Configurabilità del reato di peculato a carico del tutore legale dell’interdetto

Nella configurazione del delitto di peculato, la nozione di disponibilità” della cosa mobile attiene anche alla situazione in cui l’agente abbia il potere di gestire il bene senza averne il possesso materiale.

Sul tema la sentenza della Suprema Corte n. 29263/18, depositata il 26 giugno. La vicenda. A seguito di giudizio abbreviato, il GUP di Vicenza confermava la dichiarazione di penale responsabilità dell’imputata per peculato. Dalla ricostruzione della vicenda, era emerso che la donna, tutore del padre interdetto, si era fatta consegnare dallo zio, fratello dell’infermo e protutore dello stesso, una somma pari a 30mila euro facente parte del patrimonio del genitore, mediante assegni bancari riversati poi su un conto corrente intestato a sé ed alla madre, somma poi concessa in prestito al nuovo compagno della madre. Avverso la sentenza confermativa della Corte d’Appello, l’imputata ricorre in Cassazione. Elementi del reato di peculato. Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, nella configurazione del delitto di peculato la nozione di disponibilità” della cosa mobile disponibilità che la ricorrente negava di avere attiene anche alla situazione in cui l’agente abbia il potere di gestire il bene senza averne il possesso materiale. Il dato testuale emergente dall’art. 314 c.p. dimostra infatti che presupposto del reato di peculato è, in alternativa, il possesso o comunque la disponibilità di denaro o altra cosa mobile, avendo la congiunzione disgiuntiva rafforzato la funzione di evidenziare che i due requisiti non sono coincidenti ma anzi che il secondo ha una sfera di operatività maggiore rispetto al primo. La posizione del tutore. Secondo le disposizioni civilistiche, il tutore è colui che amministra i beni dell’interdetto artt. 424 e 357 c.p. mentre il protutore è colui che rappresenta l’interdetto nei casi in cui l’interesse di questo sia in opposizione a quello del tutore artt. 424 e 360 c.c. . Afferma dunque la Corte che il tutore, indipendentemente dalla disponibilità materiale, è colui che ha la disponibilità” dei beni dell’interdetto, conclusione evidente nel caso di somme di denaro che il tutore è legittimato a riscuotere ed investire. La sentenza impugnata ha correttamente ricostruito la vicenda in applicazione dei principi summenzionati, ricostruzione condivisa dunque dalla Corte di Cassazione che rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 17 maggio – 26 giugno 2018, n. 29263 Presidente Paoloni – Relatore Corbo Ritenuto in fatto 1. Con sentenza emessa in data 2 febbraio 2017, la Corte d’appello di Venezia, in parziale riforma della sentenza pronunciata in primo grado dal Giudice dell’udienza Preliminare del Tribunale di Vicenza all’esito di giudizio abbreviato, ha confermato la dichiarazione di penale responsabilità di Z.B. per il reato di peculato, commesso tra maggio e giugno 2009, e la condanna alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche e della diminuente per il rito, ma ha concesso all’imputata il beneficio della non menzione della condanna. Secondo quanto ricostruito dai giudici di merito, l’imputata, quale tutore del padre, dichiarato interdetto, si era fatta consegnare dallo zio, fratello dell’infermo e protutore del medesimo, una somma di denaro pari a 30.000,00 Euro, facente parte del patrimonio del genitore, mediante assegni bancari, facendola riversare su un conto corrente intestato a lei ed alla madre, e concedendola in prestito al compagno della madre. 2. Ha presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza indicata in epigrafe l’avvocato Marco Antonio Dal Ben, difensore dell’imputata, formulando un unico motivo, con il quale si denuncia violazione di legge, in riferimento all’art. 314 cod. pen., a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b , cod. proc. pen., avendo riguardo configurabilità del reato di peculato. Si deduce che l’affermazione della penale responsabilità è stata di fatto collegata ad una ipotetica negligenza nell’ottemperanza ai doveri del tutore, ma omettendo di considerare che l’imputata non aveva né il possesso, né la disponibilità della somma indicata nell’imputazione. Si segnala che il denaro era presente su di un conto intestato allo zio, ossia al protutore, ed è stato gestito a mezzo di due assegni bancari emessi a firma di quest’ultimo e riversati sul conto corrente cointestato alla madre ed al compagno di questa si aggiunge che ella non aveva neppure la delega ad operare sul conto corrente sul quale sono stati tratti gli assegni. Si osserva, ancora, che, se si volesse ritenere una responsabilità dell’imputata a titolo di concorso omissivo nella condotta del protutore, si pronuncerebbe una condanna per fatto diverso da quello contestato, con violazione della regola di cui all’art. 521 cod. proc. pen Considerato in diritto 1. Il ricorso è infondato per le ragioni di seguito precisate. 2. Il ricorrente deduce, innanzitutto, che il peculato non sarebbe configurabile perché l’imputata non avrebbe avuto né il possesso, né la disponibilità della somma indicata nell’imputazione. 2.1. Occorre premettere che, secondo l’orientamento della giurisprudenza, nella fattispecie di cui all’art. 314 cod. pen., la nozione di disponibilità della cosa mobile attiene anche alla situazione in cui l’agente ha il potere di gestire il bene senza averne il materiale possesso cfr., ad esempio, proprio con riferimento a somme di denaro, Sez. 6, n. 20666 del 08/04/2016, De Sena, Rv. 268030, e Sez. 6, n. 3913 del 11/12/2015, dep. 2016, Crucci, Rv. 267168 . Il Collegio condivide questo orientamento, rilevando, in particolare, che il testo dell’art. 314 cod. pen., indicando, in via alternativa, quali presupposti del reato di peculato, il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile , e, segnatamente, impiegando la congiunzione disgiuntiva rafforzata o comunque , fa risaltare come i due requisiti abbiano un significato non coincidente, e, anzi, come il secondo abbia una sfera di operatività più ampia. Posto, quindi, che, ai fini della configurabilità del delitto di peculato, il presupposto della disponibilità del bene può sussistere anche se l’agente non abbia il possesso materiale dello stesso, deve esaminarsi la posizione del tutore e del protutore rispetto ai beni dell’interdetto. A norma della disciplina del codice civile, il tutore è colui che amministra i beni dell’interdetto cfr. spec. artt. 424 e 357 cod. civ. , mentre il protutore è colui che rappresenta l’interdetto nei casi in cui l’interesse di questo è in opposizione con l’interesse del tutore cfr. spec. artt. 424 e 360 cod. civ. . Può pertanto ritenersi che il tutore, indipendentemente dalla disponibilità materiale, è colui che ha la disponibilità dei beni dell’interdetto ed infatti, con specifico riferimento al denaro, il tutore è anche il soggetto ordinariamente legittimato, previa autorizzazione del giudice tutelare, a riscuotere capitali art. 374, primo comma, n. 2, cod. civ. e ad investire gli stessi art. 372 cod. civ. . 2.2. La sentenza impugnata, richiamando testualmente la sentenza di primo grado, ha rilevato che - l’imputata, tutore del padre, dichiarato interdetto, chiese allo zio la somma di 30.000,00 Euro, appartenente al patrimonio dell’infermo, per usufruirne per suoi scopi - lo zio consegnò all’imputata il denaro, prelevandolo dal conto corrente dell’interdetto, mediante assegno bancario - l’assegno indicato fu versato sul conto intestato all’imputata ed alla madre e poi utilizzato dal compagno di quest’ultima per una sua iniziativa imprenditoriale - dopo qualche mese, lo zio chiese la restituzione del denaro per sostenere spese di sistemazione della casa dell’infermo, ma l’imputata non fu in grado di rendere la somma. 2.3. Questa essendo la ricostruzione dei fatti, deve osservarsi, in primo luogo, che il denaro risulta essere stato nella disponibilità materiale dell’imputata subito prima di essere distratto in favore del compagno della madre, per una finalità del tutto estranea a quella dell’interesse dell’interdetto. In effetti, a fronte dell’indicazione di entrambe le sentenze di merito, le quali rilevano che l’assegno fu incassato sul conto corrente intestato all’imputata ed alla madre, è meramente assertiva l’affermazione contenuta nel ricorso secondo cui il denaro passò dal conto corrente dell’infermo a quello intestato alla moglie o ex-moglie ed al compagno di questa, e non a quello intestato anche all’imputata. In ogni caso, poi, è indiscusso che lo zio della ricorrente emise gli assegni per le somme in contestazione, di proprietà dell’interdetto, su disposizione della donna, e che questa, in quel momento, era il tutore del patrimonio dell’infermo, e ne aveva quindi l’amministrazione. L’imputata, quindi, aveva la disponibilità , a norma dell’art. 314 cod. pen., del denaro dell’interdetto di conseguenza, l’aver chiesto allo zio di emettere gli assegni relativi a tale denaro per farlo poi utilizzare al compagno della madre per fini del tutto estranei agli interessi dell’infermo costituisce condotta attiva di disposizione e di appropriazione dell’importo corrispondente. 3. La conclusione esposta, secondo cui l’imputata realizzò una condotta attiva di appropriazione del denaro dell’interdetto di cui era tutore, mediante atti di disposizione delle somme di proprietà dell’infermo, esclude ogni rilievo alla censura concernente la correlazione tra accusa e sentenza. Invero, questa censura è formulata sul presupposto, inesatto, che all’imputata sarebbe stata addebitata una responsabilità a titolo di concorso omissivo nella condotta del protutore. 4. All’infondatezza delle censure segue il rigetto del ricorso e la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.