Dichiarazione di incostituzionalità e rideterminazione della pena: i limiti operativi secondo la Cassazione

Non è ammissibile l'istanza rivolta al giudice dell'esecuzione, tendente ad ottenere la rideterminazione del trattamento sanzionatorio in seguito a declaratoria di incostituzionalità della norma incriminatrice, nel caso in cui, essendo stata interamente espiata la pena detentiva, la richiesta attenga alla sola pena pecuniaria. Ciò perché il rapporto esecutivo deve intendersi ormai esaurito.

Così ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione, Sezione Prima Penale, con la sentenza n. 20248 depositata il giorno 10 maggio 2019. Quando la Consulta intervenne sui reati in materia di stupefacenti. Tutti ricorderanno la decisione con cui, nel 2014, si dichiarò l'incostituzionalità della normativa penale in tema di sostanze stupefacenti per dirla in pillole, ritornò d'un sol colpo in vigore la legge c.d. Iervolino-Vassalli” e, di conseguenza, la distinzione tra condotte illecite in materia di droghe pesanti e leggere, diversamente sanzionate in ragione della diversa efficacia drogante di queste ultime. Possiamo facilmente immaginare il precipitato di quella storica sentenza non soltanto i processi pendenti, ma anche quelli definiti con sentenza passata in giudicato ne furono interessati sul fronte della ri determinazione del trattamento sanzionatorio. Ora, il caso che ci occupa è proprio uno di questi un soggetto, già condannato alla pena della reclusione e della multa per detenzione e cessione di marijuana, chiede al giudice dell'esecuzione, dopo avere interamente scontato la pena detentiva, di poter imputare la parte di carcerazione subita in eccesso” alla pena pecuniaria non versata. Il giudice, però, dichiara inammissibile l'istanza, e da qui il ricorso per cassazione. La tangibilità del giudicato. Prima di confermare la correttezza della decisione espressa dal giudice dell'esecuzione, la Suprema Corte ci ricorda, con pochi ma efficaci passaggi, che il giudicato è una realtà tendenzialmente cristallizzata, ma che la certezza dei rapporti giuridici che la definitività di una pronuncia mira a tutelare deve retrocedere di fronte alla contrapposta esigenza di rimuovere, per quanto possibile, gli effetti giuridici prodotti dalla norma incostituzionale durante il periodo in cui è stata in vigore. E' proprio il contrasto tra una disposizione normativa e l'universo giuridico che la circonda a rendere necessario riguardare tutte le situazioni giuridiche dalla prima generate. Il problema è ancora più spinoso nel territorio in cui opera il diritto penale e, segnatamente, quello dove regnano le norme incriminatrici. Gli effetti sanzionatori collegati a queste ultime - le pene detentive prime tra tutte – impongono di derogare al principio di intangibilità del giudicato di condanna. Su questo punto la giurisprudenza è chiarissima il naturale corollario della declaratoria di incostituzionalità non può che essere la cessazione immediata di tutti gli effetti penali della norma incriminatrice ritenuta incompatibile con la Costituzione. Ciò presuppone, però, che il rapporto esecutivo sia ancora sussistente, in modo tale da consentire al giudice dell'esecuzione di intervenire nel modo più opportuno, se del caso rimodulando il trattamento sanzionatorio a suo tempo applicato. L'integrale espiazione della pena detentiva, però, determina l'esaurimento di questo rapporto esecutivo”. Pena detentiva e pecuniaria quale delle due mantiene in essere il rapporto esecutivo? La Cassazione, rifacendosi ad un proprio arresto a Sezioni Unite del 2014 la celebre sentenza Gatto” , ritiene che soltanto l'esecuzione della pena detentiva consenta di mantenere vivo il rapporto esecutivo. A diversa conclusione deve pervenirsi nel caso di condanna a pena pecuniaria. La ratio di una tale conclusione deve rinvenirsi essenzialmente nella necessità che l'avvenuta dichiarazione di incostituzionalità di una norma incriminatrice non continui a produrre effetti pregiudizievoli nei riguardi di beni giuridici tutelati dalla stessa costituzione – la libertà personale è tra questi – e il presupposto logico è che l'espiazione della pena detentiva, s'intende non sia già terminata. Se questo è il principio ispiratore che anima l'orientamento giurisprudenziale in esame, comprendiamo bene per quali motivi la Cassazione non ha ritenuto di estenderne la portata applicativa nel caso in cui ad essere inciso dalla norma incriminatrice incostituzionale sia il patrimonio che, a ben vedere, non gode dello stesso rilievo assegnato alla libertà dell'individuo.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 19 ottobre 2018 – 10 maggio 2019, n. 20248 Presidente Mazzei – Relatore Esposito Ritenuto in fatto 1. Con l’ordinanza indicata in epigrafe la Corte di appello di Napoli, in funzione di giudice dell’esecuzione, ha dichiarato l’inammissibilità dell’istanza proposta da R.R. ai sensi dell’art. 673 c.p.p., di rideterminazione della pena di anni quattro di reclusione ed Euro diciottomila di multa inflittagli con sentenza della Corte di appello di Napoli del 19/05/2008, irrevocabile l’08/04/2009 per il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 detenzione/cessione di marijuana . La Corte territoriale ha premesso che l’istanza originaria si basava sugli effetti della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, comportante una rimodulazione in melius della cornice edittale prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, per le condotte criminose aventi ad oggetto le droghe c.d. leggere , tra le quali figura la marijuana. L’effetto favorevole consiste nel riespandere per i fatti commessi tra il omissis e il omissis la previgente disciplina incriminatrice e le correlate diverse sanzioni. Il giudice a quo ha richiamato la disposizione di cui alla L. n. 87 del 1953, art. 30, comma 4, in base al quale quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali ha sottolineato che tale disposizione impone di rimuovere tutti gli effetti pregiudizievoli del giudicato non divenuti nel frattempo irreversibili perché già consumati, come nel caso di condannato che abbia già scontato la pena . La Corte di appello ha rilevato che, nella fattispecie, il rapporto esecutivo era estinto da tempo, avendo R. espiato interamente la pena, in regime di detenzione domiciliare, in data 20 settembre 2010, per cui difetta il requisito dell’attualità dell’interesse del condannato ad ottenere il beneficio. 2. R.R. , a mezzo del proprio difensore, propone ricorso per Cassazione avverso la suindicata ordinanza, per violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, artt. 568 e 657 c.p.p Si deduce l’illogicità della motivazione dell’ordinanza in questione nelle parti in cui è stato escluso l’interesse ad impugnare il provvedimento in conseguenza dell’intervenuta espiazione della pena in regime di detenzione domiciliare ed era omesso qualsiasi riferimento alla sanzione pecuniaria irrogata con la medesima sentenza, che potrebbe essere sensibilmente ridotta per effetto della rideterminazione della multa sulla base della reviviscente cornice edittale. Peraltro, all’esito dell’invocata rideterminazione della pena detentiva, applicando l’istituto della fungibilità ex art. 657 c.p.p., comma 3, la quota di pena espiata in eccesso potrebbe essere commutata a titolo di pena pecuniaria, con conseguente diminuzione o azzeramento della multa da pagare. Considerato in diritto Il ricorso è inammissibile in quanto basato su motivi generici e manifestamente infondati. 1. La Corte territoriale ha rigettato l’istanza proposta da R. , con la quale quest’ultimo aveva chiesto la rideterminazione della pena irrogatagli con sentenza della Corte di appello di Napoli del 19/05/2008, irrevocabile l’08/04/2009 per il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 detenzione/cessione di marijuana , per rapportarla ai nuovi limiti edittali determinatisi a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 dichiarativa di illegittimità costituzionale del D.L. n. 272 del 2005, artt. 4 bis e 4 vicies ter, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 49 del 2006, art. 1, comma 1. La Corte di appello ha rilevato che la pena detentiva era stata interamente espiata, per cui si era estinto il rapporto esecutivo e ciò escludeva l’interesse del condannato ad ottenere la rideterminazione di pena il ricorrente, invece, sostiene che il rapporto esecutivo non si era ancora estinto, perché la pena pecuniaria non era stata ancora versata, per cui la pena detentiva espiata in eccesso poteva essere convertita in pena pecuniaria, determinando la riduzione o l’azzeramento della multa da pagare. 1.1. Va osservato innanzitutto che R. presentava un’istanza originaria del tutto generica, in quanto non indicava se avesse o meno già espiato la pena detentiva né chiedeva la sua conversione in pena pecuniaria, ma si limitava a chiedere di determinare la pena in misura ridotta tali precisazioni sono contenute nel solo ricorso in Cassazione. 2. Occorre, peraltro, approfondire il tema della possibilità o meno del giudice dell’esecuzione di rideterminare la pena in caso di dichiarazione di incostituzionalità di disposizione, che incida su tale trattamento sanzionatorio in termini più favorevoli. Le Sezioni Unite di questa Corte hanno tracciato le linee ermeneutiche fondamentali ai fini della comprensione della tematica devoluta dal ricorso Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014, Gatto, Rv. 260696 e 260697 - indirizzo in seguito confermato da Sez. 5, n. 15362 del 12/01/2016, Gaccione, Rv. 266564 Sez. 1, n. 32205 del 26/06/2015, Gomes Toscani, Rv. 264620 . Innestandosi su un percorso interpretativo già intrapreso da precedenti decisioni Sez. U, n. 18821 del 24/10/2013, Ercolano, Rv. 258650 Sez. U, n. 4687 del 20/12/2005, Catanzaro, Rv. 232610 , si è affermato che in linea di principio la formazione del giudicato non rappresenta un ostacolo insormontabile all’accoglimento di istanze avanzate in sede esecutiva per adeguare il rapporto esecutivo ai mutamenti intervenuti nel titolo di condanna e nella sanzione inflitta, in quanto, sebbene la pronuncia irrevocabile mantenga nell’ordinamento processuale il suo valore a garanzia della certezza e della stabilità delle situazioni giuridiche, oggetto di accertamento giudiziale e della libertà individuale, stante il divieto di nuovo processo per lo stesso fatto illecito conseguente alla condanna irrevocabile, ciò nonostante non esplica efficacia assoluta e totalmente preclusiva in ragione della previsione legislativa di plurimi strumenti che consentono al giudice dell’esecuzione di operare interventi integrativi o modificativi delle statuizioni già divenute definitive, primo fra tutti la possibilità di revoca della sentenza di condanna di cui all’art. 673 c.p.p Si è quindi affrontato il tema della distinzione ontologica tra declaratoria di incostituzionalità della norma penale ed ordinario intervento legislativo abrogativo, giustificato da mutata considerazione delle finalità da perseguire con le disposizioni penali nel primo caso la pronuncia di illegittimità costituzionale travolge sin dall’origine la norma scrutinata secondo un fenomeno diverso da quello dell’abrogazione, che limita l’efficacia della sua applicazione a fatti verificatisi sino ad un certo limite temporale, potendo dar luogo a successione di leggi nel tempo in relazione alla diversa regolamentazione della stessa materia introdotta. Pertanto, nella prima situazione, poiché la norma incostituzionale viene espunta dall’ordinamento proprio perché affetta da invalidità originaria sorge l’obbligo per i giudici avanti ai quali si invocano le norme dichiarate incostituzionali di non applicarle, obbligo vincolante anche quando il contrasto con i valori costituzionali sia riscontrato in disposizione di legge penale sostanziale diversa da quella incriminatrice, perché incidente soltanto sulla pena, così divenuta illegale nella sua misura, sebbene irrogata a punizione di un fatto di immodificata illiceità penale. Ne discende che tutti gli effetti pregiudizievoli derivanti da una sentenza penale di condanna fondata, sia pure in parte, sulla norma dichiarata incostituzionale devono essere rimossi dall’universo giuridico, ovviamente nei limiti in cui ciò sia possibile, non potendo essere eliminati gli effetti irreversibili perché già compiuti e del tutto consumati . In tal modo si è precisato, in aderenza al disposto della L. n. 87 del 1953, art. 30, comma 4, secondo il quale, quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali, da un lato che l’omesso inserimento nel testo dell’art. 673 c.p.p., del caso di declaratoria di incostituzionalità di norma penale relativa al solo trattamento sanzionatorio non impedisce l’esercizio dei poteri del giudice dell’esecuzione, dall’altro che il rilievo concreto della pronunzia di incostituzionalità della disposizione che prevede la pena incontra il limite dell’esaurimento del rapporto esecutivo. Invero, l’aspetto decisivo, che segna invece il limite non discutibile di impermeabilità e insensibilità del giudicato anche alla situazione di sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale della norma applicata è costituito dalla non reversibilità degli effetti, giacché l’art. 30 cit. impone di rimuovere tutti gli effetti pregiudizievoli del giudicato non divenuti nel frattempo irreversibili perché già consumati, come nel caso di condannato che abbia già scontato la pena . Da tali premesse si è fatta discendere la conclusione per cui l’illegalità della pena ne comporta la rideterminazione ad opera del giudice dell’esecuzione, ma a condizione che essa non sia stata già interamente espiata. Invero, le Sezioni Unite, ponendosi in continuità con l’orientamento già espresso dalla Corte Costituzionale sentenze n. 127 del 1966 e n. 58 del 1967 hanno rilevato come il rapporto esecutivo penale tragga origine dal titolo irrevocabile di condanna e si concluda soltanto con l’espiazione, oppure con l’estinzione della pena. Pertanto, se l’esecuzione è perdurante, il rapporto esecutivo non può ritenersi esaurito e risente degli effetti della norma dichiarata costituzionalmente illegittima, che dovranno essere rimossi con un intervento del giudice dell’esecuzione, cui compete in linea generale assumere le decisioni, aventi efficacia giurisdizionale, su ogni questione inerente al ‘rapporto esecutivo al contrario, qualora non vi fosse più un’esecuzione pendente per il suo definitivo esaurimento, l’ordinamento non consente l’esperimento di alcuna azione o rimedio, secondo i principi invocabili in materia c.c. n. 58 del 1967 . 2.1. Tanto premesso, nel caso in esame, non è consentito al giudice dell’esecuzione procedere alla rideterminazione della pena pecuniaria ai sensi dell’art. 673 c.p.p Il primo aspetto da considerare è costituito dalla erronea interpretazione della portata e dei limiti della citata sentenza Gatto delle Sezioni Unite e di tutto il filone giurisprudenziale successivo, che ne ha ricalcato ed elaborato le linee ermeneutiche. La pronunzia in questione circoscrive il suo ambito applicativo alla sola pena detentiva, in quanto l’elaborazione giuridica ivi illustrata - per quanto di interesse nella presente sede - si fonda principalmente sul richiamo ai seguenti principi a la forza del giudicato derivante dall’esigenza di porre un limite all’intervento dello Stato nella sfera individuale b il diritto fondamentale alla libertà personale c l’esigenza di rideterminare la pena non interamente espiata . Si richiamano i seguenti passaggi della pronunzia Gatto, relativamente ai punti nodali della questione - Occorre perciò ribadire che il diritto fondamentale alla libertà personale deve prevalere sul valore dell’intangibilità del giudicato, sicché devono essere rimossi gli effetti ancora perduranti della violazione conseguente all’applicazione di tale norma incidente sulla determinazione della sanzione, dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale dopo la sentenza irrevocabile . - Successivamente a una sentenza irrevocabile di condanna, la dichiarazione d’illegittimità costituzionale di una norma penale diversa dalla norma incriminatrice, idonea a mitigare il trattamento sanzionatorio, comporta la rideterminazio-ne della pena, che non sia stata interamente espiata, da parte del giudice dell’esecuzione . - in ambito penale la forza della cosa giudicata nasce certamente dall’ovvia necessità di certezza e stabilità giuridica e dalla stessa funzione del giudizio, volto a superare l’incertezza dell’ipotesi formulata dall’accusa a carico dell’imputato per pervenire, secondo le regole del giusto processo, ad un risultato che trasformi la res iudicanda in res iudicata, ma essa deriva soprattutto dall’esigenza di porre un limite all’intervento dello Stato nella sfera individuale e si esprime essenzialmente nel divieto di bis in idem, che assume nel vigente diritto processuale penale la portata e la valenza di principio generale , impedendo la celebrazione di un nuovo processo per il medesimo fatto e imponendo al giudice di pronunciare in ogni stato e grado del processo sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, se, nonostante tale divieto, viene di nuovo iniziato procedimento penale . Le Sezioni Unite, quindi, hanno affermato che la cosa giudicata non implica l’immodificabilità in assoluto del trattamento sanzionatorio stabilito con la sentenza irrevocabile di condanna nei casi in cui la pena debba subire modificazioni necessarie imposte dal sistema a tutela dei diritti primari della persona Corte Cost. sent. n. 115 del 1987, n. 267 del 1987 e n. 282 del 1989 . La decisione in esame evoca essenzialmente i temi della libertà personale e della pena detentiva, per cui tali principi non possono essere estesi sic et simpliciter alla pena pecuniaria. D’altronde, nella fattispecie all’esame della sentenza Gatto, l’organo inquirente aveva sollecitato la rideterminazione della pena di sei anni di reclusione e di venti-seimila Euro di multa inflitta al condannato, ma chiaramente l’annullamento è circoscritta alla sola pena detentiva La pena inflitta al Gatto sei anni di reclusione è stata, perciò, inevitabilmente condizionata dalla esistenza della norma costituzionalmente illegittima, che ha impedito al giudice di riconoscere la prevalenza delle circostanze attenuanti sulla contestata recidiva . 2.2. Venendo all’analisi della fattispecie sottoposta all’attenzione di questa Corte deve rilevarsi che il condannato per il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, per detenzione e/o cessione di droghe leggere non poteva far valere gli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza della Corte Cost. n. 32 del 2014 sul presupposto che la pena pecuniaria non era stata ancora versata e chiedere la conversione della pena detentiva già espiata in pena pecuniaria in proprio favore, ottenere una eliminazione o quantomeno una riduzione della pena pecuniaria da pagare e così rimuovere tali effetti pregiudizievoli, derivanti dalla norma dichiarata costituzionalmente illegittima. Si ribadisce al riguardo che l’elaborazione giurisprudenziale in tema di dichiarazione di illegittimità costituzionale di norma incidente sulla commisurazione della pena è strettamente connessa ai principi fondamentali in tema di libertà personale e va collegata pertanto, in via esclusiva, alla pena detentiva. Quando la pena detentiva sia già stata espiata, come nella fattispecie in esame, non si può ipotizzare nessuna modifica del giudicato in sede esecutiva per effetto di una dichiarazione di incostituzionalità di una norma e, tantomeno, operare la conversione della pena detentiva in pena pecuniaria non ancora versata e determinare l’eliminazione o la riduzione dell’ammontare di quest’ultima. Non si versa in ipotesi di rapporto esecutivo non esaurito. Tale nozione, infatti, non può essere collegata all’ipotesi di pena detentiva integralmente espiata e di pena pecuniaria non ancora pagata, bensì solo a quella di pena detentiva non ancora scontata in tutto o in parte , innestandosi essenzialmente in un rapporto di durata della medesima. Non è configurabile, invece, un nesso tra la nozione di rapporto non esaurito e pena pecuniaria, che possa non essere stata ancora pagata per ragioni di ritardo nella procedura esecutiva o per altre cause. In conclusione, deve essere affermato il seguente principio è inammissibile l’istanza rivolta al giudice dell’esecuzione per la rideterminazione della pena detentiva illegale, derivante da dichiarazione d’illegittimità costituzionale di una norma penale incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, quando sia basata sul presupposto che la pena detentiva sia stata interamente espiata e la pena pecuniaria non versata, perché in tale ipotesi il rapporto esecutivo deve ritenersi esaurito . 3. Per le ragioni che precedono, il ricorso va dichiarato inammissibile con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e - non sussistendo ragioni di esonero - al versamento della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.