Avvocati e divieto di intercettazioni, è la natura della conversazione a fare la differenza

Nel qualificare il contenuto di un’intercettazione di un colloquio intercorso tra l’indagato e l’avvocato legati da uno stretto rapporto di amicizia, i Giudici sono tenuti a valutare se quanto detto da entrambi riveli una natura professionale o di mera confidenza.

Infatti, il divieto di intercettazioni relative a conversazioni o comunicazioni dei difensori non riguarda indiscriminatamente tutte le conversazioni di chi riveste tale qualifica. Lo spiega la Cassazione con sentenza n. 24451/18 depositata il 30 maggio. Il caso. Rideterminata la pena inflitta in primo grado, la Corte d’Appello confermava la responsabilità dei ricorrenti per il reato di estorsione. Deducendo l’inutilizzabilità dei contenuti dell’intercettazione intercorsa fra l’indagato e l’avvocato, in quanto ritenuta di tipo professionale e non amicale, e l’erronea qualificazione del fatto contestato, il difensore degli imputati si rivolge alla Cassazione. Conversazione professionale o amicale? L’esistenza del divieto di intercettazioni relative a conversazioni o a comunicazioni dei difensori, affermano i Giudici di legittimità, non riguarda indiscriminatamente tutte le conversazioni di chi riveste tale qualifica, e per il solo fatto di possederla, ma solo le conversazioni che attengono alla funzione esercitata . La ratio dell’art. 103 c.p.p. recante Garanzie di libertà del difensore si rinviene, infatti, nella tutela del diritto di difesa . Nel stabilire, poi, se il contenuto di un’intercettazione di un colloquio tra l’indagato e l’avvocato legati da uno stretto rapporto di amicizia possa essere utilizzato a fini probatori oppure no, gli Ermellini ritengono che occorre anzitutto valutare se quanto detto dall’indagato sia finalizzato ad ottenere consigli difensivi professionali e non si risolva in una mera confidenza e se quanto detto dell’avvocato abbia realmente natura professionale o semplicemente consolatoria. Nella fattispecie, avendo i Giudici di prime cure correttamente qualificato il contenuto della conversazione in amicale, ne consegue la legittima utilizzabilità dell’intercettazione ottenuta. Pertanto, ritenendo infondate le doglienze sollevate dai ricorrenti, la Suprema Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 22 marzo – 30 maggio 2018, n. 24451 Presidente Iasillo – Relatore Recchione Ritenuto in fatto 1. La Corte di appello di Milano confermava la responsabilità dei ricorrenti per il reato di estorsione, rideterminando la pena inflitta in primo grado al C. tenuto conto dell’estinzione per decorso del termine di prescrizione di alcuni reati satellite. 2.Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione il difensore degli imputati che deduceva 2.1. vizio di legge si deduceva l’inutilizzabilità dei contenuti della intercettazione intercorsa tra il V. e l’avv. Bersani tale conversazione, contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di merito, non avrebbe contenuto amicale, ma professionale, non rilevando il fatto che il mandato defensionale non fosse stato conferito e che l’imputato non fosse all’epoca iscritto nel registro degli indagati 2.2. vizio di legge e di motivazione si deduceva che il fatto contestato era stato erroneamente qualificato come estorsione, laddove in ragione dell’esistenza di un credito esigibile vantato da V. nei confronti della persona offesa e delle modalità delle minacce avrebbe dovuto essere inquadrato nella fattispecie prevista dall’art. 393 cod. pen Considerato in diritto 1. Il ricorso è manifestamente infondato. 1.1. Con riferimento al primo motivo che invoca il riconoscimento dell1inutilizzabilità dei contenuti della intercettazione tra il V. e l’avv. Bersani il collegio ribadisce che il divieto di intercettazioni relative a conversazioni o comunicazioni dei difensori, non riguarda indiscriminatamente tutte le conversazioni di chi riveste tale qualifica, e per il solo fatto di possederla, ma solo le conversazioni che attengono alla funzione esercitata, in quanto la ratio della regola posta dall’art. 103 cod. proc. pen., va rinvenuta nella tutela del diritto di difesa. Con specifico riguardo alla intercettazione di un colloquio tra l’indagato ed un avvocato, legati da uno stretto rapporto di amicizia, per la cui utilizzabilità la Corte ha ritenuto necessario che il giudice del merito dovesse valutare a se quanto detto dall’indagato fosse finalizzato ad ottenere consigli difensivi professionali o non costituisse piuttosto una mera confidenza fatta all’amico b se quanto detto dall’avvocato avesse natura professionale oppure consolatoria ed amicale a fronte delle confidenze ricevute Cass. sez. 2, n. 26323 del 29/05/2014 - dep. 18/06/2014, P.M. in proc. Canestrale, Rv. 259585 . Nel caso di specie i giudici di merito di entrambi i gradi di giudizio hanno valutato che la conversazione censurata non avesse un contenuto professionale ma amicale cosi la sentenza impugnata a pag.12 . La valutazione conforme di merito espressa sul punto dai giudici di entrambi i gradi di giudizio non risulta scalfita dalle doglianze difensive orientate a qualificare il contenuto della conversazione come professionale nonostante la stessa si fosse risolta per stessa ammissione difensiva nella apprensione del problema e nella indicazione di un professionista competente per gestire la situazione processuale del C. . 1.2. Anche il secondo motivo di ricorso che invoca la qualificazione del fatto contestato nella fattispecie prevista dall’art. 393 cod. pen. è manifestamente infondato in quanto non si confronta con la consolidata giurisprudenza che definisce i confini delle fattispecie previste dall’art. 629 e 393 cod. pen Sul punto il collegio ribadisce che è configurabile il delitto di estorsione, e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone, in presenza di una delle seguenti condizioni relative alla condotta di esazione violenta o minacciosa di un credito a la sussistenza di una finalità costrittiva dell’agente, volta non già a persuadere ma a costringere la vittima, annullandone le capacità volitive b l’estraneità al rapporto contrattuale di colui che esige il credito, il quale agisca anche solo al fine di confermare ed accrescere il proprio prestigio criminale attraverso l’esazione con violenza e minaccia del credito altrui c la condotta minacciosa e violenta finalizzata al recupero del credito sia diretta nei confronti non soltanto del debitore ma anche di persone estranee al sinallagma contrattuale Cass. sez. 2 n. 11453 del 17/02/2016, Rv. 267123 Cass. Sez. 2 n. 5092 del 20/12/2017dep. 2018, Rv. 272017 . Nel caso di specie le modalità dell’azione ricostruite dalle due sentenze conformi di merito sono all’evidenza costrittive , cioè mirate all’annichilimento delle capacità di reazione della persona offesa la cui volontà risulta annientata, e di fatto eterodiretta, dalla violenza esercitata dall’agente. Tale caratteristica dell’azione è immediatamente riconducibile alla fattispecie prevista dall’art. 629 cod. pen. la cui condotta-tipo è decritta proprio dal verbo costringere a ciò si aggiunge sia il fatto che il V. non risultava titolare di alcun credito tutelabile in sede giudiziaria sul punto pag. 7 della sentenza di primo grado sulla ostatività di tale condizione all’invocato inquadramento Cass. Sez. 2, n. 24478 del 08/05/2017 - dep. 17/05/2017, Salute e altri, Rv. 269967 , sia la circostanza che per porre in essere l’azione intimidatoria il V. aveva fatto ricorso al pregiudicato C. , ovvero ad una persona estranea al rapporto contrattuale che risolveva in modo professionale questioni di questo genere pag. 13 della sentenza impugnata . Gli elementi segnalati ostano, come ritenuto correttamente dalla Corte territoriale, alla qualificazione del fatto contestato nella più lieve fattispecie prevista dall’art. 393 cod. pen 2. Alla dichiarata inammissibilità del ricorso consegue, per il disposto dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che si determina equitativamente in Euro 1500,00. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2000 ciascuno a favore della Cassa delle ammende.