Rilevanti i post su Facebook ai fini dell'apologia del terrorismo

La pubblicazione di post sui social media volti ad esaltare il terrorismo, nonché le intercettazioni aventi un contenuto apologetico di reato, rilevano ai fini dell’applicabilità della custodia cautelare in carcere in relazione al delitto di apologia di reato di cui all’art. 414, commi 3 e 4, c.p

Così la Corte di Cassazione con sentenza n. 20198/18, depositata l’8 maggio. Il caso. Il Tribunale di Catanzaro, in sede di riesame, confermava la misura della custodia cautelare in carcere applicata nei confronti dell’indagato in relazione al delitto di apologia di reato aggravato dall’utilizzo di mezzi informatici e attinente ai delitti di terrorismo. Secondo la ricostruzione dei fatti, l’indagato aveva diffuso attraverso un post su Facebook un video volto ad elogiare il martirio, recante sullo sfondo le immagini riferibili ai combattenti dell’associazione terroristica internazionale denominata Stato islamico . In aggiunta, all’indagato veniva contestata l’esaltazione della lotta armata all’interno della moschea di Crotone. Avverso la decisione del Tribunale l’indagato ricorre per cassazione denunciando l’insussistenza del dolo nelle condotte addebitate, l’impossibilità di dare rilievo alle conversazioni e dichiarazioni intercettate all’interno della moschea – in quanto conversazioni private – nonché delle dichiarazioni confessorie, ed infine l’inidoneità del mezzo di diffusione utilizzato quale strumento in grado di determinare il rischio effettivo della commissione di reati da parte di terzi. Il dolo e i social media. Il Supremo Collegio evidenzia che, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, gli elementi che caratterizzano la condotta contestata, ossia la divulgazione dei messaggi all’interno di un luogo di culto aperto al pubblico in presenza di fedeli nonché attraverso l’uso dei social media, formano indubitabilmente oggetto del dolo apologetico , questione non contestata dal ricorrente, sicché non è neppure necessario che il Collegio prenda specifica posizione sul tema della natura giuridica elemento costitutivo del reato o condizione di punibilità in seno alla fattispecie di cui all’art. 414 c.p. . Per quanto attiene alle altre censure, la Suprema Corte ribadisce che se da un lato le conversazioni private siano rilevanti, così come hanno valenza indiziaria le dichiarazioni auto/etero-accusatorie, registrate nel corso di attività di intercettazione regolarmente autorizzate , dall’altro il delitto di cui all’art. 414 c.p. è reato di pericolo e l’esaltazione di un fatto di reato finalizzata a spronare altri all’imitazione è stata individuata nell’offensività della condotta apologetica accertata in sede di merito, caratterizzata dalla platea dei suoi destinatari, dalla forza persuasiva del messaggio trasmesso e dall’interesse correlativamente suscitato in relazione alla propaganda via social network, che a quella di tipo tradizionale in moschea . La Corte dunque rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 8 febbraio – 8 maggio 2018, n. 20198 Presidente Casa – Relatore Centofanti Ritenuto in fatto 1. Il Tribunale di Catanzaro, investito di richiesta di riesame ex art. 309 cod. proc. pen., con l’ordinanza impugnata confermava la misura della custodia cautelare in carcere, applicata dal G.i.p. del medesimo Tribunale, in data 1 giugno 2017, nei confronti di H.A.H. , in relazione al delitto di apologia di reato, aggravata ai sensi del terzo e quarto comma dell’art. 414 cod. pen. l’apologia essendo stata realizzata anche con mezzi informatici e riguardando delitti di terrorismo . Secondo il costrutto accusatorio, nella parte recepita dal collegio del riesame, l’indagato aveva condiviso, tramite un profilo Facebook allo stesso riconducibile anche se registrato sotto altro nome , visualizzato alla data del omissis da 8.419 utenti, un video, recante sullo sfondo immagini riferibili a combattenti dell’associazione terroristica internazionale denominata Stato islamico, e relativo alla predica di un Imam che enfatizzava le parole del profeta Maometto ed elogiava i martiri ed il martirio ed inoltre, all’interno della moschea di , di cui si vantava di avere il controllo, aveva ripetutamente esaltato in presenza dell’Imam e dei fedeli in ascolto lo Stato islamico e il Califfato promuovendo la lotta armata condotte che, per il contenuto intrinseco, le circostanze di fatto e la condizione personale dell’indagato, sarebbero tali da determinare il rischio concreto che gli interlocutori commettano reati lesivi di interessi omologhi a quelli dei crimini esaltati. 2. La gravità indiziaria unico profilo a venire in rilievo in questa sede era integrata, per il Tribunale, dal contenuto del post su Facebook e, quanto alla condotta in moschea, da una duplice captazione audio-video del 20 marzo 2017, effettuata presso l’alloggio dell’indagato sito nello SPRAR Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati di , nella quale il medesimo, interloquendo con persone ivi presenti, o telematicamente collegate da remoto, riferiva le circostanze oggetto di contestazione. Il Tribunale, dopo aver escluso che tali affermazioni fossero frutto di fantasticheria o vanteria anche alla luce della frequentazione assidua della moschea da parte dell’indagato , ravvisava nei fatti sopra indicati gli estremi della condotta apologetica punibile, anche sotto il profilo della sua concreta potenzialità offensiva. Lo stesso giudice notava che i fatti medesimi a differenza di altri, pur originariamente contestati erano stati commessi pubblicamente , ed era pertanto integrata la relativa condizione obiettiva di punibilità, di natura intrinseca, bastando rispetto ad essa in base ad un’interpretazione costituzionalmente orientata la rimproverabilità a titolo di colpa. 3. Ricorre per cassazione l’indagato, tramite il difensore di fiducia, sulla base di tre motivi. 3.1. Il primo motivo denuncia - in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b ed e , cod. proc. pen. - la violazione dell’art. 414 cod. pen., nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, sul punto della condizione obiettiva di punibilità. Il Tribunale sarebbe entrato in contraddizione, sostenendo, da un lato, che la pubblicità sia nota modale della condotta, ed escludendo poi che tale aspetto debba essere investito dal dolo. Non si tratterebbe affatto di requisito intrinseco, ed errato sarebbe per argomentare in tal senso il riferimento analogico all’art. 115 cod. pen La punibilità sussisterebbe invece prescindendo dal fatto se la condizione fosse o meno voluta dall’agente, la cui condotta sarebbe però incriminabile solo se alla sua valenza comunicativa si accompagnasse l’esternazione pubblica ed il Tribunale di fatto negherebbe ciò nel momento in cui riterrebbe la condizione mera qualità della condotta, anziché modalità della condotta, e nel momento in cui ricondurrebbe la pubblicità a mero aggravamento del reato quale condizione intrinseca. 3.2. Il secondo motivo denuncia - in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b ed e , cod. proc. pen. - la violazione degli artt. 414 cod. pen. e 273 cod. proc. pen., nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, sul punto dei gravi indizi di colpevolezza. Sarebbe contraddittorio il ragionamento del Tribunale, lì ove esso da un lato correttamente postula come necessaria per l’incriminazione la pubblicità della condotta apologetica, escludendo quindi la punibilità delle condotte poste in essere privatamente e dall’altro ritiene la sussistenza della gravità indiziaria, per le condotte in moschea, da intercettazioni aventi ad oggetto conversazioni private dall’indagato. In ogni caso, la gravità indiziaria sarebbe stata ritenuta sufficiente sulla sola osservazione della provenienza dall’indagato delle affermazioni confessorie , che sarebbe indizio isolato, come tale non rispondente al paradigma normativo della gravità, precisione e concordanza. 3.3. Il terzo motivo denuncia - in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b ed e , cod. proc. pen. - la violazione dell’art. 414 cod. pen., nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, sul punto concernente l’offensività in concreto della condotta addebitata. Il collegio del riesame si sarebbe limitato a motivare sull’idoneità del mezzo, e sulla consapevolezza dell’indagato circa la potenzialità diffusiva della comunicazione, astenendosi dal motivare sulla sussistenza dei requisiti ulteriori di questa se essa sia cioè tale, sulla base del contenuto intrinseco, della condizione personale dell’agente e delle circostanze di fatto, da determinare il rischio effettivo della commissione di altrui reati, aspetti sui quali il Tribunale non direbbe nulla di concreto. Considerato in diritto 1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato. Esso, sorretto da passaggi argomentativi in più parti involuti e di non agevole comprensione, addita una serie di presunte contraddizioni logiche del ragionamento del Tribunale, per giungere però a sostenere che il requisito della pubblicità della condotta, stabilito dall’art. 414 cod. pen., non abbia nulla a che vedere con l’elemento psicologico, che potrebbe sussistere a prescindere . Il Tribunale, pur aderendo all’opzione ermeneutica, riflessa da risalenti pronunce di questa Corte, che configurano l’anzidetto requisito come condizione obiettiva di punibilità Sez. 1, n. 13541 del 11/06/1986, Nastri, Rv. 174485 Sez. 1, n. 4519 del 14/12/1973, dep. 1974, Zanche, Rv. 127285 , aveva purtuttavía interpretato la fattispecie, in chiave costituzionalmente orientata, nel senso che, ai fini dell’integrazione del reato dal lato soggettivo, il verificarsi della condizione fosse almeno prevedibile e prevenibile da parte dell’agente. Il motivo, accreditando in definitiva una tesi per costui meno favorevole, non è sorretto da alcun concreto interesse. In ogni caso, la questione assume un rilievo meramente astratto, perché la condotta contestata è avvenuta all’interno di luogo di culto aperto al pubblico, alla presenza dei fedeli di religione musulmana, ovvero tramite l’uso consapevole di un social media. Tali elementi formavano indubitabilmente oggetto del dolo apologetico, né il ricorrente fa questione alcuna sul punto sicché non è neppure necessario che il Collegio prenda specifica posizione sul tema della natura giuridica elemento costitutivo del reato o condizione di punibilità in seno alle fattispecie di cui all’art. 414 cod. pen 2. Manifestamente infondato risulta, altresì, il secondo motivo. Nulla di illogico vi è, in tutta evidenza, nel sostenere che le condotte apologetiche punibili siano soltanto quelle che avvengono pubblicamente ossia nei luoghi e secondo le modalità indicate nell’art. 266 cod. pen. , e nel trarre parimenti il convincimento, con riferimento al caso concreto, dell’avvenuta realizzazione di condotte così conformate sulla base di successive e distinte conversazioni private, ritualmente intercettate ed idoneamente rivelatrici dei comportamenti antecedenti. Quanto alla valenza indiziaria di tali conversazioni, basti qui il richiamo al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità da ultimo ribadito da Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263714 , per cui le dichiarazioni auto/etero-accusatorie, registrate nel corso di attività di intercettazione regolarmente autorizzate, hanno piena attitudine dimostrativa e - pur dovendo essere attentamente interpretate e valutate, come il giudice del riesame non ha mancato di fare nel caso di specie - non necessitano degli elementi di corroborazione previsti dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen 3. Infondato deve infine giudicarsi il terzo motivo. Il delitto previsto dall’art. 414 cod. pen. è reato di pericolo concreto, e l’esaltazione di un fatto di reato, o del suo autore, finalizzata a spronare altri all’imitazione, risulta punibile se, per le sue modalità, essa integri un comportamento realmente idoneo a suscitare la commissione di delitti trattasi di un accertamento riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivato Sez. 1, n. 47489 del 06/10/2015, Halili, Rv. 265264 Sez. 1, n. 25833 del 23/04/2012, Testi, Rv. 253101 Sez. 1, n. 26907 del 05/06/2001, Vencato, Rv. 219888 . A tale ragionato accertamento il Tribunale non si è sottratto, avendo l’ordinanza impugnata desunto la concreta offensività della condotta, con argomentazione non illogica, dal contesto in cui essa si era radicata, dalla platea dei suoi destinatari, dalla forza persuasiva del messaggio trasmesso e dall’interesse correlativamente suscitato, così adeguatamente illustrandone tanto in rapporto alla propaganda via social network, che a quella di tipo tradizionale in moschea - la rilevanza apologetica. 4. Segue la reiezione del ricorso e la condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali. La cancelleria curerà l’adempimento di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Manda la cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen