Insulti al docente universitario: condannato per diffamazione

Scontro frontale su alcuni reperti archeologici tra un appassionato e un professore. Quest’ultimo viene apostrofato in malo modo in una missiva, indirizzata anche al suo ateneo, alla Regione e al Comune inevitabile la condanna per l’autore dello scritto. Impossibile parlare di mera critica.

Morto di fame, nullatenente, ladro parole pesantissime, che valgono una condanna per diffamazione. A superare i limiti della critica e del rispetto un appassionato di archeologia, sfogatosi in una missiva contro un docente universitario in merito alla collocazione storica di alcuni reperti Cassazione, sentenza n. 27461, sez. VI penale, depositata oggi . Lettera. Riflettori puntati su alcuni scavi realizzati in Sicilia, sul monte di Sant’Angelo di Licata, per la precisione. A richiamare l’attenzione sono alcuni reperti , con opinioni diverse sulla loro collocazione storica . In particolare, su questo tema, si confrontano un appassionato di archeologia, originario di Agrigento, e un professore di Archeologica classica all’Università di Messina. Quello che in origine è un normale scambio di vedute – realizzato negli anni attraverso varie lettere –, però, si trasforma in una vera e propria ‘guerra’. Così, nel 2011, l’appassionato di archeologia scrive al docente – facendo pervenire la missiva anche all’ateneo, all’assessorato alla Sovrintendenza ai beni culturali della Regione Sicilia, all’allora sindaco di Licata –, attaccandone le tesi, e in particolare la riconducibilità dei reperti alla colonia greca di Finziade, databile al secondo secolo prima di Cristo . Ma l’uomo non si limita a censure in ambito professionale, bensì perde lucidità e buonsenso e definisce il docente scavatore, morto di fame, nullatenente e ladro . Inevitabile il processo penale, che si conclude, sia in primo che in secondo grado, con la condanna dell’appassionato di archeologica per il reato di diffamazione . Questa decisione viene ora confermata dalla Cassazione, che respinge ogni obiezione difensiva, finalizzata a ridimensionare le frasi incriminate, contestualizzandole nella diatriba che vedeva contrapposti i due archeologi . I giudici del Palazzaccio, condividendo la valutazione compiuta in Tribunale, evidenziano che le affermazioni contenute nella missiva sono umilianti, denigratorie e gratuite, e hanno leso la sfera privata e l’onorabilità del docente universitario. Impossibile, quindi, parlare di diritto di critica , poiché le espressioni presenti nella lettera sono pretestuosamente denigratorie e rappresentano un attacco personale, diretto a colpire la sfera morale della persona oggetto di critica .

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 10 aprile – 14 giugno 2018, n. 27461 Presidente Zaza - Relatore Morelli Ritenuto in fatto e considerato in diritto 1. Con la sentenza impugnata, il Tribunale di Agrigento ha confermato la sentenza del Giudice di Pace di Agrigento che aveva condannato Ri. An. alla pena di giustizia ed al risarcimento dei danni in favore della parte civile, in quanto responsabile di diffamazione in danno di La Torre Gioacchino Francesco. 1.1. La vicenda attiene ad un contrasto sorto fra La Torre, professore presso l'Università di Messina, e Ri., appassionato di archeologia, circa la qualificazione e la collocazione storica dei reperti rinvenuti nel corso di scavi archeologici sul monte di Sant'Angelo di Licata. Lo scambio epistolare sull'argomento, intercorso fra i due e durato anni, era culminato nel 2011 in una missiva che Ri. aveva indirizzato a La Torre e, per conoscenza, all'Università di Messina, all'Assessorato regionale, alla Sovraintendenza dei beni culturali, al Sindaco di Licata, in cui attaccava le tesi esposte da La Torre, circa la riconducibilità dei reperti archeologici alla colonia greca di Finziade, databile al secondo secolo prima di Cristo, definendo lo scavatore al 50% un morto di fame nullatenente ed al 50% un ladro . 2. Propone ricorso il difensore dell'imputato deducendo l'insussistenza del fatto tipico di diffamazione, la mancata prova della riferibilità delle espressioni ritenute offensive al La Torre, l'assenza del dolo. Si sostiene, infatti, che la frase ritenuta diffamatoria dovesse essere inserita nel contesto della missiva e della diatriba che vedeva contrapposti i due archeologi, così escludendo sia che la frase incriminata fosse riferita a La Torre, sia che avesse valenza offensiva. 2.1. Con il secondo motivo si deducono violazione di legge e vizi motivazionali con riguardo alla ritenuta sussistenza di uno degli elementi della fattispecie, vale a dire la comunicazione con più persone. Mancherebbe, infatti, la prova che la missiva sia stata recapitata anche ai destinatari diversi dalla persona offesa. 3. Il ricorso è inammissibile. Le censure svolte nel secondo motivo non erano comprese nell'atto di appello, sicché, in adesione al principio devolutivo , il giudice di secondo grado non ha esaminato il punto specifico della sentenza del Tribunale in tal senso vedi Sez. 5, Sentenza n. 48416 del 06/10/2014 Rv. 261029 e precedenti conformi N. 22362 del 2013 Rv. 255940, N. 28514 del 2013 Rv. 255577 . 3.1. Il primo motivo di ricorso costituisce una reiterazione degli argomenti del gravame, cui la Corte d'Appello ha opportunamente replicato sostenendo che - le affermazioni contenute nella missiva e riportate nell'imputazione sono umilianti, denigratorie e gratuite ed hanno leso la sfera privata e l'onorabilità del destinatario - il delitto di diffamazione è punito a titolo d dolo generico, sicché è richiesta semplicemente la consapevolezza che le espressioni utilizzate siano lesive dell'altrui reputazione o possano porla a rischio, non essendo richiesta la specifica finalità di recare nocumento al soggetto passivo - non sussiste il diritto di critica in quanto le espressioni offensive sono pretestuosamente denigratorie e sovrabbondanti rispetto alla critica ed hanno trasmodato in un attacco personale diretto a colpire la sfera morale del soggetto criticato - gli epiteti offensivi sono certamente rivolti al La Torre, visti i chiari rimandi contenuti nella missiva, al di là della metafora, alla persona responsabile degli scavi e visti altresì i rapporti pregressi fra le parti. Il ricorso non confuta tali argomenti, limitandosi a riproporre una diversa interpretazione della missiva in termini non consentiti in questa sede, perché attinenti alla valutazione del fatto, e comunque ampiamente e logicamente superatati nella sentenza di appello con motivazione non illogica ed incensurabile nel giudizio di legittimità. 4. Alla declaratoria di inammissibilità segue, per legge art. 616 c.p.p. , la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché, trattandosi di causa di inammissibilità determinata da profili di colpa emergenti dal ricorso Sez. 2, n. 35443 del 06/07/2007 Rv. 237957 , al versamento, a favore della cassa delle ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 2.000. P.Q.M. dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.