La continuazione (e non il patteggiamento) esclude l’abitualità del reato

Ai sensi dell’art. 103 c.p. la dichiarazione giudiziale di abitualità nel reato – che precede l’applicazione delle misure di sicurezza - è esclusa quando la pluralità di delitti non colposi sia stata accertata con riconoscimento della continuazione ex art. 81 c.p., operato in sede di cognizione. Invece l’abitualità nel reato può essere riconosciuta anche quando i plurimi episodi criminali sono stati accertati con distinte sentenze di patteggiamento.

Così la Cassazione, Prima Sezione Penale, n. 36036/2018, depositata il 27 luglio. La sommatoria processuale. Il magistrato di sorveglianza dichiarava un condannato delinquente abituale nel reato ex art. 103 c.p. per l’emissione a suo carico di più sentenze di patteggiamento ex artt. 444 ss. c.p.p. riunite dall’ultimo giudice della cognizione per il vincolo della continuazione ex art. 81 c.p. e per l’effetto applicava la misura di sicurezza della casa di lavoro ex art. 216 c.p Ricorreva per cassazione l’imputato deducendo l’insussistenza del requisito della pluralità di reati – ai fini del giudizio dell’abitualità nel reato - intercorso il riconoscimento della continuazione fra più episodi criminosi ai sensi dell’art. 81 cit In subordine deduceva gli effetti premiali della sentenza di patteggiamento che escludono, ai sensi dell’art. 445, comma 1, c.p.p. – per le pene detentive irrogate inferiori ai 2 anni - l’applicazione delle misure di sicurezza salva la confisca . La continuazione esclude l’abitualità. Le condanne riconosciute in continuazione ex art. 81 c.p. non possono essere distintamente rubricate quali n. 3 pronunce di condanna a delitto non colposo necessarie al riconoscimento dell’abitualità del reato, ai sensi dell’art. 103 c.p. – trattasi nel caso di n. 4 sentenze di patteggiamento in riconosciuta continuazione dall’ultimo giudice della cognizione -. L’area della continuazione - unificativa della componente valutativa e volitiva dell’agente di reato - esclude la pluralità dei reati, da ravvisare solo in caso di distinte e separate volizioni ed impulsi criminali, per ciò solo sintomatici di una pericolosità sociale specifica. Per l’effetto il magistrato di sorveglianza ha annullato l’ordinanza disposta. L’esclusione dell’applicazione di misure di sicurezza a seguito di patteggiamento ex art. 445, comma 1, c.p.p. invale il solo giudizio di cognizione. Pur appurata una distonia giurisprudenziale sul punto, gli Ermellini deducono che l’impedimento ex art. 445, comma 1, cit. concerne la sola fase processuale della cognizione del reato, nulla ottemperando al giudice nel distinto segmento dell’esecuzione penale. Il magistrato di sorveglianza, in breve, successivamente alla formazione del giudicato ben può tener conto delle sentenze di patteggiamento ai fini del riconoscimento dell’abitualità nel reato. Soccorre un ulteriore dato sistematico l’art. 445, comma 1- bis , c.p.p. nell’equiparare ad ogni effetto la sentenza di patteggiamento a condanna e dunque anche ai fini della dichiarazione di abitualità, fa salve regolazioni speciali, queste da intendersi solo quelle connesse alla natura precaria dell’accertamento del reato oggetto di patteggiamento, dovuta alla premialità del rito ed alle esigenze di economia processuale fondative dell’istituto.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 5 – 27 luglio 2018, n. 36036 Presidente Rocchi – Relatore Boni Ritenuto in fatto 1. Con ordinanza deliberata in data 27 febbraio 2017 il Tribunale di sorveglianza di Napoli rigettava l’appello avanzato nell’interesse di D.C.C. avverso l’ordinanza emessa dal Magistrato di sorveglianza di Avellino del 19 settembre 2016, con la quale, dichiaratolo delinquente abituale ai sensi dell’art. 103 cod.pen., applicava allo stesso la misura di sicurezza della casa di lavoro, attenuata nella libertà vigilata per un anno. 2. Avverso il citato provvedimento, tramite il proprio difensore, ha interposto ricorso per cassazione il D.C. , chiedendone l’annullamento per a violazione di legge in relazione all’art. 103 cod. pen., all’art. 199 cod.pen. ed all’art. 445 cod.proc.pen Il giudizio di abitualità criminale si è basato sull’esistenza di quattro sentenze pronunciate ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., l’ultima delle quali, quella n. 1443/2015 del Tribunale di Avellino, ha disposto l’unificazione per continuazione dei reati con quelli già giudicati con le precedenti sentenze irrevocabili e rideterminato la pena complessiva finale e condizionalmente sospesa di mesi 11, giorni 17 di reclusione ed Euro 320,00 di multa, e sulla sentenza del Tribunale di Gela del 4/02/2016, irrevocabile il 20/02/2016. Pertanto, in forza dell’art. 445, comma 1, cod. proc. pen. le sentenze di patteggiamento quando, come nel caso di specie, la pena irrogata non superi due anni di pena detentiva sola o congiunta a pena pecuniaria, non possono essere utilizzate ai fini della dichiarazione di abitualità nel delitto e per la conseguente applicazione della misura di sicurezza, come affermato anche dalla Corte Suprema di Cassazione sez. 1 n. 24142/2011 . Pertanto, l’ordinanza impugnata è affetta da error in procedendo che ha condotto alla illegittima dichiarazione di delinquente abituale del condannato ed alla conseguente applicazione, nei confronti dello stesso, della misura di sicurezza. b Violazione di legge in relazione all’art. 103 cod. pen. ed all’art. 81 cpv cod. pen La declaratoria di abitualità ai sensi dell’art. 103 cod. pen. è stata emessa nonostante i reati giudicati con quattro sentenze diverse già in sede di cognizione e con statuizione passata in giudicato siano stati unificati per continuazione, istituto che pretende che l’agente si sia preventivamente rappresentato ed abbia deliberato una serie di condotte criminose. 3. Con requisitoria scritta il Procuratore Generale presso la Corte di cassazione, dr. Ferdinando Lignola, ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso. Considerato in diritto Il ricorso è fondato e merita dunque accoglimento. 1. Il primo motivo di ricorso censura l’ordinanza impugnata per avere i giudici di sorveglianza errato nell’interpretare ed applicare la disposizione dell’art. 103 cod. pen. in relazione all’apprezzamento dei requisiti richiesti per la dichiarazione di delinquenza abituale, pronunciata dal Magistrato di sorveglianza e confermata dal Tribunale. Richiama a tal proposito una precedente decisione di questa Corte Suprema sez. 1, n. 24142 del 25/02/2011, Vinotti, rv. 250330 per la quale la dichiarazione di abitualità e la conseguente applicazione della misura di sicurezza detentiva non consentita al giudice della cognizione in sede di applicazione della pena su accordo delle parti, a norma dell’art. 444 c.p.p., comma 2, e art. 445 c.p.p., comma 1, in relazione all’art. 103 cod. pen., non possono essere disposte dal magistrato di sorveglianza sulla base di sentenza applicativa di pena concordata non superiore a due anni . 1.1 Il tema di diritto sollevato dall’impugnazione ha ricevuto una difforme soluzione in pronunce più recenti, che si ritiene di dover condividere. In particolare, premesso che l’art. 103 cod. pen. consente al giudice di apprezzare in via discrezionale la dedizione al delitto da parte del condannato e fissa le condizioni per la relativa declaratoria nell’avere il soggetto, già condannato per due delitti non colposi, riportato ulteriore condanna per delitto non colposo, il contrasto interpretativo ha riguardato la possibilità di intendere la sentenza di applicazione della pena a richiesta delle parti quale pronuncia di condanna e quindi di concorrere a realizzare la condizione applicativa dell’istituto sul piano numerico e fattuale. Secondo un primo indirizzo, ai fini della dichiarazione di abitualità nel reato prevista dall’art. 103 c.p., legittimamente il giudice tiene conto anche di una sentenza di patteggiamento sez. 1, n. 17296 del 17/04/2008, Bigonzi, rv. 239631 sez. 2, n. 40813 del 18/10/2005, Olivero, rv. 232695 a tale orientamento si è opposta la pronuncia Vinotti sopra citata, che però è stata smentita dalla successiva sez. 1, n. 20004 del 09/04/2014, Lucarelli, rv. 259524 i cui temi sono stati ripresi da sez. 1, 28308 del 5/04/2018, Guastalegname, non massimata . In questi ultimi arresti si è osservato che, ai fini del giudizio di abitualità nel delitto previsto dall’art. 103 cod. pen. quale presupposto per la sottoposizione del condannato a misura di sicurezza, non assume rilievo la natura e l’estensione dei poteri di cognizione esercitati dal giudice che applichi la pena concordata tra le parti quando la valutazione sia rimessa alla giurisdizione di sorveglianza e si collochi nel segmento dell’esecuzione penale, successivo alla formazione del giudicato. Resta dunque ininfluente che l’art. 445 cod. proc. pen., comma 1, stabilisca il divieto di applicare misure di sicurezza con la sentenza di patteggiamento in riferimento alla particolare tipologia di rito prescelto dalle parti per definire il processo di cognizione, rito che comunque dopo l’entrata in vigore della legge n. 134 del 12 giugno 2003, non costituisce nemmeno più un ostacolo insormontabile alla declaratoria di abitualità ed all’applicazione della misura di sicurezza, richiedendo soltanto che il giudice integri la motivazione sommaria propria del rito speciale , dando conto della ricorrenza dei presupposti applicativi dei due citati istituti sez. 4, n. 43943 del 22/09/2005, Orenze Catipon, rv. 232733 e sez. 4, n. 42317 del 08/06/2004, Ko-la, rv. 231006 . In più l’impedimento normativo testuale, considerato dalla sentenza Vinotti, non ricorre nel diverso caso in cui l’accertamento sia demandato al magistrato di sorveglianza, il quale vi provvede in autonomia secondo i criteri dettati dall’art. 103 cod. pen E poiché, a norma dell’art. 445 cod. proc. pen., comma 1-bis, introdotto dalla legge n. 134/2003, la sentenza di patteggiamento è equiparata a una sentenza di condanna , salvo che non sia sottoposta ad apposita regolamentazione con diverse disposizioni di legge , la stessa rileva quale pronuncia di condanna, ossia quale titolo formale, idoneo a concorrere alla integrazione del requisito di legge della pluralità della condanne , richiesto per l’accertamento della abitualità ritenuta dal giudice sez. 1, Ciccarelli, citata . In effetti nella ormai consolidata lezione interpretativa offerta da questa Corte l’evocata equiparazione incontra soltanto il limite coessenziale alla natura giuridica dell’istituto del patteggiamento, nel senso che non opera in tutti i casi in cui si faccia riferimento all’accertamento, condotto in base ai dati probatori, circa la sussistenza del fatto di reato e la sua attribuzione alla persona dell’imputato, accertamento che non rileva ai fini della dichiarazione di abitualità. Deve dunque confermarsi la correttezza giuridica della decisione impugnata laddove ha preso in esame le sentenze di patteggiamento pronunciate nei riguardi del ricorrente. 2. È, invece, fondato il secondo motivo. In punto di fatto, l’ordinanza ha basato la decisione sulle quattro pronunce di patteggiamento per altrettanti episodi di truffa, emesse nei riguardi del D.C. , seguite da ulteriore sentenza di condanna, resa all’esito di giudizio dibattimentale. Pur avendo preso atto che, a partire dalla seconda sentenza emessa ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. sino alla quarta, ciascuna aveva unificato il reato in contestazione con quelli oggetto della precedente, ha ritenuto egualmente integrato il requisito numerico preteso dall’art. 103 cod. pen. poiché le sentenze datate 14.2.2011 e 20.1.2012, di condanna e riconoscimento della continuazione con aumento della pena inflitta costituiscono nuove condanne idonee a giustificare la dichiarazione di delinquenza abituale l’unico limite posto dalla giurisprudenza di legittimità è infatti dato dalla esclusione dal computo degli episodi delittuosi che hanno formato oggetto della prima condanna vedesi infatti il caso di specie in cui la prima condanna del 2009 ha riguardo a tre episodi di truffa del 2006, 2007, 2008 . Ha quindi richiamato il principio di diritto, espresso da sez. 5, n. 8185 del 23/04/1974, Lacerenza, rv. 128381, secondo il quale La sentenza con la quale si riconosca la continuazione con un reato già giudicato e si aumenti di conseguenza la pena inflitta all’imputato, rappresenta una nuova condanna, come tale idonea a giustificare la dichiarazione di delinquenza abituale all’unica condizione che non occorre computare tra le precedenti condanne, richieste dalla legge, gli episodi delittuosi di continuazione che abbiano formato oggetto della prima sentenza fattispecie in cui l’imputato era stato condannato per più di cinquanta volte, nei dieci anni precedenti alla data di inizio del delitto continuato di emissioni di assegni a vuoto e, durante questo periodo, aveva commesso più di tre delitti della stessa indole, per i quali era stato condannato alla reclusione in misura complessivamente superiore a cinque anni . 2.1 Al di là dell’infelice massimazione, tale arresto ha inteso sostenere che, se dopo due prime condanne ne intervenga una terza ad unificare per continuazione il reato con altro già giudicato, anche questa rileva ai fini della dichiarazione di delinquenza abituale, ma nel numero complessivo delle condanne non può includersi quelle per episodi criminosi ricondotti ad unica fattispecie continuata. 2.2 Pertanto, il Tribunale di sorveglianza è incorso nel travisamento delle emergenze processuali e nell’erronea interpretazione ed applicazione dell’istituto della continuazione, perché non ha tenuto conto del fatto che la unificazione dei reati, operata in sede di cognizione dalle sentenze di patteggiamento successive alla prima, ha determinato che tutti gli episodi di truffa, ad eccezione di quelli giudicati con sentenza del Tribunale di Gela del 4/2/2016, siano confluiti in un unico reato continuato, che non soddisfa la condizione pretesa per legge. 2.3 Del resto la soluzione del quesito non può prescindere dall’analisi del testo normativo di riferimento, il quale, ai fini della dichiarazione di abitualità, contiene il riferimento numerico, non soltanto alla pluralità di condanne, ma anche ai delitti non colposi con esse giudicati, prevedendo che dopo due condanne ciascuna per un delitto non colposo il soggetto ne riporti una terza per ulteriore fattispecie delittuosa non colposa. Ciò sta a significare che il legislatore pretende la reiterazione dell’azione criminosa per un numero minimo di tre volte a prescindere dalla quantità di provvedimenti giudiziali intervenuti ad accertarla se ne trae conferma sul piano testuale e sistematico dall’art. 107 cod. pen., secondo il quale le disposizioni relative alla dichiarazione di abitualità o di professionalità nel reato si applicano anche se, per i vari reati, è pronunciata condanna con una sola sentenza . Se quindi già in sede di cognizione, i giudici, a prescindere dal rito seguito nella celebrazione del processo, abbiano rapportato la violazione di volta in volta accertata e quelle già giudicate in precedenza con distinti titoli di condanna ad unica fattispecie penale continuata, viene meno la possibilità di ravvisare la pluralità di delitti nel numero minimo preteso per legge per configurare l’abitualità nel reato Cass. sez. 2, n. 6871 del 19/1/1972, Filaci, rv. 122114 . Del resto, come sostenuto dalla più autorevole dottrina con rilievi che meritano condivisione, l’abitualità postula un impulso criminoso reiterato nel tempo ed autonomamente emerso e realizzato in concreto, che è incompatibile con l’essenza stessa della continuazione, che resta qualificata da una ideazione e determinazione unitaria di più reati poi realizzati separatamente, al punto che può affermarsi l’incompatibilità tra i due istituti. Né può darsi seguito, adattandolo al caso di specie, al principio citato nella requisitoria del Procuratore Generale, espresso da Sez. U., n. 21039 del 27/01/2011, Loy, rv. 249665 , che è riferito esclusivamente ai reati fallimentari e dipende dalla previsione speciale dell’art. 219 L. fall., non esportabile alla materia delle misure di sicurezza in difetto di un puntuale aggancio normativo. Va dunque formulato il seguente principio di diritto Ai fini della dichiarazione di abitualità nel reato, ritenuta dal giudice ai sensi dell’art. 103 cod.pen., non si realizza la condizione pretesa dalla disposizione di legge quando la pluralità di delitti non colposi, accertati con distinte sentenze, sia unificata per effetto del riconoscimento della continuazione, operato in sede di cognizione . L’ordinanza impugnata è dunque affetta da erronea interpretazione ed applicazione della legge penale sostanziale e va annullata senza rinvio con conseguente comunicazione al Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di appello di Napoli. P.Q.M. annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata. Si comunichi al Procuratore Generale presso la Corte di appello di Napoli.