La videosorveglianza nella cella del detenuto in 41-bis non è un trattamento degradante

Per ravvisare un trattamento inumano o degradante del detenuto è necessario verificare il superamento di una soglia di gravità in concreto considerando le ragioni di tutela e fermo restando che ci si debba trovare in presenza di una sofferenza o di un’umiliazione di livello significativamente superiore a quello che solitamente è il tipo di restrizione in corso.

Sul tema la Corte di Cassazione con la sentenza n. 44972/18, depositata l’8 ottobre. Il fatto. Il Tribunale di sorveglianza di Bologna, in riforma del provvedimento del Magistrato di sorveglianza, accoglieva il reclamo proposto da un detenuto in regime di cui all’art. 41- bis ord. pen. per la lesione dei suoi diritti tramite videosorveglianza continua con una telecamera posizionata nella sua cella di pernottamento che inquadrava anche il locale bagno. Avverso tela pronuncia ricorre per cassazione il Ministero della Giustizia. Videosorveglianza. Il provvedimento impugnato muove dal presupposto che la cella e gli ambienti penitenziari non sono luoghi di privata dimora nel possesso del detenuto, in capo al quale non è dunque riscontrabile la titolarità dello ius excludendi alios con riguardo allo spazio a disposizione che è infatti nella disponibilità dell’Amministrazione penitenziaria, soprattutto per fini di vigilanza sui detenuti. Il Collegio precisa poi che l’esercizio del controllo, pur potendo essere attuato con le forme più opportune, anche continue e penetranti nel caso di soggetti di particolare pericolosità – come nel caso di specie -, in nessun caso può trasmodare nella sottoposizione a torture o trattamenti inumani o degradanti. La costante giurisprudenza CEDU sul tema afferma che per ravvisare un tale trattamento occorre il superamento di certe soglie di gravità da valutare nel caso concreto considerando le ragioni di tutela e fermo restando che ci si deve trovare in presenza di una sofferenza o di un’umiliazione di livello significativamente superiore a quello che solitamente caratterizza il tipo di afflizione restrittiva in corso. Nel caso della videosorveglianza interna alla cella non è riscontrabile, sempre secondo la giurisprudenza Cedu, una tale violazione. Le riprese delle videocamere, come sottolineato peraltro dal Tribunale, sono limitate ad alcune zone dei locali, diverse dalla toilette, e producono comunque immagini non a fuoco. In conclusione, la concreta attuazione del controllo oggettivamente non risulta integrare le soglie di umiliazione e sofferenza tali da ravvisare una violazione dell’art. 3 Cedu. Per questi motivi, la Corte annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 16 aprile – 8 ottobre 2018, n. 44972 Presidente Mazzei – Relatore Binenti Ritenuto in fatto 1. Con l’ordinanza indicata in epigrafe il Tribunale di sorveglianza di Bologna accoglieva il reclamo presentato da M.G. , sottoposto al regime speciale di detenzione previsto dall’art. 41 bis Ord. pen., avverso il provvedimento del Magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia che aveva rigettato un’istanza proposta dal medesimo M. a tutela dei suoi diritti, ritenuti lesi da un controllo tramite videosorveglianza continua, attuato con una telecamera nella cella di pernottamento con inquadratura verso il locale bagno. 2. A ragione, il Tribunale rilevava che pur non vantando il detenuto alla stregua del sistema normativo e della giurisprudenza anche sovrannazionale lo ius alios excludendi con riferimento a qualsiasi locale di permanenza a fronte della necessità di tutelare esigenze di prevenzione e sicurezza pubblica, l’uso degli strumenti di intrusione nella sfera privata, a tal fine predisposti, deve calibrarsi in relazione alle reali necessità della specifica situazione da affrontare. Di conseguenza la diretta soddisfazione del superiore interesse pubblico di cui sopra deve immediatamente dipendere dal sacrificio di quello individuale. Altrimenti, il potere esercitato sul detenuto viola i principi sanciti dagli artt. 3 e 8 CEDU, 27 comma 2 Cost. e 1 Ord. pen., anche sotto il profilo del divieto di sottoposizione a tortura ovvero a trattamenti penitenziari inumani o degradanti. Nella specie, trattandosi di telecamera, funzionante a bassa risoluzione e dunque con immagini sfocate, diretta verso la sola porta del bagno e una porzione del lavandino, non era dato comprendere quali gesti, tali da porre in pericolo le esigenze di sicurezza, potessero essere colti dalle inquadrature. Per questo lo strumento di controllo, così come attuato, non rispondeva ai necessari requisiti funzionali sopra indicati che potevano renderlo ammissibile. 2. Propongono ricorso per cassazione il Ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria tramite l’Avvocatura dello Stato. 2.1. Con un primo motivo viene lamentata violazione degli artt. 27 Cost. e 3 e 8 CEDU, per errata e contraddittoria interpretazione dei principi in materia. Si rileva che la videosorveglianza continua nelle celle degli istituti penitenziari era stata riconosciuta non contraria ai principi convenzionali dalla Corte Edu, con sentenza del 01/09/ 2015, Paolello c. Italia, in analogo caso di condannato sottoposto allo speciale regime di cui all’art. 41 bis Ord. pen., trattandosi di misura proporzionata e conforme ai doveri istituzionali di controllo in ambiente penitenziario ove il detenuto non è titolare dello ius excludendi alios. 2.2. Con un secondo motivo si denunzia violazione dell’art. 24, comma 2 n. 2, del d.P.R. n. 81 del 1999, laddove le disposizioni ivi previste assegnano al Corpo di polizia penitenziaria il compito di custodire costantemente e sorvegliare i detenuti e gli internati ovunque si trovino, così escludendo che in qualsiasi momento i medesimi possano sottrarsi alla doverosa necessaria vigilanza. Le modalità di controllo in questione erano state adottate con ponderazione tenendo conto dell’elevatissimo livello di pericolosità di M. dovuto alla sua posizione associativa apicale, nonché per specifiche ragioni, legate in primo luogo all’esigenza di prevenire evasioni e comunicazioni fraudolente, attraverso uno strumento tecnologico, non invasivo per il campo visivo limitato e il fuori fuoco ,e idoneo a ottimizzare l’impiego del personale e fornire maggiori garanzie circa la correttezza e la sicurezza dell’operato di tale personale, con possibilità di disporre delle immagini in ipotesi di eventuali inchieste penali o amministrative. Considerato in diritto 1. Il ricorso è fondato per le ragioni che di seguito si illustrano. 2. Come rilevato nella requisitoria depositata dal Procuratore Generale, il provvedimento impugnato svolge iniziali considerazioni che si uniformano alla costante giurisprudenza di legittimità, allorché ribadisce che la cella e gli ambienti penitenziari non sono luoghi di privata dimora nel possesso del detenuto, al quale dunque non compete la titolarità dello ius excludendi alios con riguardo agli spazi in questione, essendo gli stessi, di contro, nella disponibilità dell’Amministrazione penitenziaria che ne può fare sempre uso secondo le finalità e i modi consentiti dalle previsioni di legge Sez. 7, n. 21506 del 16/03/2017, Roman, Rv. 269781, I Sez. 1, n. 32851 del 06/05/2008, Sapone, Rv. 241228 . E ciò anzitutto per esercitare la dovuta vigilanza sui detenuti secondo le finalità di legge, alla stregua delle specifiche modalità individuate caso per caso e attuando forme di controllo tanto più giustificate, ove continue e penetranti, in presenza di soggetti di particolare pericolosità, come nel caso del ricorrente, secondo quanto riconosciuto nella stessa ordinanza impugnata in modo da risultare non controverse, sotto il profilo della concretezza e attualità, le elevate esigenze di tutela della sicurezza sociale, oltre che del medesimo detenuto. L’esercizio del controllo con i mezzi in concreto ritenuti idonei, in forza di scelte rimesse all’amministrazione penitenziaria secondo le disposizioni citate nel ricorso che gliene attribuiscono la competenza, in nessun caso però può trasmodare nella sottoposizione a torture o trattamenti inumani o degradanti. La giurisprudenza della Corte Edu a partire dalla sentenza della Grande Camera del 06/04/2000, Labita c. Italia ha costantemente affermato che, per ravvisare un trattamento di quel genere, tuttavia, occorre che si superino certe soglie di gravità, da valutare nel caso concreto secondo alcuni concorrenti parametri, considerando contemporaneamente le ragioni della tutela e fermo restando che ci si deve pur sempre trovare in presenza di una sofferenza o di una umiliazione di livello significativamente superiore a quello che ordinariamente accompagna il tipo di afflizione restrittiva in corso di esecuzione. Tale superamento, come riconosciuto dalla stessa giurisprudenza della Corte Edu sentenza del 01/09/2015, Paolello c. Italia , non si verifica solo per effetto della videosorveglianza all’interno della cella ai fini della tutela di esigenze di ordine pubblico, nel caso del detenuto in regime di cui all’art. 41 bis Ord. pen Tanto non appare in sé smentito neppure dalla pronunzia di legittimità citata nel provvedimento impugnato Sez. 1, n. 49988 del 24/11/2009, Rv. 245969 , essendosi ivi solo rilevato che nel particolare caso trattato le modalità attuative, poiché tali da riprendere costantemente il detenuto perfino nel momento del suo utilizzo della toilette, dessero luogo in concreto a un trattamento degradante. Ogni altro riferimento del Tribunale a tale genere di trattamento risulta senz’altro inappropriato ove si consideri che, al contempo, il provvedimento dà atto che le riprese tramite la telecamera di cui trattasi rimangono appositamente circoscritte solo ad un certo punto dei locali,diverso dalla toilette e, così come predisposte, possono in ogni caso riprodurre soltanto immagini non a fuoco. La reale attuazione del controllo, dunque, oggettivamente, secondo quanto rappresentato, non risulta toccare sotto alcun profilo soglie di umiliazione e di sofferenza tali da potere essere ravvisata una violazione dell’art. 3 della CEDU. Per il resto, il provvedimento, pur riconoscendo le particolari condizioni di pericolosità del detenuto come già ravvisate in termini concreti e attuali, si interroga solo sulla idoneità funzionale del particolare strumento di controllo mostrando di fondare su tale rilievo la decisione, pur se non rimane in alcun modo smentita l’esecuzione di una forma continua di vigilanza visiva, anche in quel modo meno invasivo, con immagini sfocate relative al solo ingresso del bagno, circa gli spostamenti di M. all’interno degli spazi della detenzione. E ciò nell’ambito dell’esercizio di funzioni comportanti intrusioni nella sfera privata in sé ammissibili anche all’interno dei locali di cui trattasi, aventi effetti limitativi che non si manifestano come sproporzionati, tenuto conto di quanto riconosciuto dallo stesso Tribunale in ordine sia alle modalità attuative che ne contengono di molto l’invasività, sia alla natura della pericolosità considerata. Ciò posto, la decisione, oltre a sindacare la pura discrezionalità del modo di attuazione in concreto di una ponderata misura che non comporta l’illegittima compromissione di un diritto, ha sostanzialmente eluso l’obbligo di motivazione, dal momento che essa si è limitata in ultimo a ritenere decisivi meri interrogativi, quanto alla funzionalità dello strumento, che restano sganciati dai dati rilevati. 3. Tutte le considerazioni espresse dimostrano, al contempo, l’obiettiva assenza delle condizioni per l’accoglimento del reclamo proposto dall’interessato davanti il Tribunale di sorveglianza, cosicché il provvedimento emesso da tale autorità, in accoglimento dell’odierno ricorso, deve essere annullato senza rinvio. P.Q.M. Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata.