“La Storia Infinita” (in materia di stupefacenti)

In tema di sostanze stupefacenti, con particolare riguardo alle droghe leggere, il giudice dell’esecuzione, nel procedere alla rimodulazione della pena irrogata in sede di cognizione al fine di adeguarla agli originali limiti edittali ripristinati dall’intervento della Corte Costituzionale, non è vincolato a seguire un criterio rigido di calcolo di tipo puramente aritmetico e proporzionale e deve, invece, operare una nuova commisurazione della pena alla stregua dei criteri fissati negli artt. 132 e 133 c.p., valendosi dei penetranti poteri di accertamento e valutazione attribuiti dall’art. 666, commi 4 e 5, del codice di rito, e del cui esercizio deve dare adeguato conto nella motivazione del provvedimento.

Così ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 22118/2019, depositata il 21 maggio, nella quale gli Ermellini si sono nuovamente pronunciati, nel solco dei principi indicati dalle Sezioni Unite, in materia di rideterminazione della pena alla luce dell’intervento della Corte Costituzionale in tema di stupefacenti. Il caso. Il Tribunale di Pavia, in funzione di giudice dell’esecuzione, rigettava l’istanza volta alla rideterminazione della pena di quattro anni di reclusione e 20.000 Euro di multa, inflitta all’istante per il reato di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309/1990. In particolare, in detta istanza, veniva chiesto di tenere conto della mutata cornice sanzionatoria prevista per le ipotesi di reato in cui la condotta abbia ad oggetto sostanze stupefacenti di tipo leggero”, alla luce della sentenza n. 32/2014 della Corte Costituzionale. Precisava il Tribunale adito come l’istanza di rideterminazione proposta non potesse essere vagliata con il solo criterio aritmetico-proporzionale. Riteneva quindi che la pena al tempo determinata dal giudice di cognizione si collocasse all’interno della normativa di sopravvenuta applicazione e motivava ulteriormente le ragioni del rigetto della suddetta istanza statuendo come detto rigetto fosse consentito anche in ragione del fatto che il giudice di cognizione non avesse inteso applicare la pena corrispondente al minimo edittale, bensì quella ritenuta congrua alla luce dei parametri previsti all’art. 133 c.p. Veniva proposto ricorso per cassazione. La pronuncia della Corte Costituzionale. La sentenza n. 32/2014 della Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità degli artt. 4- bis e 4- vicies ter d.l. 20 dicembre 2005, n. 272, conv., con modif., in l. 21 febbraio 2006, n. 49 legge Fini Giovanardi , che avevano unificato il trattamento sanzionatorio previsto dal d.P.R. 309/1990 per i reati aventi ad oggetto le cosiddette droghe leggere” a quelli concernenti le droghe pesanti”. L’effetto della pronuncia è consistito nella reviviscenza del previgente testo dell’art. 73 d.P.R. n. 309/1990, anche con riguardo ai fatti commessi sotto la vigenza della normativa dichiarata incostituzionale. A tal proposito le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nella sentenza Jazouli, avevano già avuto modo di pronunciarsi con particolare riguardo al trattamento sanzionatorio, statuendo come, il giudice dell’esecuzione, richiesto di adeguare il trattamento sanzionatorio in base alla pronuncia della Consulta, debba procedere alla rideterminazione della pena, sia nell’ipotesi di pena superiore ai limiti edittali, sia nei casi in cui la pena concretamente inflitta sia ricompresa entro detti limiti. La rimodulazione della pena. Muovendo e conformandosi a tale principio di diritto, gli Ermellini, nella sentenza in commento, hanno precisato come, da un lato, il ricorrente sia caduto in errore nell’invocare l’applicazione di un criterio matematico di riduzione della pena dall’altro, il Tribunale di Pavia, nel fissare la sanzione in misura analoga a quanto fatto dal giudice della cognizione, abbia di fatto vanificato l’aspirazione del condannato alla riduzione in concreto del trattamento sanzionatorio, legittimata dalla sentenza Jazouli quale ineludibile conseguenza del connotato di illegalità della pena ed ulteriormente supportata da successive pronunce di legittimità che hanno sancito un vero e proprio diritto del condannato ad una rideterminazione in melius della pena. La Cassazione ha dunque statuito come il giudice dell’esecuzione non abbia correttamente operato nel dispiegare il proprio potere discrezionale riconosciutogli in punto di rideterminazione del trattamento sanzionatorio in conseguenza del mutamento della sanzione applicabile, in quanto avrebbe dovuto conformare la nuova pena rendendola conforme ai nuovi e più favorevoli minimi edittali detentivi e pecuniari guardando alla gravità del reato ed alla personalità del reo. Di conseguenza, il Supremo Collegio ha ritenuto che il giudicante, mantenendo ferma la pena inflitta sulla base di una cornice edittale dichiarata incostituzionale, ha manifestato totale indifferenza al sensibile ridimensionamento dello spazio sanzionatorio, annullando dunque l’impugnata ordinanza, rinviando per nuovo esame al Tribunale di Pavia. Una storia infinita? La Corte Costituzionale si è ripetutamente pronunciata sulla legittimità costituzionale dell’art. 73 d.P.R. 309/90 negli ultimi anni, inviando un monito al legislatore nella sentenza n. 179/2017 affinché ponesse rimedio alla divaricazione tra il minimo edittale di pena previsto dal comma 1 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309/1990 e il massimo edittale della pena comminata dal comma 5 dello stesso articolo, ritenuto di un’ampiezza tale da determinare un’anomalia sanzionatoria rimediabile con plurime opzioni legislative”. Un ulteriore tassello alla vexata quaestio in materia di stupefacenti è stato aggiunto dalla Consulta con la sentenza 40/2019 pubblicata lo scorso 13 marzo, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309/1990, nella parte in cui in cui prevede la pena minima edittale della reclusione nella misura di otto anni anziché di sei anni, muovendo proprio dal già denunciato divario in punto di pena e dall’inerzia dimostrata dal Legislatore. Ci si chiede, a questo punto, se il Legislatore interverrà o rimarrà inerte, nella speranza che la Consulta continui a delineare il volto costituzionale della pena”.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 7 marzo – 21 maggio 2019, n. 22118 Presidente Di Tomassi – Relatore Cappuccio Ritenuto in fatto 1. Con ordinanza del 12 luglio 2018 il Tribunale di Pavia, quale giudice dell’esecuzione, ha rigettato l’istanza, presentata nell’interesse di B.S. , volta alla rideterminazione della pena di quattro anni di reclusione e 20.000 Euro di multa, inflittagli con sentenza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Pavia in data 12 febbraio 2008 per il delitto sanzionato dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309. In specie, avendo il B. chiesto tenersi conto - a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 ed alla conseguente reviviscenza della normativa previgente a quella travolta dalla dichiarazione di incostituzionalità - della mutata cornice sanzionatoria prevista per le ipotesi in cui la condotta illecita ha avuto ad oggetto sostanze stupefacenti di tipo c.d. leggero , il Tribunale ha, innanzitutto, richiamato l’indirizzo della giurisprudenza di legittimità secondo cui l’istanza di rideterminazione, fuori dalle ipotesi in cui la sanzione, in sede di cognizione, è stata concordata tra le parti, non può essere vagliata in ossequio al solo criterio aritmetico-proporzionale, dovendo il giudice fare, piuttosto, concorrente uso dei poteri discrezionali ed adeguare in tal modo la sanzione al disvalore del fatto, tenendo conto dei limiti edittali minimi e massimi previsti dalla fattispecie ripristinata. Nel merito, considerati, da un canto, l’obiettiva gravità del fatto accertato in relazione al quantitativo di sostanza detenuta ed alla sua destinazione alla cessione a terzi e, dall’altro, i precedenti specifici del condannato e la sua condotta susseguente al reato, concretatasi nella commissione di ulteriori crimini in materia di narcotraffico, e tenuto ulteriormente conto dell’impossibilità di sovvertire il formulato giudizio di equivalenza tra le circostanze attenuanti generiche e la recidiva reiterata specifica, ha stimato congrua, ai sensi dell’art. 133 c.p., la medesima pena già determinata dal giudice della cognizione, che si colloca all’interno della forbice edittale prevista dalla normativa di sopravvenuta applicazione. Ha, in proposito, aggiunto che il rigetto della richiesta di rideterminazione è consentito anche in ragione del fatto che il giudice di cognizione non ha inteso applicare la pena corrispondente al minimo edittale ma, piuttosto, quella che ha ritenuto congrua alla luce dei parametri previsti dall’art. 133 c.p 2. B.S. propone, tramite il difensore avv. Pierluigi Vittadini, ricorso per cassazione affidato ad un unico, articolato motivo, con il quale deduce la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e . Osserva che, una volta sancite dal massimo organo nomofilattico flessibilità e cedevolezza del giudicato fondato su norme dichiarate illegittime per violazione della Costituzione, la rideterminazione in me/ius della sanzione costituisce operazione ineludibile, da compiere attraverso un criterio aritmetico-proporzionalistico, cioè procedendo ad una nuova parametrazione della pena che tenga conto della diversa e ridotta cornice edittale, nel rispetto del principio di finalizzazione alla rieducazione della pena, sia essa stata irrogata per sentenza o in seguito a patteggiamento, sancito dall’art. 27 Cost., comma 3. Aggiunge che, avendo il giudice della cognizione fissato la pena base detentiva nel minimo edittale di sei anni di reclusione, l’invocato criterio aritmetico-proporzionale avrebbe dovuto essere rispettato sulla scorta delle stesse indicazioni del giudice dell’esecuzione, secondo le quali sarebbe necessario, all’atto della rideterminazione, ridurre al minimo della ridotta e sopravvenuta cornice edittale la pena fissata dal giudice della cognizione nel minimo della pena illo tempore applicabile e successivamente espunta dall’ordinamento per effetto della declaratoria di illegittimità costituzionale delle disposizioni che la avevano introdotta in riforma di quella la cui reviviscenza è stata determinata dall’intervento del giudice delle leggi. Tanto, anche in ossequio ai principi costituzionali di ragionevolezza ed uguaglianza, che resterebbero irrimediabilmente vulnerati ove si accettasse che la pena, fissata dal giudice della cognizione nel minimo edittale, corrisponda, immutata restando la sua entità oggettiva, al massimo della pena detentiva prevista dalla norma ripristinata. 3. Il Procuratore generale, con requisitoria scritta, ha chiesto il rigetto del ricorso. Considerato in diritto 1. Il ricorso è fondato e merita, pertanto, nei limiti di seguito indicati, accoglimento. 2. La Corte costituzionale, con sentenza n. 32 del 2014, ha dichiarato la illegittimità costituzionale del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, artt. 4 bis e 4 vicies ter, convertito con modificazioni dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, che avevano unificato il trattamento sanzionatorio, in precedenza differenziato, previsto dal D.P.R. n. 309 del 1990, per i reati aventi a oggetto le c.d. droghe leggere e per quelli concernenti le c.d. droghe pesanti . L’effetto di tale pronuncia è consistito, in particolare, nel ripristinare, anche per i fatti commessi sotto la vigenza della normativa dichiarata incostituzionale, la disciplina incriminatrice e il correlato trattamento sanzionatorio stabiliti dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, ed antecedenti alla sua novellazione. L’apprezzamento degli effetti sul giudicato di tale pronuncia della Corte costituzionale, incidente sul trattamento sanzionatorio e non abrogativa della rilevanza penale del fatto, procede dal rilievo che, secondo l’opzione interpretativa cui sono pervenute le Sezioni Unite Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260695/260700 , il limite del giudicato è superabile anche laddove la dichiarazione di illegittimità costituzionale riguarda una norma diversa da quella incriminatrice ma modificativa del trattamento sanzionatorio. A tale riguardo la menzionata pronunzia delle Sezioni Unite ha, tra l’altro, rappresentato che la L. n. 87 del 1953, art. 30, comma 4, - alla cui stregua quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano l’esecuzione e tutti gli effetti penali - si riferisce a tutte le norme penali sostanziali, abbiano esse portata incriminatrice ovvero si limitino ad incidere sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, e si è rimarcato che è illegittima l’esecuzione della pena che deriva dall’applicazione di una norma di diritto penale sostanziale dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale dopo la sentenza irrevocabile, sicché devono essere rimossi gli effetti ancora perduranti della violazione conseguente all’applicazione stessa. Con specifico riferimento ai poteri del giudice dell’esecuzione le Sezioni Unite hanno stabilito che quando, successivamente alla pronuncia di una sentenza irrevocabile di condanna, interviene la dichiarazione d’illegittimità costituzionale di una norma penale diversa da quella incriminatrice, incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, e quest’ultimo non è stato interamente eseguito, il giudice dell’esecuzione deve rideterminare la pena in favore del condannato pur se il provvedimento correttivo da adottare non è a contenuto predeterminato, potendo egli avvalersi di penetranti poteri di accertamento e di valutazione . Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, citata, Rv. 260697 . Il potere di intervento del giudice dell’esecuzione deve essere esercitato, pertanto, nella rideterminazione del trattamento sanzionatorio, anche nel caso in cui esso rientri nella nuova cornice edittale Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264205 , tenendo conto del limite del fatto accertato nella pronuncia di condanna, senza contraddire le valutazioni del giudice della cognizione risultanti dal testo della stessa ed assumendo le proprie valutazioni, se necessario, mediante l’esame degli atti processuali, ai sensi dell’art. 666 c.p.p., comma 5. 3. In tema di sostanze stupefacenti, il giudice dell’esecuzione - richiesto di adeguare il trattamento sanzionatorio in precedenza determinato per l’illecita detenzione di droghe cc.dd. leggere sulla base dei limiti edittali di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, come modificato dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, in vigore al momento del fatto, ma dichiarato successivamente incostituzionale con la citata sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 25 febbraio 2014 - deve procedere alla rideterminazione della pena, sulla base dei criteri previsti dall’art. 133 c.p., tanto nell’ipotesi di pena superiore ai limiti edittali previsti dalla normativa oggetto di reviviscenza, quanto in quella in cui la pena concretamente inflitta sia compresa entro i limiti edittali ora indicati Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264205 . La ratio di questa conclusione risiede nella decisiva considerazione che - quando venga meno per contrarietà alla Costituzione, dunque con efficacia ex tunc, la cornice edittale sulla cui base il giudicante aveva proceduto all’opera di misurazione della responsabilità del reo - ne resta travolta la stessa pena in concreto inflitta, che identifica il risultato della suddetta opera di misurazione, non essendo più attuale il giudizio astratto di disvalore del fatto. In virtù dell’eliminazione ex tunc dal tessuto ordinamentale della corrispondente forbice sanzionatoria edittale, la pregressa misurazione effettuata sulla sua base non costituisce più un esito corretto e coerente - e, quindi, un esito che possa dirsi legale - del giudizio di responsabilità, restandone alterata la stessa valutazione di gravità del reato compiuta alla luce dei parametri di cui agli artt. 132 e 133 c.p. e, siccome la pena in concreto inflitta è stata determinata sulla scorta di uno sviluppo dosimetrico che non avrebbe mai dovuto essere applicato, in quanto articolato in relazione a cornice edittale contraria alla Costituzione, l’interprete si trova di fronte ad un esito illegale non causato da un errore materiale o di calcolo del giudicante, bensì conseguito all’applicazione di una norma incostituzionale. Ne deriva che anche la pena applicata sulla base del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, nella versione modificata dalla novella del 2006 ma compresa entro la cornice edittale delle norme ripristinate dalla sentenza della Corte costituzionale, rientra nel concetto di pena illegale, con la precisazione che, in questo caso, la natura dell’illegalità deriva dalla contrarietà all’ordinamento giuridico come reintegrato dalla pronuncia di incostituzionalità dell’intero procedimento giudiziale che ha presieduto alla sua determinazione, rivelatosi collidente con i principi di proporzionalità e di colpevolezza. Tale linea ermeneutica, ripetutamente affermata anche dopo il citato arresto regolatore cfr., fra le altre, Sez. 6, n. 10169 del 10/02/2016, Tamburini, Rv. 266514 Sez. 3, n. 36357 del 19/05/2015, Testani, Rv. 264880 , è pienamente condivisibile e merita di essere senz’altro ribadita anche con riferimento al caso di specie, in cui la pena concretamente inflitta è risultata compresa entro i limiti edittali - per quanto riguarda la sanzione detentiva, in coincidenza con quello superiore - fissati dalla norma rivissuta. 4. La giurisprudenza di legittimità ha affermato l’ulteriore principio per cui il giudice dell’esecuzione, nel procedere alla rimodulazione della pena irrogata in sede di cognizione al fine di adeguarla agli originari limiti edittali ripristinati, con riferimento alle droghe leggere, dall’intervento della Corte costituzionale, non è vincolato a seguire un criterio rigido di calcolo di tipo puramente aritmetico e proporzionale e deve, invece, operare una nuova commisurazione della pena alla stregua dei criteri fissati negli artt. 132 e 133 c.p., valendosi dei penetranti poteri di accertamento e valutazione attribuiti dall’art. 666, commi 4 e 5, del codice di rito, e del cui esercizio deve dare adeguato conto nella motivazione del provvedimento. La commisurazione originariamente effettuata in sede cognitiva ha costituito, infatti, il frutto dell’esercizio di una discrezionalità esplicatasi nell’ambito di un range edittale, tra il minimo e il massimo, profondamente diverso da quello ripristinato dalla Consulta tanto che il minimo della pena detentiva di sei anni di reclusione è ridivenuto il massimo della sanzione irrogabile per le droghe leggere , così da rendere necessaria una rivalutazione piena di tale aspetto, tenendo conto del fatto così come accertato dal giudice della cognizione, ma senza adeguarsi necessariamente ai termini matematici espressi da tale giudice in rapporto alla scelta tra minimo e massimo della pena edittale, che era stata operata in una condizione completamente alterata dall’adozione di un criterio normativo allora inteso a parificare il disvalore di condotte tra loro diverse in rapporto alla tipologia di sostanze stupefacenti che ne costituivano oggetto Sez. 2, n. 29431 del 08/05/2018, Puglisi, Rv. 273809 Sez. 3, n. 36357 del 19/05/2015, Testani, Rv. 264880 . 4.1. Erra, pertanto, il ricorrente nell’invocare il criterio matematico di riduzione, così trascurando che l’originaria valutazione di congruità della pena irrogata è intimamente connessa al diverso contesto edittale, all’epoca unico per tutti i tipi di sostanze stupefacenti, sicché un criterio automatico di riduzione proporzionale finisce per non tenere conto della concreta gravità dei fatti e della personalità del reo in rapporto alla nuova sanzione. 5. Il Tribunale di Pavia, muovendosi all’interno del descritto quadro ermeneutico, ha tuttavia ritenuto di fissare la sanzione, pur al cospetto di una diversa ed assai più mite cornice sanzionatoria, in misura analoga a quanto fatto dal giudice della cognizione. Così facendo, ha, in sostanza, vanificato l’aspirazione del condannato alla riduzione, in concreto, del trattamento sanzionatorio, legittimata dalle Sezioni Unite nella citata sentenza Jazouli quale ineludibile portato dal connotato di illegalità della pena, che è stata irrogata in contrasto con i principi di proporzionalità e colpevolezza, e ripresa dalla successiva produzione giurisprudenziale Sez. 1, n. 35234 del 20 giugno 2018, Katami, non massimata , nitida nell’enunciare la sussistenza di un vero e proprio diritto del condannato alla rideterminazione in melius della pena. Ciò ha fatto, sul presupposto che gli indici di commisurazione della pena previsti dall’art. 133 c.p., testimoniano dell’elevata offensività della condotta posta in essere nella fattispecie in esame e della negativa personalità del suo autore e che, d’altro canto, la fissazione della pena nel minimo edittale previsto dalla normativa successivamente dichiarata incostituzionale è avvenuta perché essa è stata ritenuta congrua alla luce degli elementi di cui all’art. 133 c.p. , senza che il giudice abbia indicato in alcun modo di voler applicare la pena minima , ciò che, continua il giudice dell’esecuzione, avrebbe viceversa comportato la necessità di applicare il criterio ermeneutico invocato dalla difesa . 6. Ritiene il Collegio che il giudice dell’esecuzione non abbia fatto buon governo del potere discrezionale riconosciutogli in vista della rideterminazione del trattamento sanzionatorio in conseguenza del mutamento della sanzione applicabile. 6.1. Ed invero, seppure, come sopra chiarito attraverso il richiamo ai più avveduti indirizzi giurisprudenziali e ad onta di quanto infondatamente asserito dal ricorrente, il giudice dell’esecuzione non è tenuto al rispetto di criteri aritmetico - proporzionalistici e, in caso di fissazione della pena nel minimo edittale della normativa dichiarata incostituzionale, non è tenuto ad attenersi al minimo di quella applicabile per effetto della sentenza n. 32 del 2014 - Cass. Sez. 3, n. 13223 del 03/12/2015, Boy, Rv. 266767 Sez. 4, n. 46973 del 06/10/2015, Mentonis , risulta violato il principio per cui l’esito della rideterminazione deve imprescindibilmente risolversi, in concreto, nella diminuzione del quantum di pena irrogata. La giurisprudenza di legittimità ha, in proposito, stabilito, con riferimento alla fase di cognizione ma in forza di un iter argomentativo applicabile anche in sede esecutiva, che la reviviscenza del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, nel testo anteriore alle modifiche introdotte dal D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito con modificazioni dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, successivamente dichiarate incostituzionali dalla sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, comporta che, nelle situazioni in cui la sentenza di primo grado abbia determinato la pena nella misura minima dell’editto allora vigente in relazione alle droghe cosiddette leggere , il giudice di appello, quale giudice di merito di secondo grado ovvero quale giudice di rinvio, è vincolato alla rimodulazione della pena, rendendola conforme ai nuovi e più favorevoli minimi edittali detentivi e pecuniari Sez. 6, n. 6067 del 25/11/2014, dep. 2015, Graviano, Rv. 262339 Sez. 3, n. 31163 del 16/04/2014, Grano, Rv. 260255 Sez. 6, n. 15152 del 20/03/2014, Murgeri, Rv. 258748 . 6.2. Nondimeno, nel caso di specie, il giudice dell’esecuzione ha ritenuto di non essere tenuto a diminuire la pena, sebbene il giudice della cognizione l’avesse fissata nel minimo edittale della normativa illo tempore applicabile, in ragione del fatto che la commisurazione della sanzione era avvenuta in forza del generico richiamo ai criteri previsti dall’art. 133 c.p. e non dell’espressa volontà di attenersi al limite inferiore del range edittale. Tale proposizione è in contrasto con i principi ripetutamente affermati dalle Sezioni Unite Gatto, Jazouli, prima citate, e n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, che - in particolare - hanno puntualmente rimarcato Invero, l’unico, obiettivo indicatore della gravità di un reato è il trattamento sanzionatorio previsto dal legislatore, il quale - evidentemente modula la pena edittale a seconda del disvalore che ritiene di attribuire alle ipotesi criminose, che egli stesso ha enucleato. Né potrebbe essere diversamente, in quanto il giudice non può sostituirsi al legislatore, al quale ultimo soltanto spetta decidere, nell’esercizio della funzione sovrana di produzione del diritto, se una condotta contraria alla legge debba essere punita e quindi qualificata più o meno gravemente di un’altra cfr. Sez. U, n. 15 del 26/11/1997, Varnelli, Rv. 209485-209487 . D’altra parte, il medesimo indice risulta adottato in altre occasioni, nelle quali si deve - del pari - procedere a una valutazione comparativa di gravità tra reati esempio in materia di competenza art. 32 c.p.p., o di connessione art. 47 del medesimo codice . Va da sé che, sulla valutazione in astratto compiuta dal legislatore e di seguito ad essa , si innesta la valutazione in concreto compiuta dal giudice di merito, il quale ha conosciuto tanto il fatto-reato, quanto il suo autore di persona e/o attraverso gli atti , e che, dunque, è in grado di determinare, nello specifico, il trattamento sanzionatorio da applicare. Come ebbe, d’altra parte, a chiarire, in una risalente sentenza, la Corte costituzionale sent. n. 15 del 1962 , l’individuazione della pena da parte del giudice non può prescindere dalla considerazione della gravità del reato e della personalità del reo onde è tipico del carattere della sanzione penale che, pur essendo essa - certamente - prefissata dalla legge, sia poi però, comunque, consentito e, al contempo, imposto al giudicante il suo adeguamento alle circostanze concrete. Infatti, l’ordinamento, tranne casi eccezionali di penalità fisse, non può realizzare un’adeguata corrispondenza della sanzione al fatto illecito, se non mediante la concreta valutazione del singolo caso e con quella determinazione della pena che, volta per volta, ne viene fatta dal giudice con regolata discrezionalità Corte Cost., sent. n. 25 del 1967 . Perciò, la valutazione discrezionale del giudice nella individuazione della pena in concreto da applicare non può prescindere dagli indicatori astratti il minimo e il massimo edittale che il legislatore gli ha fornito. È nell’ambito di quello spazio sanzionatorio che il giudicante deve compiere la sua valutazione. Con la conseguenza che se detto spazio muta si restringe o si dilata , mutano inevitabilmente i parametri entro i quali la valutazione in concreto deve essere effettuata . L’ordinanza impugnata che, mantenendo ferma la pena inflitta sulla base di una cornice edittale dichiarata incostituzionale, ha manifestato totale indifferenza al sensibile ridimensionamento dello spazio sanzionatorio, deve dunque essere annullata, con rinvio al Tribunale di Pavia, perché proceda a nuovo esame attenendosi ai principi sopra enunciati. P.Q.M. Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Pavia.