Riflessioni sul dolo dell’amministratore di diritto nei reati tributari

Il dolo specifico dei delitti di cui agli artt. 2, 5, 8 e 10 d.lgs. n. 74/2000 in capo all’amministratore di diritto di una società che abbia le caratteristiche di un prestanome” può essere desunto dal complesso dei rapporti tra questo e l’amministratore di fatto, nell’ambito dei quali assumono una decisiva valenza la macroscopica illegalità dell’attività svolta e la consapevolezza di tale illegalità da parte dell’amministratore di fatto.

La Terza Sezione della Cassazione, con la pronuncia n. 2570/2019, depositata il 21 gennaio, tratteggia gli elementi essenziali al fine di ritenere sussistente il dolo del prestanome legale rappresentante di una società in relazione ai reati tributari a dolo specifico di cui agli artt. 2, 5, 8 e 10 del d.lgs. n. 74/2000. Reati tributari e dolo specifico. La riforma del diritto penale tributario dell’anno 2000 nasce da un radicale cambio di prospettiva del legislatore nell’utilizzo del sistema penale quale strumento di repressione delle violazioni tributarie. Il d.lgs. n. 74/2000, infatti, abbandona completamente la sanzione penale per fattispecie meramente prodromiche all’evasione, come invece era avvenuto con la legge n. 516/82, noto come manette agli evasori”, per riservare la sanzione penale alle sole ipotesi di vera e propria evasione fiscale, caratterizzandole, inoltre, per la richiesta decettività della condotta, ovvero il superamento di diverse soglie di punibilità, o meglio di penale rilevanza, e comunque connotando tutte le fattispecie con il dolo specifico di evasione fiscale. La limitazione dell’area del penalmente rilevante non rispondeva, invero, ad una abdicazione della lotta contro gli evasori, ma anzi ad un recupero della effettività della sanzione penale nella materia tributaria, atteso che la pletora di procedimenti penali sorti per effetto della legge manette agli evasori, lungi dal riempire le carceri – come il nome prometteva –, aveva saturato gli armadi delle Procure della Repubblica d’Italia di fascicoli in attesa del maturare del termine di prescrizione. Dolo specifico e prestanome di una società. La connotazione del dolo specifico propria delle fattispecie penali tributarie previste nel d.lgs. n. 74/2000 apre a nuove riflessioni nel caso in cui – come quello di specie portato alla attenzione della Suprema Corte – a rispondere del delitto tributario sia chiamato il mero prestanome di una società. Ferma, infatti, la responsabilità dell’amministratore di fatto che abbia materialmente posto in essere le condotte penalmente rilevanti, si pone il problema di caratterizzare la sfera di responsabilità dell’amministratore di mero diritto in punto di consapevolezza del medesimo che tali condotte fossero poste in essere con il dolo specifico di evadere le imposte art 2, 5 e 10 ovvero di consentire a terzi di evadere le imposte art. 8 d.lgs. n. 74/2000 . Sul punto specifico, infatti, si incentra il ricorso per cassazione proposto dalla difesa. Si duole il ricorrente, in particolare, del fatto che i giudici di merito si sarebbero accontentati di caratterizzare l’atteggiamento psicologico dell’imputato in termini di dolo eventuale, poiché lo stesso avrebbe accettato il rischio costi quel che costi”, ma non avrebbero in alcun modo dimostrato in capo allo stesso la consapevolezza che tali condotte fossero state poste in essere con il dolo specifico di evasione fiscale. I principi fondanti la responsabilità della testa di legno. Osservano preliminarmente gli Ermellini che, per consolidata giurisprudenza, l’amministratore di diritto, anche se mero prestanome, è comunque investito degli obblighi inerenti all’amministrazione della società. Nel dettaglio l’amministratore di diritto quale mero prestanome è responsabile, a titolo di concorso, per omesso impedimento dell’evento, a condizione che ricorra l’elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice. Correttamente, dunque, il ricorrente invoca la necessaria sussistenza del dolo specifico di evasione in capo al prestanome. Ancor più nel dettaglio, ricorda la Cassazione come, proprio in ipotesi di contestazione di delitti tributari, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che la prova del dolo specifico di evasione può essere desunta da una pluralità di elementi fattuali, come l’entità del superamento della soglia di punibilità vigente o il complessivo comportamento del soggetto obbligato, che siano dimostrativi della dolosa premeditazione. Il precipitato nel caso di specie. Se, dunque, i principi di diritto enunciati dal ricorrente trovano riscontro nella disamina operata dalla Suprema Corte, non può dirsi altrettanto per le conclusioni che la Corte trae in relazione alla vicenda sottoposta alla sua attenzione. Osserva, infatti, la Cassazione che i giudici di merito hanno fatto buon governo di tali principi, rimarcando che l’imputato, quale amministratore di diritto, ricopriva un ruolo di garanzia in relazione al quale era sufficiente la consapevolezza che l’amministratore di fatto ponesse in essere le condotte incriminate, per ritenere sussistente l’elemento psicologico del dolo specifico. L’imputato, infatti, rilasciava ampie deleghe, sottoscriveva documenti ed aveva accettato una retribuzione aggiuntiva nella evidente consapevolezza della macroscopica illiceità fiscale che caratterizzava la condotta posta in essere dalla società. Nonostante tale macroscopica situazione, l’imputato non si era in alcun modo attivato per evitare il verificarsi dei reati fiscali al medesimo contestati. Ne consegue, dunque, il principio di diritto che viene esplicitamente affermato, secondo cui il dolo specifico dei delitti di cui agli artt. 2, 5, 8 e 10 d.lgs. n. 74/2000 in capo all’amministratore di diritto di una società, che abbia le caratteristiche di un prestanome,” può essere desunto dal complesso dei rapporti tra questo e l’amministratore di fatto, nell’ambito dei quali assumono una decisiva valenza la macroscopica illegalità dell’attività svolta e la consapevolezza di tale illegalità da parte dell’amministratore di fatto.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 28 settembre 2018 – 21 gennaio 2019, n. 2570 Presidente Di Nicola – Relatore Andronio Ritenuto in fatto 1. - Con sentenza del 5 marzo 2018, la Corte d’appello di Milano ha parzialmente riformato la sentenza del Tribunale di Milano, emessa il 21 novembre 2016, con la quale M.V. , riconosciute le attenuanti generiche ex art. 62 bis c.p. e considerato l’aumento di pena pari a mesi 2 a titolo di continuazione ex art. 81 c.p., comma 2 per ciascuno degli ulteriori reati fiscali, era stato condannato alla pena di anni 1 e mesi 4 di reclusione, per i reati di cui agli A art. 110 c.p., D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 8, perché, insieme alla coimputata C.G. , in concorso tra loro e in qualità di legali rappresentanti della Ausonia Società Cooperativa, rispettivamente dal 30/10/2008 al 06/09/2010 e dal 06/09/2010 al 21/02/2013 data del verbale di accertamento della Guardia di Finanza , al fine di consentire alle società cooperative, consorziate al Consorzio Italjob, di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, avevano emesso fatture per operazioni oggettivamente inesistenti per un imponibile complessivo pari ad Euro 8.294.932,42 più IVA pari ad Euro 1.658.986,48 B D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, perché, in qualità di legale rappresentante della Ausonia Società Cooperativa dal 06/09/2010 al 21/02/2013, al fine di evadere l’imposta sui redditi e sul valore aggiunto, non aveva presentato, pur essendovi obbligato, la relativa dichiarazione annuale per l’anno d’imposta 2010 29 dicembre 2011 C D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10, perché, in qualità di legale rappresentante della Ausonia Società Cooperativa dal 06/09/2010 al 21/02/2013, al fine di evadere l’imposta sui redditi e sul valore aggiunto, aveva occultato le scritture contabili o i documenti di cui era obbligatoria la conservazione, così da non consentire alla Guardia di Finanza la ricostruzione dei redditi e del volume d’affari per l’esercizio 2010 22 marzo 2012 . La Corte distrettuale ha disposto la sospensione condizionale della pena e la non menzione della condanna, confermando nel resto la sentenza di primo grado. 2. - Avverso la sentenza d’appello l’imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione. 2.1. - Con un primo motivo di doglianza, si lamenta la violazione dell’art. 43 c.p. in relazione al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 5, 8 e 10, sul rilievo che i reati in questione richiederebbero per la loro consumazione il dolo specifico di evadere o consentire l’evasione di terzi. La Corte d’Appello avrebbe addebitato la responsabilità all’imputato sulla base di una descrizione del suo atteggiamento psicologico coincidente con il c.d. dolo eventuale o al massimo col dolo diretto, avendo egli solo accettato il rischio dell’eventuale generica commissione di fatti illeciti, mancando, invece, lo specifico intento di evadere o far evadere le imposte o consentire a terzi l’evasione. La difesa sostiene, inoltre, l’incompatibilità tra il dolo specifico e il dolo eventuale, che postulerebbe l’accettazione solo in via ipotetica del conseguimento di un risultato, e lamenta che la Corte d’appello avrebbe cercato di superare questa distinzione, affermando che l’imputato avrebbe accettato il rischio, costi quel che costi ma tale assunto non modificherebbe qualitativamente l’elemento del dolo, in quanto non aggiungerebbe quel quid pluris coincidente con l’intento specifico di evasione. E ciò, in quanto il dolo specifico di evadere o far evadere a terzi le imposte non richiederebbe solo la prospettazione del pericolo di essere coinvolto in progetti illeciti ma anche un preciso contenuto rappresentativo, coincidente con la consapevolezza del meccanismo con cui evitare il pagamento delle imposte. Questa consapevolezza sarebbe pacificamente assente nel M. che non aveva capacità manageriale, non si soffermava a leggere la documentazione che gli veniva richiesto di firmare e si asteneva dal controllare la contabilità, fidandosi ciecamente di S. , amministratore di fatto. Nemmeno gli altri elementi presi in considerazione dalla Corte d’appello, come la circostanza che la madre e il fratello dell’imputato fossero titolari di altre cooperative o la condanna del M. per delitti di natura societaria, costituirebbero prova della specifica intenzione di voler evadere o fa evadere le imposte mediante le condotte contestate. 2.2. - In secondo luogo, con una doglianza parzialmente ripetitiva della prima, si contesta la violazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 8, in quanto la Corte d’Appello avrebbe affermato la responsabilità penale del M. in relazione all’emissione delle fatture fittizie, pur in carenza del dolo specifico richiesto dalla norma e nonostante la descrizione dello stato psichico in termini di dolo eventuale. Secondo la difesa, M. non sarebbe stato a conoscenza dell’esistenza delle fatture fittizie, delle quali ebbe notizia solo quando venne controllato dalla Guardia di Finanza e, pertanto, non si sarebbe rappresentato l’uso e la finalità di tali documenti. Con un terzo e un quarto motivo di ricorso, le censure sub 2.1. sono riproposte anche in relazione ai reati di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 5 e 10. Quanto a tale ultima fattispecie, si sostiene che l’imputato, per le sue condizioni personali e per il suo disimpegno nella contabilità e nell’amministrazione della cooperativa, non avrebbe saputo se le scritture fossero state anche solo istituite o tenute, anche in considerazione del fatto che venne a scoprire della contestazione relativa all’assenza della documentazione contabile proprio dalla Guardia di Finanza. 2.3. - Con un quinto motivo di ricorso, si lamentano la contraddittorietà della motivazione nonché la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10, in quanto si sosterrebbe l’esistenza delle scritture contabili del 2010, nonostante tale conclusione sia contraddetta dalla mancata presentazione nel 2010 delle dichiarazioni fiscali e del modello 770, nonché dalle dichiarazioni testimoniali delle segretarie, le quali avevano rappresentato di non avere stampato brogliacci, annotazioni, o altri documenti fiscali, né il libro giornale. La motivazione sarebbe contraddittoria nel punto in cui ammette che le segretarie erano tenute a redigere solo brogliacci, poi non stampati, così come il libro giornale, a dimostrazione che vi fossero solo delle annotazioni che venivano usate dallo S. e dai commercialisti per decidere come procedere alle fatturazioni fittizie. Inoltre, l’assenza dei modelli 770 e la mancata presentazione della dichiarazione per l’anno 2010 dimostrerebbero che la contabilità era tenuta, più o meno regolarmente fino al 2009, cessando nell’anno 2010. In conclusione, la mancata prova dell’istituzione delle scritture contabili per l’anno 2010 comporterebbe una contestazione per il M. della sola omessa tenuta di tale documentazione e non la distruzione o la sottrazione per evadere le imposte. Considerato in diritto 3. - Il ricorso è inammissibile. 3.1. - I primi quattro motivi di doglianza - che devono essere esaminati congiuntamente perché, seppure riguardanti fattispecie di reato differenti, attengono tutti alla pretesa sussistenza dell’elemento soggettivo quale dolo eventuale o dolo generico sono inammissibili, in quanto meramente ripetitivi di doglianze di merito già esaminate e motivatamente disattese dalla Corte d’appello. Contrariamente a quanto asserito dalla difesa, dalla semplice lettura della sentenza impugnata emerge che la Corte di secondo grado non ha motivato la sussistenza dell’elemento soggettivo in termini di dolo eventuale o generico, per nessuno dei reati contestati. Quest’ultima ha correttamente richiamato la giurisprudenza di legittimità in materia di bancarotta e di reati tributari, secondo la quale la responsabilità penale dell’amministratore in carica sussiste anche se il fatto illecito viene commesso dall’amministratore di fatto, in quanto permane in capo all’amministratore di diritto l’obbligo giuridico di impedire l’evento oggetto del reato. 3.1.1. - Si è affermato, sul punto, che l’amministratore di diritto, anche se mero prestanome, è comunque investito degli obblighi inerenti all’amministrazione della società Sez. 5, n. 43977 del 14/07/2017, Rv. 271754 - 01 e si è precisato che l’amministratore di fatto risponde quale autore principale, in quanto titolare effettivo della gestione sociale e, pertanto, nelle condizioni di poter compiere l’azione dovuta, mentre l’amministratore di diritto, quale mero prestanome, è responsabile a titolo di concorso per omesso impedimento dell’evento, a condizione che ricorra l’elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice Sez. 3, n. 38780 del 14/05/2015, Rv. 264971 - 01 Sez. 5, n. 7332 del 07/01/2015, Rv. 262767 - 01 . Sussiste, in altri termini, la responsabilità dell’amministratore di diritto, a titolo di concorso nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, con l’amministratore di fatto, non già ed esclusivamente in virtù della posizione formale rivestita all’interno della società, ma in ragione della condotta omissiva dallo stesso posta in essere, consistente nel non avere impedito, ex art. 40 c.p., comma 2, l’evento che aveva l’obbligo giuridico di impedire e cioè nel mancato esercizio dei poteri di gestione della società e di controllo sull’operato dell’amministratore di fatto, connaturati alla carica rivestita Sez. 5, n. 44826 del 28/05/2014, Rv. 261814 01 . Quanto, più in particolare, ai reati tributari per i quali il legislatore prevede il requisito soggettivo del dolo specifico, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che la prova del dolo specifico di evasione può essere desunta da una molteplicità di elementi fattuali, come l’entità del superamento della soglia di punibilità vigente o il complessivo comportamento del soggetto obbligato Sez. 3, n. 18936 del 19/01/2016, Rv. 267022 01 , che siano dimostrativi della dolosa preordinazione Sez. 3, n. 37856 del 18/06/2015, Rv. 265087 - 01 né gli obblighi dell’amministratore possono essere delegati a terzi con efficacia liberatoria, siano essi professionisti Sez. 3, n. 9163 del 29/10/2009, Rv. 246208 - 01 o responsabili di fatto. Infatti, una diversa interpretazione di tali disposizioni sanzionatorie, che trasferisca il contenuto dell’obbligo in capo al delegato, finirebbe per modificare l’obbligo originariamente previsto per il delegante in mera attività di controllo sull’adempimento da parte del soggetto delegato. 3.1.2. - Dal richiamo di tali principi la Corte di merito fa logicamente conseguire, quanto al caso di specie, che l’imputato, quale amministratore di diritto, ricopriva un ruolo di garanzia in relazione al quale era sufficiente la consapevolezza che lo S. , quale amministratore di fatto, compisse la condotta descritta dalla norma incriminatrice. Tale consapevolezza è sufficiente per ritenere sussistente l’elemento soggettivo del dolo, specificamente rivolto al compimento degli illeciti fiscali, del quale sono indici univoci gli elementi che caratterizzano il contesto della vicenda M. era pienamente consapevole della sua incompetenza societaria, affidandosi coscientemente a un soggetto come lo S. , già indagato e imputato per reati fiscali M. , quale rappresentante legale della società in questione, rilasciava deleghe ad operare sui conti correnti e firmava assegni o documenti contenenti decisioni assunte da terzi e riguardanti un sistema di cooperative, la cui illiceità era evidente ed era a conoscenza dello stesso nonostante tale consapevolezza, l’imputato aveva accettato la carica assegnatagli dallo S. , acconsentendo a ricevere una retribuzione aggiuntiva in conseguenza della particolarità delle mansioni alle quali era addetto e dei notevoli rischi assunti. E proprio tale situazione, indice univoco della macroscopica illiceità fiscale dell’attività svolta dalla cooperativa, avrebbe dovuto indurre l’imputato ad esercitare i poteri di controllo e gestione connessi alla carica da lui ricoperta, in modo da evitare di commettere i reati a lui contestati. Lo status di mero fattorino, l’incompetenza gestoria e il disinteresse nei confronti dell’amministrazione societaria da parte dell’imputato non sono, dunque, elementi che escludono il dolo specifico, ma rappresentano, al contrario, una conferma della sussistenza dello stesso. 3.1.3. - Deve dunque affermarsi, in continuità con la giurisprudenza di legittimità già precedentemente richiamata, che il dolo specifico dei reati fiscali di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 5, 8 e 10 in capo all’amministratore di diritto di una società che abbia le caratteristiche di un prestanome può essere desunto dal complesso dei rapporti tra questo e l’amministratore di fatto, nell’ambito dei quali assumono decisiva valenza la macroscopica illegalità dell’attività svolta e la consapevolezza di tale illegalità da parte dello stesso amministratore di fatto. 3.2. - Anche il quinto motivo di doglianza è inammissibile perché sostanzialmente diretto a contestare il merito della decisione impugnata. Posto che il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 presuppone come requisito l’istituzione della documentazione contabile, deve rilevarsi che la Corte di Appello ha adeguatamente motivato sul punto, ritenendola sufficientemente provata in base a diversi elementi indiziari la cooperativa di cui il M. era rappresentante legale aveva già emesso una fatturazione regolare nel 2010 e, pertanto, aveva conseguito un volume d’affari effettivamente sussistente e fin troppo vasto per non essere gestito mediante scritture contabili solo nel 2010 l’imputato risultava essere un evasore totale, mentre nel 2008 e nel 2009 erano state presentate le relative dichiarazioni dei redditi l’ammontare dei contributi pagati dalla cooperativa, di cui l’imputato era rappresentante legale, nei confronti dei suoi dipendenti era talmente elevato da presupporre la produzione di un reddito consistente le sedi delle cooperative coinvolte nel procedimento in questione si trovavano presso studi di commercialisti, evidentemente coinvolti nella redazione di bilanci e di altra documentazione contabile. Del resto, lo stesso ricorrente, dopo aver elencato all’interno del ricorso tali circostanze fattuali, non è riuscito a dimostrare in modo specifico e puntuale né i motivi per i quali fosse contraddittoria la motivazione alla base della sentenza impugnata né le ragioni della ritenuta insussistenza della fattispecie di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10. 4. - L’impugnazione deve perciò essere dichiarata inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità , alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 2.000,00. P.Q.M. Dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.