumorosa protesta si è verificata stamattina giovedì 4 luglio nel carcere di Brindisi. Circa 40 detenuti, intorno alle ore 11.30, si sarebbero rifiutati di rientrare nelle celle dal cortile di passeggio. Tutto questo è avvenuto davanti agli occhi di numerosi condomini dei palazzi situati in via Ennio, attirati dalle urla. Dopo una trattativa andata avanti per ore con il comandante della polizia penitenziaria, i detenuti hanno deciso di lasciare il cortile.

L’attuale visione carcero-centrica” della pena. Di recente il Parlamento sbandiera la certezza della pena” con un messaggio che disseta le ansie pubbliche della popolazione il detenuto marcisca in carcere”. Tale visione carcero-centrica non tiene conto del volto costituzionale della sanzione penale, ove la pena detentiva rappresenta l’ extrema ratio , e sposa una visione statica” dell’esecuzione penale che congela qualsivoglia percorso rieducativo. Invece, l’art. 27, comma 3, Cost., oltre a soffermarsi sulla umanità della pena, sceglie una visione costituzionale dinamica” dell’esecuzione penale che veda come punto di partenza e non di arrivo la commissione del fatto e cerca di offrire al condannato varie opportunità trattamentali che, nell’ottica di una progressiva apertura di finestre di libertà sempre più ampie, acceda ai benefici penitenziari previsti dalla progressione rieducativa lavoro all’esterno, permesso premio, semilibertà, detenzione domiciliare, affidamento in prova, liberazione condizionale. La legge spazzacorrotti. Di recente la maggioranza parlamentare ha aumentato questi spazi di staticità” della pena sotto altro versante quello relativo all’implementazione dell’art. 4- bis ord. penit., inserendo, con la legge n. 3/2019 c.d. spazzacorrotti, nel ventaglio ormai enorme di reati di prima fascia, anche i delitti contro la P.A Il messaggio che passa è anche i corrotti, come i mafiosi e i terroristi, marciscano in carcere”. Per i corrotti” infatti è previsto l’ingresso in carcere non potendosi sospendere l’ordine di carcerazione , il necessario assaggio di pena per costringere” il condannato a collaborare quale merce di scambio per ottenere i benefici premiali, mistificando – come vedremo meglio più avanti – i concetti di collaborazione e rieducazione. Manca la regolamentazione dei profili di diritto intertemporale. Peraltro il legislatore della Spazzacorrotti ha dimenticato di introdurre una disciplina transitoria, creando tensioni evidenti con la Costituzione, anche alla luce dell’approdo della giurisprudenza della Corte Edu, consacrato nella sentenza Del Rio Prada contro Spagna del 21 ottobre 2013, in quanto avere il legislatore cambiato in itinere le carte in tavola presenta tratti di dubbia conformità con l’articolo 7 Cedu e quindi con l’articolo 117 della Costituzione, là dove si traduce nel passaggio a sorpresa” e dunque non prevedibile da una sanzione senza assaggio di pena” ad una sanzione con necessaria incarcerazione, giusta l’operare del combinato disposto degli artt. 656, comma 9 lett. a , c.p.p. e 4- bis ord. penit. così Cass. pen., Sez. VI, n. 12541/2019 . Sollevate numerose questioni di incostituzionalità. Sul punto sono numerose le questioni di legittimità costituzionale già sollevate dalla giurisprudenza di merito G.I.P. del Tribunale di Napoli, 2 aprile 2019 Corte di Appello di Lecce, 4 aprile 2019 Tribunale di Sorveglianza di Venezia, 8 aprile 2019 Tribunale di Brindisi, 30 aprile 2019. Di più. La Suprema Corte, con decisione deliberata il 18 giugno 2019 si attendono le motivazioni , resa pubblica con la decisione n. 15/2019, ha centrato la questione di legittimità costituzionale non tanto con riferimento all’assenza di una disciplina transitoria, ma con riferimento al più ampio inserimento dei delitti contro la P.A. nel novero dei reati di prima fascia dell’art. 3 Cost., inclusione chiaramente e manifestamente irragionevole. Uscire da nozioni formaliste. Occorre superare la visione solo processuale delle norme come i citati artt. 656 cpp e 4- bis ord. penit. essendo ovvio che si tratta di norme a contenuto sostanziale” che incidono sulla pena. Se una norma stabilisce che l’ordine di carcerazione può o non può essere sospeso è una norma che incide sull’essenza della pena. Come ricorda la Suprema Corte, nella più recente giurisprudenza della Corte EDU, ai fini del riconoscimento delle garanzie convenzionali, i concetti di illecito penale e di pena hanno assunto una connotazione antiformalista” e sostanzialista”, privilegiandosi alla qualificazione formale data dall’ordinamento all’etichetta assegnata , la valutazione in ordine al tipo, alla durata, agli effetti nonché alle modalità di esecuzione della sanzione o della misura imposta ancora, Sez. VI, n. 12541/2019 .

Dietro i numeri ci sono le persone. La Giustizia non deve fermarsi alle porte delle carceri , come detto, è una espressione che fotografa drammaticamente la situazione carceraria italiana. Vediamo brevemente i numeri che fotografano tale situazione che desta allarme e preoccupazione, ricordando che dietro i numeri ci stanno le persone, con le loro ansie, la loro dignità o loro diritti da tutelare soprattutto e a fortiori perché detenuti. I dati sono stati forniti dal Garante Nazionale per la tutela dei diritti dei detenuti e degli internati, Mauro Palma, nella sua relazione annuale, illustrata a fine marzo alla Camera alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Il sovraffollamento non è una fake news Il primo dato che salta subito agli occhi è – per usare le stesse parole del Garante – è che - il sovraffollamento nelle carceri italiane non è una fake news . Alla data del 26 marzo 2019, su 46.904 posti regolamentari disponibili nei 191 istituti di pena, erano presenti 60.512 detenuti, ossia 13.608 in più rispetto alla capienza regolamentare, con un sovraffollamento del 129 per cento. Un dato che conferma una linea di tendenza in crescita rispetto al passato a fine dicembre 2017 i detenuti presenti erano 57.608, contro i 59.655 alla stessa data del 2018. Dunque, una crescita, in un solo anno, di oltre 2.047 detenuti. nonostante diminuiscono i reati e si entra meno in carcere. Questo dato è ancora più allarmante se si incrocia con altri due 1 diminuiscono i reati – anche quelli che dovrebbero creare maggiore allarme stupri, furti e rapine, omicidi 2 tale aumento non è dovuto a un maggiore ingresso di persone in carcere che, anzi, rispetto all’anno precedente sono diminuite di 887 unità , ma a un minor numero di dimissioni dal carcere 1.160 in meno. In altre parole, in carcere si entra di meno ma si esce anche di meno. Perché? Molto probabilmente perché si utilizzano di meno le misure alternative al carcere, nonostante una grossa fetta di detenuti in carcere scontano una pena non superiore a tre anni! Tanti detenuti sotto i 3 anni di pena da scontare. Secondo i dati diffusi dal ministero della Giustizia, il 31 dicembre del 2018 in Italia erano detenute 8.525 con pena residua inferiore a un anno, 7.760 con pena residua tra uno e due anni, 5.952 tra due e tre anni, per un totale di 22.237 detenuti nel Lazio questa soglia supera il 50% . Una grossa parte dei condannati presenti in carcere, dunque, sarebbe ammissibile a pene alternative alla detenzione, se non ostassero presunzioni legali di pericolosità sociale, carenza di programmi di reinserimento sociale, inefficienze della macchina giudiziaria e/ o amministrativa. Ciò significa che se avessero avuto accesso alle pene alternative come prevede l’ordinamento penitenziario, il sovraffollamento svanirebbe. La medaglia d’oro per la Regione con il maggior numero di detenuti va alla Lombardia 8.610 , seguita da Campania 7.844 , Lazio 6.528 E Sicilia 6.509 . Mentre quella dove il tasso di affollamento è maggiore è la Puglia 160,5% , seguita dalla Lombardia 138,9% . Le uniche regioni virtuose sono la Sardegna e le Marche. Più significativi i numeri assoluti dei detenuti rispetto ai posti letto disponibili a Poggioreale sono alloggiati 731 detenuti in più di quelli che l’istituto potrebbe contenere, per l’altro penitenziario napoletano, Secondigliano, sono 418. Anche il romano Rebibbia Nuovo Complesso ospita oltre 400 detenuti in più della sua capienza, mentre Regina Coeli solo” 381. Storia analoga per Milano, Lecce, Torino, Taranto e Bologna. Altre disfunzioni. Deleterio e inumano, il sovraffollamento tuttavia non è il solo morbo che affligge le carceri italiane. Nel 35,3% di quest’ultime, infatti, non c’è acqua calda, il 7,1% non dispone di un riscaldamento funzionante, nel 20% non ci sono spazi per permettere ai detenuti di lavorare e nel 27,1% non ci sono aree verde per i colloqui coi familiari. Risulta inoltre che il 18,8% degli istituti presentano celle dove non si rispetta il parametro dei 3 mq per detenuto soglia minima secondo la Corte di Strasburgo , le quali per giunta nel 54,1% dei casi non dispongono neanche della doccia.

Tanti detenuti, pochi medici. Come si legge anche nella delibera della Giunta delle Camere Penali italiane, vi è un solo medico di guardia ogni 315 detenuti invece di 1 medico ogni 150. Detenuti che aspettano, spesso invano, visite specialistiche. Troppi detenuti che restano in carcere nonostante – come ricorda la Corte di Strasburgo – le condizioni di salute sono tali da far scendere la pena al di sotto della dignità e di un livello di sofferenza sopportabile, che finisce per integrare un trattamento inumano o degradante, in contrasto con l’art. 3 CEDU. L’occasione persa dal decreto legislativo n. 123/2018. Dando attuazione alla delega della legge Orlando n. 103/2017, il d.lgs. interviene a riordinare la normativa della medicina penitenziaria. Al di là delle affermazioni di principio sulla parità tra detenuti e internati e soggetti liberi nella tutela del diritto alla salute e quindi del diritto di godere di prestazioni sanitarie efficaci, tempestive ed appropriate, desta stupore la nuova formulazione dell’art. 11, comma 2, ord. penit. laddove omette tra le prestazioni del servizio sanitario penitenziario il riferimento al servizio psichiatrico. La Consulta invece tutela la sopravvenuta malattia psichiatrica. Ciò proprio quando, in direzione diametralmente opposta, nella sentenza n. 99 del 2019, la Corte costituzionale afferma che se durante la carcerazione si manifesta una grave malattia di tipo psichiatrico, il giudice potrà disporre che il detenuto venga curato fuori dal carcere e quindi potrà concedergli, anche quando la pena residua è superiore a quattro anni, la misura alternativa della detenzione domiciliare umanitaria”, così come già accade per le gravi malattie di tipo fisico. In particolare, il giudice dovrà valutare se la malattia psichica sopravvenuta sia compatibile con la permanenza in carcere del detenuto oppure richieda il suo trasferimento in luoghi esterni abitazione o luoghi pubblici di cura, assistenza o accoglienza con modalità che garantiscano la salute, ma anche la sicurezza. Colmato vuoto di tutela. Secondo la Corte costituzionale, la mancanza di qualsiasi alternativa al carcere per chi, durante la detenzione, è colpito da una grave malattia mentale, anziché fisica, crea anzitutto un vuoto di tutela effettiva del diritto fondamentale alla salute e si sostanzia in un trattamento inumano e degradante quando provoca una sofferenza così grave che, cumulata con l’ordinaria afflittività della privazione della libertà, determina un sovrappiù di pena contrario al senso di umanità e tale da pregiudicare ulteriormente la salute del detenuto. Non bisogna fermarsi alla compatibilità delle condizioni di salute con lo status detentionis. Tale ultimi passaggi sono di vitale importanza in quanto, invece, in chiave limitativa nella giurisprudenza di sorveglianza, soprattutto di merito, si continui a ritenere che per il rinvio dell’esecuzione della pena o per la concessione della detenzione domiciliare umanitaria qualora occorre far fronte a residui di pericolosità attuale si ferma ad accertare se le condizioni di salute siano o meno compatibili con lo stato di reclusione. La detenzione anche se compatibile con la salute potrebbe essere disumana o degradante. Ciò non basta in quanto la detenzione potrebbe sostanziarsi in un trattamento inumano o degradante. Infatti, come la Consulta e la Corte EDU, anche per la Cassazione, secondo la giurisprudenza di questa Corte affinché la pena non si risolva in un trattamento inumano e degradante, nel rispetto dei principi di cui agli artt. 27, terzo comma Cost. e 3 Convenzione EDU, lo stato di salute incompatibile con il regime carcerario, idoneo a giustificare il differimento dell'esecuzione della pena per infermità fisica o l'applicazione della detenzione domiciliare non deve ritenersi limitato alla patologia implicante un pericolo per la vita della persona, dovendosi piuttosto avere riguardo ad ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare un'esistenza al di sotto della soglia di dignità che deve essere rispettata pure nella condizione di restrizione carceraria Sez. I, n. 27766/2017 .

Aumentano i detenuti, diminuisce il lavoro. Mentre tornano ad aumentare i detenuti, e si ripropone l’affollamento delle celle, diminuisce il lavoro in carcere. Non succedeva da almeno sette anni. È quanto emerge dalla Relazione sull’attuazione delle disposizioni di legge relative al lavoro dei detenuti per l’anno 2018, inviata a fine giugno al Parlamento dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Sovraffollamento e meno lavoro, un’accoppiata molto pericolosa. Anche perché, come si legge proprio nelle prime righe della Relazione il lavoro è ritenuto dall’Ordinamento penitenziario l’elemento fondamentale per dare concreta attuazione al dettato Costituzionale, che assegna alla pena una funzione rieducativa . E invece, su questo fronte, il 2018 ha tutti dati negativi. Sia in numeri assoluti che percentuali. Lo scorso anno, infatti, i detenuti lavoranti sono stati 17.614, rispetto ai 18.405 del 2017, il 4,29% in meno. Eppure nello stesso periodo i detenuti in carcere sono invece saliti da 57.608 a 59.655. Un aumento di presenze che non ha portato ad un aumento del lavoro. Così nel 2018 la percentuale dei detenuti lavoranti rispetto al totale è stata del 29,52%, rispetto al 31,94% del 2017. Ed è il primo risultato negativo almeno dal 2012, quando i detenuti lavoranti erano solo il 21,01% con una popolazione carceraria di 65.701 persone . Tutta colpa dell’aumento delle retribuzioni? Nella relazione si prova a trovare una giustificazione ricordando che nell’ottobre del 2017, si è provveduto ad adeguare le retribuzioni dei detenuti lavoranti, ferme dal 1994, ai rispettivi Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro, così come previsto dall’art. 22 dell’Ordinamento Penitenziario . Aggiungendo che l’aumento medio delle retribuzioni, è stato di circa l’80%, incidendo sui livelli di occupazione all’interno degli istituti penitenziari . Dunque, l’aumento delle retribuzioni ha provocato un calo dei detenuti lavoranti? La classica coperta troppo corta? Eppure, le assegnazioni sul capitolo delle retribuzioni per i detenuti lavoranti alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria negli ultimi anni sono cresciute molto, passando dai 50-60 milioni fino al 2016 ai 100 milioni del 2017, e anche lo scorso anno l’aumento non si è fermato, arrivando a 110 milioni. Lavoro elemento centrale del trattamento e della pace detentiva. Il quadro è critico perché il lavoro in carcere è un’arma potente di reinserimento sociale, a pena scontata. Ed è – osserva la stessa relazione – strategicamente fondamentale, anche per contenere e gestire i disagi e le tensioni proprie della condizione detentiva . Le ricordate e recenti proteste, anche violente, in vari penitenziari sono un campanello d’allarme. Le modifiche del d. lgs n. 124/2018. Importanti novità al lavoro di pubblica utilità da parte di detenuti ed internati, ha apportato il d. lgs n. 124/2018, che trova ora una più ampia e dettagliata disciplina nel nuovo art. 20 ter ord. penit La considerazione, da un lato, che il lavoro penitenziario soffre di un cronico problema di effettività” e la convinzione, dall’altro, che l’occupazione di detenuti ed internati in attività lavorative di utilità sociale abbia un’alta valenza risocializzante aveva indotto la Commissione Giostra a valorizzare nel suo progetto tale tipo di attività. Tra le novità di rilievo, occorre innanzitutto evidenziare che il lavoro di pubblica utilità – che era stato introdotto con il d.l. 78/2013 nel comma 4 ter dell’art. 21 ord. penit. come modalità di lavoro all’esterno – è configurato come un elemento del trattamento rieducativo tanto che la partecipazione a progetti di pubblica utilità” compare ora tra gli elementi indicati nell’art. 15 ord. penit. e viene quindi ‘sganciato’ dal lavoro all’esterno, con un conseguente ampliamento del suo ambito di operatività ora infatti il lavoro di pubblica utilità potrà svolgersi anche all’interno degli istituti con la partecipazione di detenuti e internati che non hanno i requisiti per essere ammessi al lavoro all’esterno ex art. 21. Per l’ammissione al lavoro di pubblica utilità all’esterno si prevede, tramite il richiamo all’art. 21 comma 4, l’approvazione del magistrato di sorveglianza. Si poteva fare di più. Il lavoro di pubblica utilità penitenziario – che sino ad oggi non ha trovato soddisfacente attuazione nella prassi – trovava un reale incentivo, nel progetto Giostra, nella previsione di un aumento dello sconto di pena riconosciuto a titolo di liberazione anticipata ex art. 54 ord. penit. da quantificarsi nella misura massima di 15 giorni al semestre per coloro che avessero ‘proficuamente’ partecipato a tali progetti. La previsione non è stata però inserita nel decreto 124, rendendo così vano il tentativo di conferire effettività al lavoro di pubblica utilità per detenuti ed internati.

Condizioni inaccettabili. Passando al mondo diversamente detenuto 41-bis, anche per i reclusi sottoposti al carcere duro il Garante nazionale ha definito inaccettabili le loro condizioni. Nel rapporto del Garante reso pubblico il 5 febbraio 2019, si ricorda che il collegio ha visitato tutte le sezioni in cui si applica questo regime. Le principali criticità riscontrate riguardano le situazioni soggettive relative alle reiterate proroghe del regime e all'inserimento di alcuni detenuti in aree riservate che finiscono per costituire un regime nel regime”, scrive il presidente del collegio Mauro Palma. Prescrizioni di inutile afflizione aggiuntiva. In alcuni Istituti l'adozione di regole interne eccessivamente dettagliate su aspetti quotidiani vanno anche oltre le già minuziose prescrizioni della Circolare del 2 ottobre 2017 . E sul punto, la Corte costituzionale continua la sua costante opera di demolizione eliminando quelle regole che nulla hanno a che fare con la sicurezza, ma che si configurano come inutile aggiuntiva afflizione, quale ad esempio il divieto di cucinare in cella, dichiarato incostituzionale dalla sentenza n. 186/2018. Il Garante raccomanda di non aggiungere qualcos’altro a fini maggiormente punitivi o di deterrenza o di implicito incoraggiamento alla collaborazione. Fini che porrebbero l’istituto certamente al di fuori del perimetro costituzionale. I dati dei detenuti 41-bis. La relazione del Garante illustra che sono 738 uomini, dieci donne e cinque internati in Casa di lavoro i detenuti sottoposti al 41-bis, il regime del carcere duro. E in base ai dati aggiornati al gennaio 2019, soltanto 363 di essi - e delle dieci donne, solo quattro - hanno una posizione giuridica definitiva. Ci sono inoltre, diciotto persone ricoverate nei reparti ospedalieri interni agli Istituti a Parma e a Milano-Opera . Le condizioni di salute. La prolungata reiterazione di misura di sicurezza in regime speciale - scrive il Garante - non ha risparmiato neppure il caso di chi dopo una lunga pena espiata e con palesi patologie che più volte hanno determinato il ricovero in un Sai e che presentano seri profili di disturbi comportamentali che non consentono neppure un dialogo continuativo, continua a essere sottoposto per periodi singolarmente brevi e continuamente ripetuti a tale misura, in un tempo che sembra dilatarsi all’infinito. E sempre in tema di salute, con riguardo al diritto alla riservatezza, il Garante nazionale ritiene del tutto incompatibile con il diritto alla riservatezza e, nel contempo, all’esercizio pieno del diritto alla tutela della salute, la presenza di personale di Polizia penitenziaria durante le visite mediche come prassi ordinaria e non come conseguenza di una richiesta specifica del medico in un altrettanto specifico e circostanziato caso.