Due presunte truffe immobiliari: i chiarimenti della Cassazione

La Suprema Corte approfittando delle due controversie oggetto di distinte sentenze fissa due principi di diritto in tema di truffe poste in essere nell’ambito delle compravendite immobiliari.

Sul tema la Cassazione con le sentenze n. 23079/18 e 23780/18, depositate il 23 maggio. La prima fattispecie. La prima controversia, oggetto della decisione del Giudici di legittimità, traeva origine dalla sentenza del Tribunale con la quale l’imputata veniva assolta perché il fatto non costituisce reato . In particolare secondo la tesi accusatoria l’imputata era accusata di aver indotto la persona offesa a stipulare un contratto di vendita immobiliare con la falsa prospettazione della piena disponibilità dell’immobile, senza informarla della pretesa avanzata dai fratelli dell’imputata stessa sull’immobile. Quest’ultimi infatti formalizzavano le pretese in atto di citazione, notificato all’imputata, volto a far dichiarare la simulazione della vendita costituente il titolo di acquisto della proprietà dell’imputata, in quanto dissimulante una donazione dei genitori. Detto atto di citazione veniva trascritto solo 5 giorni prima della vendita. La decisione del Tribunale si fondava sul presupposto della carenza dell’elemento soggettivo del reato di truffa e del reato di falsità ideologica in atto pubblico, in quanto l’imputata non era pienamente consapevole dell’azione giudiziaria intrapresa dal fratello e della conseguente trascrizione della citazione quale gravame” pregiudizievole . La Corte d’Appello, adita su ricorso del PM e della parte civile, riformava la sentenza di prime cure e dichiarava estinti i reati per prescrizione, ma riteneva, altresì, l’imputata responsabile per i reati contestati in quanto la stessa aveva l’obbligo di far conoscere le pretese dei fratelli e, aggiungendo che l’asserita inconsapevolezza dell’iniziativa giudiziaria in merito alla simulazione non era plausibile ed in ogni caso risultava irrilevante in presenza di indizi gravi, precisi e concordanti di una pregressa conoscenza nell’imputata della controversia esistente con i fratelli sulla proprietà dell’appartamento in questione . Contro la decisione di merito l’imputata proponeva ricorso per cassazione, deducendo con il primo motivo di ricorso la violazione dell’art. 6 CEDU. Gli obblighi del venditore. Secondo parte ricorrente non era stato commesso alcun raggiro o artifizio in quanto la stessa aveva solo omesso di informare le mere e ipotetiche possibilità sprovviste di consistenza materiale ancor prima che giuridica e delle quali non può farsi carico il venditore . La Cassazione ha ritenuto infondata la doglianza della ricorrente e confermato la motivazione della Corte territoriale in relazione alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato di truffa per l’omessa informazione dell’imputata della pretesa dei fratelli. Ciò, in applicazione del principio di diritto secondo il quale nel caso in cui su un immobile un terzo accampi pretese che, se accolte a seguito di un giudizio, comporterebbero la restituzione del suddetto immobile al rivendicante anche da parte di un terzo al quale sia stato nel frattempo alienato, il proprietario che intenda venderlo, ha l’obbligo giuridico, nella fase delle trattative, di comunicare al potenziale acquirente, la suddetta controversa situazione giuridica – anche se non sia ancora sfociata in una vera e propria causa – al fine di consentirgli di liberamente autodeterminarsi, e quindi, di valutare se accettare o meno il rischio di un eventuale causa . La seconda fattispecie. L’altra controversia, oggetto di ricorso per cassazione, nasceva dalla condanna dell’imputato per il reato di truffa aggravata per aver promesso in vendita alla persona offesa un immobile che successivamente, dopo aver ricevuto gli acconti previsti dal preliminare, vendeva ad altri. Il condannato ricorre in Cassazione deducendo, tra gli altri motivi, che il reato sia estinto per prescrizione. In questo secondo caso la Suprema Corte ha ritenuto il ricorso inammissibile, rilevando che, in relazione al dies a quo ai fini della prescrizione applicabile al caso di specie, il reato non fosse prescritto. Infine la Corte ha approfittato della fattispecie in esame per affermare il principio di diritto secondo il quale nel caso di un contratto preliminare, il reato di truffa, quand’anche il promissario acquirente abbia versato l’intero prezzo pattuito, si consuma nel momento in cui il raggirato abbia perso definitivamente il bene oggetto della truffa non potendo esercitare su di esso più alcuna azione giudiziale essendo stato venduto dal promittente venditore ad un terzo in buona fede .

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 9 maggio – 23 maggio 2018, n. 23079 Presidente Gallo – Relatore Rago Ritenuto in fatto 1. B.L. , insieme al marito D’Angeli Maurizio non ricorrente , fu tratta a giudizio davanti al giudice monocratico del Tribunale di Roma per i reati di cui agli artt. 640- 61 n. 7, 483 cod. pen Secondo la tesi accusatoria l’imputata in concorso con il marito aveva indotto la persona offesa C.G. a stipulare un contratto di vendita immobiliare - in esecuzione del quale erano state erogate ingenti somme di denaro - con la falsa prospettazione della piena disponibilità dell’immobile oggetto della vendita secondo le dichiarazioni rese dalla B. al notaio circa l’esclusiva proprietà dell’immobile e l’assenza di pretese di terzi sull’immobile stesso , tacendo alla controparte contrattuale le pretese avanzate dai fratelli di essa B. sull’immobile stesso, pretese poi formalizzate in un atto di citazione notificato dal fratello della B. , E. , per far dichiarare la simulazione della vendita costituente il titolo di acquisto della proprietà della sorella in quanto dissimulante una donazione dei genitori con conseguente riacquisizione dell’immobile nell’asse ereditario del genitore defunto , atto di citazione trascritto il 23.12.2004, ossia solo 5 giorni prima della vendita alla signora C. , avvenuta il 28.12.2004 e trascritta il giorno seguente. In punto di fatto, si accertava che a la B. aveva acquistato l’immobile in questione il 03/05/1983 con denaro del proprio padre b i fratelli, una volta che il padre era deceduto nel 1999 , avevano cominciato ad avanzare pretese successorie sul suddetto immobile sostenendo che la vendita era simulata e, comunque, dovendosi ritenere una donazione, doveva rientrare nell’asse ereditario c queste richieste, sebbene effettuate ad intermittenza, sfociarono in un atto di citazione da parte del fratello dell’imputata che fu notificato ex art. 140 c.p.c 2. Con sentenza del 25/11/2009, il Tribunale assolse l’imputata ex art. 530/2 cod. proc. pen. - con formula perché il fatto non costituisce reato quindi per carenza dell’elemento soggettivo - sul presupposto che non fosse pienamente consapevole dell’azione giudiziaria intrapresa dal fratello e della conseguente trascrizione della citazione quale gravame pregiudizievole, in quanto a la citazione era stata notificata ex art. 140 del c.p.c., e si era perfezionata per compiuta giacenza b B. E. non aveva preannunziato alla sorella Lucilla la sua iniziativa giudiziaria a fronte della quale costei aveva mostrato stupore ed incredulità anche perché riteneva che le pretese dei fratelli fossero del tutto infondate, avendo il padre assegnato in vita a ciascuno dei figli un immobile di pari valore c l’omessa comunicazione alla C. dell’esistenza dei contrasti col fratello sulla consistenza dell’asse ereditario non costituivano, comunque, un raggiro rilevante per la truffa, in presenza di un regime legale di pubblicità dei gravami pregiudizievoli che rendeva irrilevante il suddetto silenzio della B. . 3. A seguito dell’appello proposto sia dal Pubblico Ministero che dalla parte civile, la Corte di Appello riformò la suddetta sentenza dichiarando, peraltro, l’estinzione di entrambi i reati per prescrizione, adducendo la seguente motivazione indipendentemente dal fatto che la signora B.L. considerasse o meno fondate le pretese dei fratelli - esisteva, e da epoca di gran lunga anteriore alla stipula del preliminare con la signora C. , una grave controversia sulla consistenza dell’asse ereditario lasciato dagli aventi causa deceduti nel 1999 dei fratelli B. e quindi oggetto della possibile divisione ereditaria tra gli stessi, in quanto i fratelli dell’imputata avevano sostenuto con forza che di tale asse da dividere dovesse far parte l’immobile poi venduto dall’imputata B. alla signora C. , sia in forza della asserita simulazione della vendita alla B. del bene stesso avvenuta il 3.5.1983, ovvero della nullità della donazione del medesimo immobile dissimulata nel suddetto atto di vendita, sia e alternativamente in forza della necessità di imputare per collazione la donazione immobiliare in questione. Tale controversia sulla proprietà e disponibilità del bene costituiva, pertanto, una circostanza che la B. aveva l’obbligo di far conoscere alla signora C. , in quanto, implicando la stessa un forte rischio di insicurezza dell’acquisto in ragione della possibilità del legittimario pretermesso agente in riduzione di colpire non solo i coeredi donatari, ma anche, e con apposita azione di restituzione, il terzo subacquirente, ex art. 563 del c.c. , la signora C. aveva il diritto alla conoscenza della circostanza onde valutare l’opportunità stessa di procedere all’acquisto. L’avere la B. sottaciuto alla C. tale circostanza ha determinato nella acquirente C. una ignoranza sulla effettiva condizione giuridica del bene che si apprestava ad acquistare, e quindi una ragionevole quanto infondata aspettativa di assoluta libertà del bene stesso da vincoli, che ha sicuramente influito sulla formazione della volontà negoziale della stessa . Aggiunse la Corte che l’asserita inconsapevolezza, da parte dell’imputata, della iniziativa giudiziaria intrapresa dal fratello azione di divisione ereditaria, previa declaratoria della simulazione dell’atto del 03/05/1983 o della nullità della donazione con lo stesso atto dissimulata, ovvero riduzione delle donazioni stesse oltre che essere implausibile, era irrilevante in presenza di indizi gravi, precisi e concordanti di una pregressa conoscenza nell’imputata della controversia esistente con i fratelli sulla proprietà dell’appartamento in questione. 4. Contro la suddetta sentenza, la sola B.L. , a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione deducendo 4.1. la violazione dell’art. 6 CEDU ad avviso della difesa la Corte aveva violato la suddetta norma in quanto si era limitata a valutare in maniera diametralmente opposta le stessi fonti di prova dichiarativa e documentale considerate nel primo giudizio senza preoccuparsi lontanamente di sentire direttamente i testimoni per come impone in questi casi la più recente giurisprudenza di legittimità in sintonia con quella comunitaria , ma soprattutto operando una lettura alternativa del medesimo materiale probatorio in violazione del vincolo motivazionale rafforzato che incombe sul giudice di secondo grado che per la prima volta dichiarai la colpevolezza dell’imputato . La difesa, poi, sostiene che la Corte sarebbe incorsa in un grave travisamento del fatto laddove aveva ritenuto che fra le parti sussistesse già una controversia sulla proprietà laddove la suddetta controversia, in realtà, era stata formalizzata solo nel 2009. Di conseguenza, ad avviso della difesa, non poteva essere configurabile alcun artifizio o raggiro perché, nella fattispecie, erano state sottaciute solo delle mere ed ipotetiche possibilità sprovviste alla luce del tempo trascorso di consistenza materiale ancor prima che giuridica e delle quali non può farsi carico il venditore” tant’è vero che il sistema delle trascrizioni degli atti è previsto proprio per atti formali e non per mere congetture 4.2. la violazione dell’art. 483 cod. pen. ad avviso della difesa, il suddetto reato sarebbe insussistente in quanto il giudizio di responsabilità era stato basato sulla apodittica e congetturale affermazione dell’esistenza in capo al venditore dell’onere di comunicare all’acquirente non solo circostanze obiettive ma anche ipotetiche situazioni in astratto sempre verificabili che in quale che modo possono incidere sul sinallagma contrattuale in maniera tale da far desistere la controparte dal concludere il contratto . 5. La parte civile, a mezzo del proprio difensore, ha depositato una memoria con la quale ha chiesto la inammissibilità del ricorso. Considerato in diritto 1. la violazione dell’art. 6 cedu. La suddetta censura è infondata. La Corte di Appello, infatti, ha riformato la sentenza di primo grado, non perché abbia proceduto alla rivalutazione delle prove dichiarative, ma perché le ha ritenute irrilevanti ai fini della decisione tant’è che le testimonianze di B. E. sulla circostanza che non aveva comunicato alla sorella di avere iniziato una causa civile nei suoi confronti e dell’avv.to Perone sulla circostanza che l’imputata rimase stupita della causa promossa dal fratello anche perché la riteneva ingiusta non sono state minimamente prese in considerazione avendo dato del fatto oggettivamente e pacificamente accertato ossia che la ricorrente sapeva benissimo delle pretese che i propri fratelli avanzavano, da tempo, sull’immobile in questione una diversa valutazione giuridica. Il punto nodale della questione che pone il presente processo può essere riassunto nei seguenti termini se, a carico del venditore di un immobile sul quale terzi accampino pretese giuridiche che, se accolte, comportino la restituzione del bene anche da parte dell’eventuale acquirente, abbia o meno l’obbligo di comunicare, nella fase delle trattative, al potenziale acquirente la suddetta situazione. La difesa della ricorrente sostiene che non vi sia alcun obbligo perché, al momento delle trattative, non vi era ancora alcuna lite pendente sicché al venditore non potrebbe farsi carico di comunicare notizie ipotetiche anche perché il sistema delle trascrizioni degli atti è previsto proprio per atti formali e non per mere congetture. Il suddetto argomento non è condivisibile. In realtà, sia nel diritto penale che in quello civile, è consolidato il principio di diritto secondo il quale le trattative devono svolgersi secondo buona fede proprio al fine di consentire alle parti la libera autodeterminazione che non dev’essere fuorviata da elementi che, se conosciuti, le avrebbero indotte ad altre soluzioni. E così, in diritto penale, si è affermato che la conclusione di un negozio giuridico può integrare gli estremi della truffa, anche se il comportamento contrattuale sia corretto, quando sia preordinato al fine di procurarsi un ingiusto profitto e la rappresentata correttezza sia strumentalizzata allo scopo di sorprendere la buona fede dell’altro contraente sotto la parvenza di una regolare attività negoziale ex plurimis Cass. 843/1980 Rv. 144032 , sicché anche il tacere o dissimulare fatti o circostanze tali che, ove conosciuti, avrebbero indotto l’altro contraente ad astenersi dal concludere il contratto, integra gli estremi degli artifizi e raggiri di cui all’art. 640 cod. pen. ex plurimis Cass. 28703/2013 Rv. 256348 . Tale principio, a ben vedere, non è altro che un’applicazione dell’art. 1337 cod. civ. in relazione al quale anche la giurisprudenza civile ritiene che l’esigenza della buona fede intesa in senso etico, come un requisito della condotta, costituisce uno dei cardini della disciplina legale delle obbligazioni e forma oggetto di un vero e proprio dovere giuridico,il quale va osservato,ai sensi degli artt. 1337 e 1338 cod. civ., anche nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, ed è violato, non solo nel caso in cui una delle parti abbia agito con il proposito doloso di recar pregiudizio all’altra, ma anche se il comportamento da essa tenuto non sia stato comunque. improntato alla schiettezza, alla diligente correttezza ed al senso di solidarietà sociale che integrano il contenuto della buona fede onde, pur se determinato da mera colpa, anche il silenzio serbato da uno dei contraenti in ordine a circostanze o situazioni giuridiche che, in relazione all’oggetto di esso, presentino particolare rilevanza sotto il profilo giuridico ed economico, implica trasgressione di quel dovere, qualora sia idoneo a generare un ragionevole affidamento circa la insussistenza delle dette circostanze e situazioni Cass. civ. 2425/1961 Rv. 881350 - 01 Cass. civ. 3922/1989 Rv. 463757 - 01. Alla stregua di tale consolidato orientamento giurisprudenziale - che in questa sede si ritiene di ribadire - è chiaro, quindi, che la censura dedotta dalla ricorrente va disattesa proprio perché quel fatto pretese accampate dai fratelli sull’immobile era di fondamentale importanza nella dinamica delle trattative e avrebbe dovuto essere portato a conoscenza dell’acquirente proprio al fine di consentirle di valutare se continuare o meno nella trattativa assumendosi, quindi, tutti gli eventuali rischi di una causa. E, nel caso di specie, l’obbligo era tanto più cogente ove si consideri che le pretese dei fratelli della ricorrente non erano ictu oculi infondate e pretestuose ma serissime dato che, l’immobile in questione, era stato, pacificamente acquistato dalla ricorrente con denaro del proprio padre invero, per definire una questione controversa non occorre che vi sia una causa in essere fra le parti che la sancisca formalmente, ma è sufficiente che ognuna delle parti sia a conoscenza delle pretese che l’altra accampa e, che, quindi, può sfociare in una lite. La censura dedotta dalla difesa della ricorrente deve, pertanto, essere disattesa alla stregua del seguente principio di diritto nel caso in cui su un immobile un terzo accampi pretese che, se accolte a seguito di un giudizio, comporterebbero la restituzione del suddetto immobile al rivendicante anche da parte di un terzo al quale sia stato nel frattempo alienato, il proprietario che intenda venderlo, ha l’obbligo giuridico, nella fase delle trattative, di comunicare al potenziale acquirente, la suddetta controversa situazione giuridica - anche se non sia ancora sfociata in una vera e propria causa - al fine di consentirgli di liberamente autodeterminarsi e, quindi, di valutare se accettare o meno il rischio di una eventuale causa . A ben vedere, entrambi i giudici di merito hanno condiviso il suddetto principio di diritto cfr pag. 5 sentenza di primo grado pag. 3 sentenza impugnata la divergenza di opinione è sorta in ordine all’elemento psicologico in quanto, mentre il primo giudice ha ritenuto che l’omessa comunicazione della suddetta controversa situazione giuridica - potenzialmente foriera di una causa civile - all’acquirente fosse dovuta ad un comportamento colposo dell’imputata e, quindi, non punibile a titolo di truffa , ad opposta conclusione è giunta la Corte di Appello. Ritiene questa Corte che la motivazione addotta sul punto dalla Corte Territoriale non sia soggetta ad alcuna censura. Infatti, una volta accertato che l’imputata era perfettamente a conoscenza della potenziale causa civile che poteva essere intentata dai fratelli, diventa del tutto irrilevante - ai fini dell’elemento psicologico del reato di truffa - che la ricorrente dubitasse che i fratelli avrebbero concretizzato le loro pretese o che queste fossero fondate. Ciò che rileva, infatti, è che la ricorrente sapesse che sull’immobile era in essere una controversia con i fratelli sicché era suo preciso dovere giuridico informare della questione la potenziale acquirente - al fine di consentirle di determinarsi nell’acquisto in modo libero e consapevole - essendo ininfluente che quelle pretese non fossero state ancora concretizzate in un atto di citazione. In altri termini, l’artifizio e raggiro consistito nel silenzio volontariamente tenuto su una circostanza fondamentale ai fini della conclusione dell’affare, non può essere ritenuto colposo - come sostenuto dal primo giudice - sol perché l’imputata dubitava che le pretese dei propri fratelli fossero fondate e che, quindi, mai avrebbero promosso una vera e propria causa civile per farle valere. Infatti, come è stato ripetutamente affermato da questa Corte, il dubbio su un elemento di fatto o di diritto della fattispecie criminosa nella specie l’artifizio e raggiro consistito nel silenzio tenuto sulle pretese dei fratelli sull’immobile in questione non è di per sé sufficiente ad escludere il dolo in quanto, mentre l’errore determina il convincimento circa l’esistenza di una situazione che non corrisponde alla realtà, chi agisce nel dubbio è invece consapevole di potersi esporre a violare la legge, cosicché il compimento dell’azione comporta l’accettazione del rischio nella causazione dell’evento, concretizzando così una forma di responsabilità a titolo di dolo eventuale Cass. 37837/2014 Rv. 260257 proprio perché il dubbio determina uno stato di incertezza, una possibilità di differente valutazione la quale, permanendo, impedisce il formarsi dell’erronea certezza richiesta dall’art. 47 cod. pen. Cass. 5975/2012 rv 252697 Cass. 15388/2005 riv 231553 Cass. 9069/1982 rv 155528. 2. LA VIOLAZIONE DELL’ART. 483 COD. PEN La censura è fondata. In punto di diritto, va premesso che è del tutto pacifico nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo il quale il delitto di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico art. 483 cod. pen. sussiste solo qualora l’atto pubblico, nel quale la dichiarazione del privato è trasfusa, sia destinato a provare la verità dei fatti attestati, e cioè quando una norma giuridica obblighi il privato a dichiarare il vero, ricollegando specifici effetti all’atto-documento nel quale la sua dichiarazione è inserita dal pubblico ufficiale ricevente ex plurimis Cass. 5365/2018 rv. 272110 SSUU 28/1999 rv. 215413. Ora, nel caso di specie, a parte ogni considerazione sul fatto che, al momento in cui l’imputata dichiarò al notaio rogante di essere l’unica proprietaria dell’immobile, la dichiarazione era vera la qual cosa non bisogna confondere con la conoscenza che aveva che sull’immobile i fratelli accampavano diritti , va osservato che, anche a volerla ritenere falsa , le norme che impongono al notaio la verifica dei titoli di provenienza non hanno anche la funzione di obbligare le parti a rendere, sul punto, dichiarazioni veritiere in terminis Cass. 39215/2015 Rv. 264841 , né l’atto di vendita, destinato a trasferire la proprietà dei beni, è destinato a provare la verità dei fatti dichiarati dal venditore Cass. 5365/2008 Rv. 239110 non essendovi alcuna specifica norma giuridica che, sul punto, attribuisca al suddetto atto la funzione di provare i fatti attestati dal privato al pubblico ufficiale. Pertanto, la sentenza impugnata, in ordine al suddetto capo d’imputazione, va annullata sentenza rinvio perché il fatto non sussiste a tale conclusione questa Corte ritiene di pervenire nonostante la declaratoria di prescrizione, in quanto l’imputata era stata assolta in primo grado, seppure con la formula perché il fatto non costituisce reato, e le pacifiche circostanze di fatto escludono ictu culi la configurabilità del reato in terminis SSUU 35490/2009 rv 244274 . P.Q.M. ANNULLA senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui all’art. 483 cod. pen. perché il fatto non sussiste RIGETTA nel resto il ricorso e conferma le statuizioni civili limitatamente al solo reato di cui all’art. 640 - 61 n. 7 cod. pen CONDANNA la ricorrente alla rifusione delle spese in favore della parte civile C.G. che liquida in complessivi Euro 4.000,00 oltre Iva e cpa.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 9 maggio – 23 maggio 2018, n. 23080 Presidente Gallo – Relato Rago Fatto e diritto 1. D.B.D. - condannato per il reato di truffa aggravata per avere promesso in vendita alla persona offesa un appartamento che, dopo avere ricevuto gli acconti previsti nel preliminare, vendeva ad altri - ha proposto ricorso per cassazione contro la sentenza in epigrafe deducendo 1.1. la violazione dell’art. 522 cod. proc. pen. in quanto sarebbe stato condannato per un fatto diverso da quello contestato 1.2. la violazione dell’art. 606 lett. e in ordine ai motivi che hanno indotto il Collegio a ritenere decisivi gli elementi addotti dall’accusa a carico del prevenuto 1.3. la prescrizione del reato in quanto l’ultimo versamento era stato effettuato il 31/01/2008. 2. Il ricorso è inammissibile essendo tutte le censure manifestamente infondate in quanto Ad 1.1. risulta da un controllo degli atti, che la suddetta eccezione non era mai stata dedotta né in primo grado né, tantomeno con i motivi di appello. Di conseguenza - a tutto concedere e, quindi, senza entrare neppure nel merito della questione - si tratterebbe pur sempre di una nullità a regime intermedio da ritenersi ampiamente sanata per non essere stata dedotta nei termini di legge in terminis Cass. 31436/2012 rv 253217 Cass. 19043/2017 Rv. 269886 Ad 1.2. la censura non è scrutinabile in quanto risulta solo enunciata in modo del tutto assertorio senza che siano stati addotti motivi specifici Ad 1.3. in punto di fatto risulta che, in effetti, l’ultimo acconto fu versato dalla persona offesa il 31/01/2008. Tuttavia, dalla sentenza di primo grado, risulta che l’appartamento promesso in vendita fu venduto ad altri il 22/12/2008. In punto di diritto, è consolidato il principio secondo il quale Il delitto di truffa contrattuale è reato istantaneo e di danno, il momento della cui consumazione - che segna il dies a quo della prescrizione - va determinato alla luce delle peculiarità del singolo accordo, avuto riguardo alle modalità ed ai tempi delle condotte, onde individuare, in concreto, quando si è prodotto l’effettivo pregiudizio del raggirato in correlazione al conseguimento dell’ingiusto profitto da parte dell’agente ex plurimis Cass. 11102/2017 Rv. 269688 SSUU 18/2000 rv 216429. Di conseguenza, nel caso di specie, se è vero che l’imputato conseguì il profitto con il versamento dell’ultima rata del 31/01/2008, è anche vero che la persona offesa rimase danneggiata solo nel momento in cui l’imputato vendette l’immobile promesso in vendita e cioè nel momento in cui la persona offesa non potè più vantare alcun diritto neppure promuovendo azioni giudiziarie art. 2932 cod. civ. , sul bene che gli era stato promesso in vendita. È da questo momento, quindi, che la truffa contrattuale deve ritenersi consumata in aderenza alla concezione economica del danno secondo la quale il reato si consuma nel momento in cui il raggirato perde definitivamente il bene oggetto della truffa nella specie, l’immobile promesso in vendita . Di conseguenza, poiché il dies a quo ai fini della prescrizione pari ad anni sette e mesi sei va fatto decorrere dal 22/12/2008, il reato, al momento della sentenza impugnata 05/02/2016 non si era ancora prescritto, alla stregua del seguente principio di diritto nel caso di un contratto preliminare, il reato di truffa, quand’anche il promissario acquirente abbia versato l’intero prezzo pattuito, si consuma nel momento in cui il raggirato abbia perso definitivamente il bene oggetto della truffa non potendo esercitare su di esso più alcuna azione giudiziale essendo stato venduto dal promittente venditore ad un terzo in buona fede . 3. In conclusione, l’impugnazione deve ritenersi inammissibile a norma dell’art. 606/3 c.p.p, per manifesta infondatezza alla relativa declaratoria consegue, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché al versamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro 2.000,00. La declaratoria di inammissibilità preclude la rilevabilità della prescrizione in applicazione del principio di diritto secondo il quale l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto d’impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen. ex plurimis SSUU 22/11/2000, De Luca, Riv 217266 - Cass. 4/10/2007, Impero Sez. un., 2 marzo 2005, n. 23428, Bracale, rv. 231164 Sez. un., 28 febbraio 2008, n. 19601, Niccoli, rv. 239400 SSUU, 12602/2016, Ricci P.Q.M. DICHIARA inammissibile il ricorso e CONDANNA il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila a favore della Cassa delle Ammende, nonché alla rifusione delle spese in favore della parte civile V.M. che liquida in Euro 3.510,00 oltre spese generali, Cpa ed Iva.