Arresti domiciliari: la prova della grave indigenza per l’accoglimento della richiesta di svolgere attività lavorativa

Il Giudice di merito non può negare la richiesta di autorizzazione all’allontanamento dal luogo imposto dalla misura degli arresti domiciliari sul solo presupposto che la perduranza delle esigenze cautelari fosse un insuperabile ostacolo all’accoglimento dell’istanza.

Così la Suprema Corte con sentenza n. 24995/18, depositata il 5 giugno. La vicenda. Il Tribunale de L’Aquila rigettava l’appello proposto dall’indagato contro l’ordinanza del GIP con cui veniva a sua volta disattesa la richiesta di modifica della misura degli arresti domiciliari con altra misura ovvero la concessione di permesso temporaneo di allontanamento dal luogo per permettere lo svolgimento di un’attività lavorativa. In particolare, secondo il Tribunale, non erano venute meno le esigenze cautelari che giustificavano l’adozione delle misure e la richiesta del ricorrente non era argomentata sulla base di motivi validi e nuovi. Inoltre la pericolosità del soggetto costituiva un insuperabile elemento ostativo all’accoglimento della richiesta . La decisione di merito è impugnata per cassazione dall’indagato con un unico motivo di ricorso. La doglianza censura il difetto di motivazione della pronuncia impugnata nella parte in cui manca la valutazione, ai fini della concessione del permesso temporaneo per svolgere attività lavorative, della condizione di indigenza del richiedente. Misure cautelari e condizione di grave indigenza. Per risolverle la questione la Cassazione ha ribadito il costante orientamento giurisprudenziale per il quale la situazione di grave indigenza, presupposto per l’autorizzazione del soggetto agli arresti domiciliari ad assentarsi da luogo per lavorare, deve essere valutata rigorosamente e, tuttavia, non può pretendersi che il richiedente dimostri una situazione di totale impossidenza tale che essa non consenta neppure la soddisfazione delle primarie esigenze di vita . Al contrario deve ritenersi integrata la condizione di grave indigenza nei casi in cui le condizioni reddituali del soggetto sottoposto agli arresti domiciliari non gli consentano, in assenza dei proventi rivenenti dallo svolgimento dell’attività lavorativa in relazione alla quale è stata chiesta l’autorizzazione, di provvedere agli oneri derivanti dalla educazione ed istruzione propria e dei soggetti da lui economicamente dipendenti , nonchè alle spese, alle esigenze connesse con il mantenimento ovvero il ristabilimento della salute ecc La verifica della richiesta da parte del giudice. Ciò premesso gli Ermellini osservano che il Tribunale non ha mostrato alcuna attenzione per la condizione economica del ricorrente ritenendo come assolutamente ostativa la perdurante sussistenza delle esigenze cautelari. La valutazione dei Giudici di merito, secondo la Suprema Corte, è priva di senso in quanto se non sussistessero più le esigenze cautelari non sarebbe più giustificata la misura degli arresti domiciliari, nulla rilevando la richiesta di autorizzazione all’allontanamento. L’autorizzazione, oggetto di istanza nel caso di specie, non è un diritto del soggetto sottoposto agli arresti domiciliari, ma è un beneficio il cui godimento può essere discrezionalmente reso possibile dal giudice della cautela . Pertanto è il giudice cautelare che deve verificare se, in funzione della specifica attività lavorativa richiesta e delle modalità di allontanamento, il contenuto della domanda sia compatibile con le finalità della misura cautelare. In ragione di quanto precisato dai Supremi Giudici la motivazione del Tribunale nella fattispecie in esame risulta carente e illogica. In conclusione la Cassazione ha accolto il ricorso e annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale del riesame de L’Aquila.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 13 febbraio – 5 giugno 2018, n. 24955 Presidente Rosi – Relatore Gentili Ritenuto in fatto Il Tribunale de L’Aquila, con ordinanza del 23 novembre 2017, ha rigettato l’appello proposto da O.F. avverso la ordinanza con la quale, in data 2 novembre 2017, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale de L’Aquila aveva rigettato la sua richiesta di modifica della misura degli arresti domiciliari con altra misura più blanda ovvero di concessione di permesso temporaneo di allontanamento dal luogo ove la misura era applicata onde permettergli lo svolgimento di un’attività lavorativa. Il Tribunale, rilevato che la richiesta non è argomentata sulla base di motivi aventi il carattere della novità, non potendo essere il mero decorso del tempo a comportare l’attenuazione delle esigenze cautelari, ha ritenuto non accoglibile la richiesta di modifica della misura neppure sotto il più limitato aspetto della autorizzazione allo svolgimento di un lavoro esterno, non essendo appunto venute meno le esigenze cautelari che avevano giustificata l’adozione della misura. Il Tribunale, in particolare - quanto alla richiesta di allontanamento dal luogo degli arresti domiciliari - ha rilevato che la perdurante pericolosità sociale dell’indagato - essendo ancora sussistente il pericolo di reiterazione di ulteriori reati, dati anche gli ampi ambiti temporali riguardo ai quali la richiesta è stata formulata, tali da indebolirne, tenuto conto della tipologia di reati per i quali è stato emesso il titolo cautelare si tratta dell’art. 73 del dPR n. 309 del 1990 , il carattere di cautela preventiva volta a tutelare l’interesse generale a che non si verifichi ad opera dell’indagato la commissione di ulteriori reati della stessa specie di quelli per cui si procede - costituiva un insuperabile elemento ostativo all’accoglimento della richiesta. Avverso detta ordinanza ha interposto ricorso per cassazione l’indagato articolando un unico motivo di censura con il quale egli ha lamentato la violazione di legge ed il difetto di motivazione con riferimento alla conservazione della misura cautelare, in particolare in relazione alla inidoneità di misure più blande di quella adottata ed alla mancata valutazione, ai fini del permesso ad allontanarsi dal luogo di esecuzione degli arresti domiciliari onde potere svolgere un’attività lavorativa, della condizione di indigenza del richiedente. Considerato in diritto Il ricorso è fondato nei sensi di cui in motivazione e, pertanto, il provvedimento impugnato deve essere annullato per quanto di ragione. Deve premettersi che il ricorso dell’indagato appare essere argomentato, sotto ambedue i due profili da lui dedotti, con riferimento alla violazione di legge ed alla manifesta illogicità della motivazione il primo tema di doglianza da lui sollevato ha ad oggetto il difetto di motivazione in ordine alla perdurante sussistenza delle esigenze cautelari sebbene sia decorso un significativo lasso di tempo dal momento in cui la misura custodiale a suo carico, attualmente costituita dagli arresti domiciliari, ha iniziato ad essere applicata mentre il secondo riguarda la mancata autorizzazione dell’O. all’allontanamento dal luogo ove la misura stessa gli è applicata, onde potersi recare all’esterno di essa per svolgere un’attività lavorativa. Osserva la Corte che il primo aspetto delle censure prospettate dal ricorrente è manifestamente infondato. Infatti, come questa Corte ha in numerose circostante rilevato, il mero decorso del tempo dal momento in cui la misura cautelare restrittiva della libertà personale è in corso di applicazione non è elemento che di per sé sia suscettibile di essere positivamente esaminato ai fini della modificazione o addirittura della revoca della misura in corso. Infatti, la incidenza del mero decorso del tempo in relazione alla perdurante opportunità della applicazione delle misura cautelari custodiali trova la sua sedes materiae elettiva nella normativa in tema di durata massima delle stesse ed è in funzione degli elementi rilevanti ai fini della verifica della esorbitanza o meno di tale durata rispetto ai limiti massimi previsti ed ai criteri che presiedono al calcolo di essi che, eventualmente, può essere richiesta la modifica ovvero la cessazione della misura. Come è stato, infatti, esaurientemente rilevato da questa Corte, con orientamento che viene tuttora pienamente condiviso, ai fini della sostituzione della misura cautelare custodiale con altra meno grave, il mero decorso del tempo, a decorrere dal momento in cui la stessa ha trovato applicazione, non è elemento rilevante, perché la valenza di tale fattore si esaurisce nell’ambito della disciplina dei termini di durata massima della custodia stessa, e quindi necessiterebbe di essere considerato unitamente ad altri eventuali ulteriori elementi idonei a suffragare la tesi dell’affievolimento delle esigenze cautelari, essendo, invece, laddove sia solo autonomamente calcolato, rilevante all’esclusivo fine dell’accertamento dell’avvenuta consumazione del termine massimo di custodia previsto dalla legge in relazione al titolo di reato in provvisoria contestazione ed alla fase ed al grado in cui si trova il giudizio Corte di cassazione, Sezione I penale, 6 giugno 2013, n. 24897 idem Sezione II penale, 14 dicembre 2007, n. 45213 . Alla luce delle considerazioni che precedono, per come esposto, essendo stato sul punto argomentato con esclusivo riferimento alla decorrenza del termine di otto mesi dall’inizio della detenzione domiciliare dell’interessato, il ricorso dell’O. non ha pregio. Fondato è, viceversa, il ricorso nella parte in cui è dedotta la violazione di legge in cui sarebbe incorso il Tribunale del riesame nel rigettare la richiesta del ricorrente di potere godere, nella costanza della detenzione domiciliare, di permessi per lo svolgimento di un’attività lavorativa che gli possa permettere la percezione di un certo reddito. Deve, prioritariamente, ribadirsi che sia la richiesta di attenuazione della misura cautelare attualmente in corso rivolta dall’indagato al Gip del Tribunale de L’Aquila, sia la impugnazione del rigetto di essa di fronte al competente Tribunale del riesame, erano fondate sul presupposto, non contestato in occasione della adozione dei provvedimenti reiettivi delle richieste formulate dall’odierno ricorrente, della esistenza da parte dell’O. della possibilità di riprendere a svolgere un’attività lavorativa onde potere soddisfare con i proventi di essa i bisogni principali suoi e del suo nucleo familiare. Ciò premesso, rileva la Corte come, per costante indicazione giurisprudenziale, sebbene la situazione di grave indigenza - condizione in cui deve necessariamente trovarsi il soggetto sottoposto agli arresti domiciliari, affinché egli possa essere autorizzato, ai sensi dell’art. 284, comma 3, cod. proc. pen., ad assentarsi dal luogo ove questi gli sono applicati per il tempo strettamente necessario per esercitare altrove un’attività lavorativa - debba essere valutata secondo criteri di particolare rigore, non può, tuttavia, pretendersi da parte del richiedente, ai fini dell’accoglimento della istanza volta al conseguimento della autorizzazione in questione, la dimostrazione di una situazione di totale impossidenza tale che essa non consenta neppure la soddisfazione delle primarie esigenze di vita Corte di cassazione, Sezione II penale, 16 dicembre 2016, n. 53646 idem Sezione II penale, 25 marzo 2015, n. 12618 , dovendo, viceversa, ritenersi integrata, in linea di principio la condizione di grave indigenza nei casi in cui le condizioni reddituali del soggetto sottoposto agli arresti domiciliari non gli consentano, in assenza dei proventi rivenienti dallo svolgimento dell’attività lavorativa in relazione alla quale è stata chiesta l’autorizzazione, di provvedere agli oneri derivanti dalla educazione ed istruzione, non necessariamente solo scolastica, propria e dei soggetti da lui economicamente dipendenti, alle spese connesse alla possibilità che tali soggetti, ove non diversamente inibito, debbono avere di comunicare e relazionarsi con gli altri, alle esigenze connesse con il mantenimento ovvero il ristabilimento della salute, quest’ultima complessivamente intesa e non solo come l’affrancamento dalle malattie fisiche nella fase acuta Corte di cassazione, Sezione IV penale, 15 marzo 2007, n. 10980 . Ciò posto, osserva, il Collegio, come nel caso che interessa il Tribunale de L’Aquila abbia considerato come assolutamente ostativa alla concessione della autorizzazione richiesta, senza mostrare alcuna attenzione per la condizione economica del richiedente, la perdurante sussistenza delle esigenze cautelari che avevano giustificato la adozione della misura in atto. In tal modo, però, il Tribunale ha commesso un errore logico e giuridico al tempo stesso la valutazione in tal modo operata è, infatti, giuridicamente priva di senso, posto che, laddove le esigenze cautelari non fossero più sussistenti, non sarebbe tanto fondata la richiesta di essere autorizzato allo svolgimento di un’attività lavorativa in ambiente esterno rispetto a quello ove gli arresti domiciliari sono in corso di esecuzione, quanto non sarebbe più giustificata la conservazione stessa della misura custodiale, posto che ne sarebbe venuto meno uno degli ineludibili presupposti per il suo avvio e per il suo mantenimento. La persistenza della esigenza cautelare che ha giustificato la adozione della misura è, infatti, un elemento che, non potendo essere logicamente disgiunto dalla necessità di conservazione della misura, non può essere posto a base del rigetto della autorizzazione di cui all’art. 284, comma 3, cod. proc. pen., posto che questa ha un senso solo in quanto continuino a sussistere i presupposti generali per la adozione della misura stessa ove i presupposti fossero venuti meno, l’interessato dovrebbe essere immediatamente rimesso in libertà, e non solamente autorizzato ad un regime custodiale più blando. È, peraltro, evidente che, non essendo quello di essere autorizzato allo svolgimento di un’attività lavorativa - pur nella presenza del requisito della grave indigenza, declinato siffatto requisito nei termini dianzi indicati - un diritto del soggetto sottoposto agli arresti domiciliari, ma un beneficio il cui godimento può essere discrezionalmente reso possibile dal giudice della cautela Corte di cassazione, Sezione III penale, 23 gennaio 2013, n. 3472 , lo stesso potrà essere concesso solo in quanto - a seguito di una ponderata valutazione delle modalità di svolgimento della attività lavorativa in relazione alla quale è stata fatta la richiesta di autorizzazione da parte del soggetto sottoposto alla misura - l’eventuale concessione del predetto beneficio non si ponga quale fattore sostanzialmente tale da privare di efficacia il mantenimento, che diventerebbe solo una condizione formale di restrizione della libertà priva di un effettivo contenuto, della misura cautelare. Ciò si verificherebbe ove fossero ragionevolmente vanificate, una volta concessa la autorizzazione richiesta, le finalità di tutela della esigenza cautelare per la quale la misura è stata disposta e, sia pure in forma alleviata, conservata. Sarà, pertanto, compito del giudice della cautela verificare - in funzione delle specifiche modalità secondo le quali esso è stato modulato, in funzione della tipologia della attività lavorativa che si chiede di poter svolgere - se il contenuto del provvedimento autorizzatorio per il quale vi è stata istanza anche tenuto conto della possibilità di potere concretamente controllare l’eventualità di comportamenti violativi della prescrizioni, temporali e spaziali, cui il godimento dell’autorizzazione sarà necessariamente sottoposto onde evitare facili abusi di essa - sia compatibile con le finalità sottese alla adozione della misura nel senso della necessaria valutazione di compatibilità fra i due interessi contrapposti, quello generale alla tutela della esigenza cautelare e quello particolare alla rimozione della situazione di grave indigenza, cfr Corte di cassazione, Sezione II penale, 2 marzo 2015, n. 9004 . Tale verifica, tuttavia, non potrà essere condotta, come ha, invece, fatto il Tribunale de L’Aquila, sulla sola base della perdurante astratta persistenza della esigenza cautelare, posto che, come già in precedenza dimostrato, tale persistenza è una condizione ineliminabile per il mantenimento della misura situazione questa la persistenza della misura che è, a sua volta, presupposto ontologicamente necessario affinché possa essere rilasciata la autorizzazione di cui all’art. 284, comma 3, cod. proc. pen. Nei limiti di cui sopra, pertanto, il ricorso proposto dall’O. deve essere accolto ed a ciò deve fare seguito l’annullamento della ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale dell’Aquila, Sezione del Riesame, che, in diversa composizione personale, riesaminerà, applicando in principi di cui innanzi, l’impugnazione presentata dal ricorrente avverso il provvedimento emesso dal Gip del Tribunale de L’Aquila in data 2 novembre 2017. P.Q.M. Annulla la ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale del riesame de l’Aquila.