Querela e conflittualità tra coppia genitoriale: quando la prova degli atti persecutori non viene raggiunta

L’insanabile e comprovato contrasto con la ex convivente sull’affidamento del figlio può rappresentare quella circostanza fattuale che pone sotto il giusto riflettore le avverse accuse di stalking un caso in cui il complesso delle prove raccolte non ha dimostrato, oltre ogni ragionevole dubbio, i fatti contestati.

Un rapporto di convivenza terminato in malo modo ed una figlia contesa la vicenda risolta dalla Corte d’Appello capitolina è uno degli esempi di come, qualche volta, persone od avvocati cerchino di strumentalizzare oltre i figli, anche le norme, snaturando i fatti o piegando l’interpretazione della legge in favore dell’una o dell’altra tesi difensiva. Ma non sempre ben riuscendovi Il reato di stalking. Non pare un fuor d’opera rammentare che l'art. 612 bis c.p., a tutela della libertà morale, definisce il reato di stalking come l'insieme delle condotte reiterate di persecuzione costituite da minacce oppure da molestia nei confronti di qualcuno, tanto da cagionare a quest'ultimo un perdurante e grave stato di ansia oppure di paura o, ancora, in grado di ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva o, infine, in grado di costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita. Orbene, il fatto che il nostro ordinamento tenga in seria considerazione questo delitto viene provato, tra l'altro, dalla circostanza che il termine per la vittima di proporre querela è di ben 6 mesi, i quali iniziano a decorrere non dal fatto ma dalla consumazione del reato e, quindi, dall'evento di danno o dall'evento di pericolo costituiti, rispettivamente, nella alterazione delle abitudini di vita della vittima o nel suo perdurante stato di ansia o di paura o, alternativamente, nel fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto. Il conflitto tra ex conviventi sul diritto di visita del padre alla figlia e la querela per stalking finita in bolle di sapone. Accadeva che il Tribunale di primo grado, pur rilevando la intrinseca logicità del racconto formulato dalla persona offesa costituita parte civile, esprimeva il finale giudizio secondo cui il raffronto del detto racconto con le dichiarazioni rese degli altri testimoni non fosse pienamente soddisfacente e, dunque, inidoneo a generare un conclusivo giudizio di attendibilità. In altri termini, il primo giudice riteneva non raggiunta la prova dei fatti contestati al di là di ogni ragionevole dubbio. Per tale motivo la parte civile appellava la sentenza sostenendo che non potevano sussistere dubbi, all'esito della istruzione di primo grado, sulla sussistenza del reato in contestazione e che, pertanto, era responsabilità del giudice di primo grado il non aver tenuto in debito conto le dichiarazioni rese dalla persona offesa dal reato né i riscontri provenienti dalle altre deposizioni testimoniali nonché dalle acquisizioni documentali, tra cui i tabulati telefonici da cui emergeva che il 40% del traffico telefonico ricevuto dalla appellante provenisse dall’utenza telefonica intestata all'imputato. Ma, a fronte di tali motivi di appello, anche la Corte territoriale condivide la visione del giudice di prime cure ritenendo l’impugnativa infondata e, quindi, confermando la sentenza de qua . Tra le varie motivazioni a sostegno di tale decisione emerge la linearità del criterio di valutazione della prova testimoniale della persona offesa dal reato utilizzato dal tribunale e che correttamente risultava essere stato applicato dal giudice di primo grado tanto da pervenire anche il giudice di seconde cure ad un giudizio di insussistenza del reato di stalking per insufficienza della prova che il fatto sussista. Nello specifico, dal confronto della deposizione della persona offesa dal reato con le testimonianze di testi senz'altro affidabili ed indipendenti, come i soggetti di polizia giudiziaria, emergeva che tutte le condotte asseritamente poste in essere dall'imputato venivano realizzate in occasione dei suoi tentativi di incontro con la propria figlia. Da ciò appariva evidente che l'uomo si recava presso la casa in cui dimorava la figlia minorenne con la precisa volontà di vederla e, dunque, non con lo scopo di arrecare molestia alla madre affidataria, sua ex convivente. Dalle deposizioni di terzi, difatti, emergeva che l'uomo si arrampicava sulla finestra oppure sostava nei pressi dell'abitazione in cui dimorava la figlia per vederla o per udirne la voce. Del resto, ai dinieghi della madre della piccola di consegnare la bambina, era lo stesso imputato a rivolgersi ai carabinieri i quali, a fronte del detto diniego di consegna della minore per motivi di salute, richiedevano alla donna di giustificare con un certificato medico la malattia di cui sarebbe stata affetta la bambina ma senza ottenere mai alcun esito positivo. D'altro canto, un altro testimone della polizia giudiziaria, altamente attendibile e circostanziato nella narrazione, aveva riferito del dissidio esistente all'epoca tra gli ex conviventi a motivo dell'esercizio del diritto di visita del minorenne da parte del genitore non collocatario, il quale si recava talvolta presso il domicilio della figlia in giorni diversi da quelli stabiliti. Tuttavia, secondo la Corte territoriale non risulta ragionevole riconoscere alla inosservanza del ‘calendario di visita’ la prova dell'azione della volontà persecutoria in danno del genitore affidatario, anche considerato che non era sempre possibile per il genitore non affidatario recarsi a far visita alla figlia nei giorni lavorativi prestabiliti. Quindi, per la Corte d’Appello può dirsi certo che la inosservanza del calendario fosse foriero di liti e di eccessi verbali da ambo le parti ma non è in alcun modo provato che l’atteggiamento reattivo dell'uomo al diniego della visita settimanale con la figlia fosse volta a perseguitare o rendere la vita intollerabile alla ex convivente. Oltre a quanto sin qui detto che attiene all'elemento oggettivo del reato anche l'elemento soggettivo, integrato dal dolo generico cioè dalla volontà di porre in essere le condotte di minacce o di molestie nella consapevolezza della idoneità delle stesse a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice, non risulta integrato. Infatti, dalla istruzione dibattimentale, emergono una serie di episodi connessi tra loro dall’essere originati dalla volontà dell'uomo di esercitare, pur con modalità personalizzata e ridondante, il diritto di visita alla figlia minorenne e non ad un reale intento persecutorio in danno della ex convivente. Per tutti questi motivi, anche per la Corte d’Appello non può dirsi sufficientemente provato neppure l'elemento psicologico del reato in quanto le condotte dell'imputato risultano unicamente confinate nell'ambito del tentativo di quest'ultimo di conservare, anche se con modi dimostrativi abnormi ed insistenti, i propri contatti con la figlia. Infine, secondo il collegio a nulla rileva la prova documentale offerta dalla parte civile e consistente negli sms e nelle numerose telefonate inviate dall'imputato alla ex convivente con il pretesto di avere notizie della figlia atteso che il contesto altamente conflittuale determinatosi dopo la separazione induce ragionevolmente a ritenere la conflittualità tra gli stessi in tema del diritto di visita della minorenne ‘permanente’ e ‘non circoscritta al solo giorno previsto di vista’, a nulla rilevando – conseguentemente ai fini della prova la non concomitanza dei messaggi o delle telefonate con i giorni di visita dell'uomo.

Corte d’Appello di Roma, sez. I Penale, sentenza 19 – 30 gennaio 2018, n. 537 Presidente Neri