L’istinto materno non è un futile motivo: esclusa l’aggravante del reato di tentato omicidio

In tema di aggravanti del reato il giudice nell’indagine per il riconoscimento dei futili motivi deve preliminarmente occuparsi dell’identificazione in concreto della natura e della portata della ragione giustificatrice della condotta delittuosa, quale unico indice dell’istinto criminale più spiccato e di elevato grado di pericolosità dell’agente .

Lo ha ribadito la Cassazione con sentenza n. 16518/18, depositata il 13 aprile. Il fatto. Il GIP, a seguito di giudizio abbreviato, condannava l’imputata per il reato di tentato omicidio, ritenendo che la condotta dall’imputata doveva ritenersi aggravata dalla premeditazione e dai futili motivi, questi ultimi identificati nella volontà della condannata di ostacolare la relazione che la vittima intratteneva con la propria figlia. I motivi che avevano spinto l’imputata al delitto, la quale non accettava la relazione della figlia, potevano riassumersi nella notevole differenza di età tra la figlia e la vittima e nel precedente divorzio dell’uomo. La Corte d’Appello, adita in secondo grado, riformava parzialmente la decisione di prime ridimensionando la pena di giustizia e confermando la condanna dell’imputata. In particolare la Corte territoriale sosteneva che in relazione ai futili motivi doveva evidenziarsi che l’istinto materno di tutelare la propria figlia da una dannosa” relazione sentimentale non attenuava l’elaborazione di una condotta delittuosa caratterizzata da estrema gravità, essendo, anzi, tale atteggiamento identificativo di un costume mentale incline a porsi al di sopra delle regolare giuridiche e civili che presiedano la pacifica convivenza . Contro la decisione di merito ricorre per cassazione l’imputata. Futili motivi e condivisiblità morale. Con il secondo motivo di ricorso l’imputata si duole della mancata esclusione dell’aggravante dei futili motivi, lamentando che la sentenza impugnata non prende debitamente in considerazione gli argomenti difensivi in relazione al contesto familiare ed emotivo ed al ruolo di madre dell’imputata stessa. Il Supremo Collegio ha ritenuto fondando il motivo di ricorso. In particolare la Corte ha ribadito che la futilità del motivo trae origine dal rapporto di enorme sproporzione tra movente ed azione e prescinde necessariamente da ogni considerazione sulla natura più o meno apprezzabile del primo, poiché, ove tale enorme sproporzione sussista, il motivo si presenta non più come causa determinante della condotta, ma soltanto come presupposto meramente occasionale, del quale il reo abbia inteso profittare per dare libero sfogo al suo istinto sanguinario . Ciò posto la Corte ha precisato che recentemente la giurisprudenza di legittimità si è espressa nel ritenere che l’indagine del giudice per il riconoscimento dei futili motivi deve presupporre la necessaria identificazione della natura e della portata concreta della ragione che giustificherebbe la condotta delittuosa, quale unico indice dell’istinto criminale più spiccato e di elevato grado di pericolosità dell’agente, con conseguente negazione dell’esistenza di un movente tale da costituire, a prescindere dalla sua condivisibilità o meno, una spinta a commettere il reato Cass. n. 18779/183 . L’istinto materno non è un futile motivo. Da quanto emerge dalla valutazione della Corte di Cassazione, nella fattispecie in esame, la Corte d’Appello non ha fatto corretta applicazione dei richiamati principi nel negare esclusione dell’aggravante dei futili motivi. Infatti, secondo la Suprema Corte, dagli atti emerge che, prescindendo dalla condivisibilità morale, dietro il delitto esiste un movente non avente le caratteristiche del futile motivo, stante il contesto familiare ed emotivo nel quale il fatto è maturato. Per queste ragioni la Cassazione ha annullato la sentenza impugnata limitatamente alla circostanza aggravante di cui all’art. 61, comma 1, n. 1, c.p., che esclude, e rinvia alla Corte d’Appello per un nuovo giudizio sul conseguente trattamento sanzionatorio.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 4 dicembre 2017 – 13 aprile 2018, numero 16518 Presidente Mazzei – Relatore Cocomello Ritenuto in fatto 1. Il Gip del Tribunale di Vibo Valentia, a seguito di giudizio abbreviato, condannava C.C. alla pena di 5 anni di reclusione e 1.2000 Euro di multa, per i reati di cui agli artt. 56, 575, 577, nnumero 3 e 4, cod. penumero , artt. 4 e 7 legge numero 895 del 1967 e articolo 61 numero 2 cod. penumero , riconosciuta l’attenuante del risarcimento del danno alla persona offesa e le circostanze generiche, prevalenti sulle contestate aggravanti, della premeditazione e dei futili motivi. La sentenza affermava la penale responsabilità di C.C. per il reato di tentato omicidio di L.D. , mediante l’esplosione di numerosi colpi di arma da fuoco che attingevano la vittima in varie parti del corpo, provocando alla stessa lesioni gravi, con conseguente indebolimento della funzione masticatoria e di quella di protezione e di contenimento della parete addominale, alle quali non faceva seguito la morte solo grazie alla tempestività del soccorso e degli interventi chirurgici praticati nell’immediatezza del fatto. La condotta dell’imputata, secondo la sentenza, doveva ritenersi aggravata dalla premeditazione e dai futili motivi, questi ultimi individuati nella volontà della C. di osteggiare la relazione sentimentale che la vittima intratteneva con la propria figlia, in ragione della notevole differenza di età esistente tra i due e del precedente divorzio dell’uomo. 2. La Corte di Appello di Catanzaro, a seguito dell’impugnazione proposta dall’imputata, confermava la sentenza di primo grado in punto di riconoscimento della responsabilità e riformava, invece, il trattamento sanzionatorio, ritenendo di poter mitigare la pena in considerazione del parametro, di cui all’articolo 133 cod. proc. penumero , dell’oggettiva gravità del reato, da valutarsi nel particolare contesto emotivo e familiare in cui il fatto era inserito, quantificando la pena in 4 anni di reclusione. In particolare il Giudice di appello giungeva al più mite trattamento sanzionatorio così determinandolo pena base, per il reato di tentato omicidio aggravato di cui al capo a , anni 7 di reclusione, ridotta, in misura non corrispondente ad un terzo - per la concessione delle circostanze attenuanti generiche. ritenute prevalenti sulle contestate aggravanti - ad anni 5 e mesi 6 di reclusione, aumentata per la continuazione ad anni 6 di reclusione ed, ulteriormente, ridotta di un terzo per la scelta del rito. Nel calcolo non era considerata l’attenuante di cui all’articolo 62 numero 6 c.p., pur riconosciuta nella sentenza di primo grado. 2.1 Riguardo alla conferma della responsabilità dell’imputata in relazione al reato di tentato omicidio, la Corte di Appello evidenziava la correttezza della qualificazione giuridica del fatto, ed in particolare la sussistenza del dolo omicidiario, deducibile dalla reiterazione dei colpi esplosi tra i tanti, ben sei attingevano la vittima , dalla direzione degli stessi verso organi vitali, dalla pericolosità del mezzo usato e dalla perdita di controllo da parte dell’imputata. A sostegno della sussistenza dell’aggravante della premeditazione, invece, il provvedimento poneva in rilievo l’accurata predisposizione delle modalità e dei mezzi per l’esecuzione del delitto da parte dell’imputata, la quale si era procurata un’arma e l’aveva, illegittimamente, portata con sé presso il Conservatorio di omissis , luogo ove sapeva, con ogni probabilità, di incontrare la vittima. Riguardo alla sussistenza dell’aggravante dei futili motivi il provvedimento impugnato evidenziava la sproporzione tra il movente e l’azione delittuosa, sostenendo che l’istinto materno di tutelare la propria figlia da una dannosa relazione sentimentale non attenuava l’elaborazione di una condotta delittuosa caratterizzata da estrema gravità, essendo, anzi, tale atteggiamento identificativo di un costume mentale incline a porsi al di sopra delle regole giuridiche e civili che presidiano la pacifica convivenza . 3. Avverso il suddetto provvedimento propone ricorso per Cassazione C.C. , per il tramite del suo difensore, formulando tre motivi di ricorso. Con il primo motivo la difesa dell’imputata denuncia violazione del divieto di reformatio in peius in quanto, in presenza di appello del solo imputato, il giudice, seppur partendo da una pena base inferiore e giungendo ad una pena finale inferiore di quella inflitta in primo grado, negava, escludendola dalla motivazione, l’attenuante di cui all’articolo 62 numero 6 c.p., concedendo in misura prevalente alle aggravanti contestate, le sole circostanze generiche. La difesa della ricorrente, si doleva della violazione del divieto di reformatio in peius, rilevando che detto divieto riguarda tutti gli elementi di calcolo della pena e non soltanto la pena finale ed evidenziando, altresì, che la circostanza del risarcimento del danno, una volta concessa in primo grado, acquista carattere oggettivo e non può essere disconosciuta senza adeguata motivazione da parte del Giudice di appello che, nel caso di specie, aveva omesso, tra l’altro, ogni motivazione sul punto. Con il secondo motivo la ricorrente si duole della mancata esclusione dell’aggravante dei futili motivi, già oggetto delle censure mosse con i motivi di appello, lamentando l’inadeguatezza della motivazione della sentenza sul punto, che non considerava gli argomenti difensivi volti a valorizzare il contesto, familiare ed emotivo, in cui il reato era maturato, nonché il ruolo di madre rivestito dall’imputata. Con il terzo motivo la difesa si duole della mancata esclusione da parte del Giudice di appello dell’aggravante della premeditazione ed, altresì, dell’omesso riconoscimento., del dolo d’impeto emergente dai rilievi investigativi, i quali comprovano, in tesi, che l’imputata non sapeva di incontrare la vittima nei luoghi teatro della vicenda e che, pertanto, del tutto ingiustificatamente, la motivazione del provvedimento impugnato fa decorrere il lasso di tempo, giustificativo delle ritenuta premeditazione, dal momento dell’apprensione dell’arma da parte dell’imputata. Considerato in diritto 1. Il ricorso è parzialmente fondato, nei limiti e nei termini che seguono. 2. Il Collegio rileva, preliminarmente, la fondatezza del secondo motivo di ricorso relativo alla mancata esclusione, invocata dalla difesa del ricorrente, della circostanza aggravante dei futili motivi. 2.1 La giurisprudenza di legittimità sulla individuazione dei presupposti per la sussistenza dell’aggravante del futile motivo, ha subito, nel tempo, un’evoluzione, spostando il fulcro della valutazione del giudice, dal mero apprezzamento della sproporzione tra azione delittuosa e movente, alla necessità di considerare il movente medesimo alla luce dell’intero contesto, emotivo e culturale, in cui l’azione criminosa è maturata, al fine di verificare se esso possa comunque ritenersi idoneo a costituire una spinta verso la perpetrazione dell’azione delittuosa. Secondo la giurisprudenza più risalente, infatti, la futilità del motivo trae origine dal rapporto di enorme sproporzione tra movente ed azione e prescinde necessariamente da ogni considerazione sulla natura più o meno apprezzabile del primo, poiché, ove tale enorme sproporzione sussista, il motivo si presenta non più come causa determinante della condotta, ma soltanto come presupposto meramente occasionale, del quale il reo abbia inteso profittare per dare libero sfogo al suo istinto sanguinario Sez. 1, numero 1656 del 24/11/1967, rv. 107163 Sez. 1, numero 120 del 23/01/1970, rv. 114803 Sez. 1, numero 513 del 11/03/1974, rv. 129067 . Deve, tuttavia, rilevarsi che la giurisprudenza di legittimità più recente - pur ribadendo che la circostanza aggravante dei futili motivi sussiste ove la determinazione criminosa sia stata indotta da uno stimolo esterno di tale levità, banalità e sproporzione, rispetto alla gravità del reato, da apparire, assolutamente insufficiente a provocare l’azione criminosa, tanto da potersi considerare, più che una causa determinante dell’evento, un mero pretesto per lo sfogo di un impulso violento - ha, più volte, precisato che il giudizio sui motivi abietti o futili, che integrano la circostanza aggravante di cui all’articolo 61, comma 1, numero 1, cod. penumero , non può essere riferito ad un comportamento medio, attesa la difficoltà di definire i contorni di un simile astratto modello di agire, ma va ancorato agli elementi concreti, tenendo conto delle connotazioni culturali del soggetto giudicato, del contesto sociale, del particolare momento e delle condizioni in cui il fatto si è verificato, nonché dei fattori ambientali che possono avere condizionato la condotta criminosa. Per valutare la futilità del motivo, pertanto, deve tenersi conto non solo della coscienza collettiva, ma anche dell’ambiente in cui il reo vive ed opera, dovendosi indagare se, in relazione all’una ed all’altro, il movente possa considerarsi come un pretesto per lo sfogo degli istinti delittuosi o sia tale da realizzare, invece, una sufficiente spinta al reato Sez. 5, numero 36892 del 21/04/2017 rv.270804 Sez. 6, numero 28111 del 02/07/2012, rv. 253033 Sez.ò1, numero 42846 del 18/11/2010, rv. 249010 . Alla luce dei suddetti principi, quindi, deve ritenersi che l’indagine da parte del giudice ai fini del riconoscimento della futilità del motivo, presuppone, preliminarmente, la necessaria identificazione, in concreto della natura e della portata della ragione giustificatrice della condotta delittuosa, quale univoco indice di un istinto criminale più spiccato e di un elevato grado di pericolosità dell’agente Sez. 1, numero 18779 del 27/03/2013, rv. 256015 , con conseguente negazione dell’esistenza di un movente tale da costituire, a prescindere dalla sua condivisibilità o meno, una spinta a commettere il reato. La Corte di Appello non fa buon governo dei suddetti principi laddove incentra la motivazione della negata esclusione della citata aggravante sull’aspetto della sproporzione tra motivi dell’azione ed entità del fatto, operando una motivazione, in parte apodittica, sulla sproporzione medesima essendo ovvio che l’istinto di proteggere da un pericolo la propria figlia deve ritenersi sproporzionato rispetto alla condotta lesiva dell’incolumità personale della vittima , ignorando, invece, gli elementi sollecitati dalla difesa circa la necessità di considerare le condizioni dell’imputata, madre di una ragazza molto giovane che la stessa riteneva essere in pericolo, sia in ragione della relazione sentimentale intrattenuta dalla stessa con un uomo, divorziato, molto più grande di lei, sia per la probabile reazione dell’uomo a seguito della decisione di interrompere la relazione medesima. Ritiene il Collegio che, nel caso di specie, dietro l’azione delittuosa esista un movente - chiaramente ricostruito e riconosciuto nella stessa sentenza impugnata e nel provvedimento di primo grado - che, a prescindere dalla sua condivisibilità dal punto di vista morale, non possiede quelle caratteristiche di futilità individuate dalla più recente giurisprudenza, dovendosi ritenere che, il contesto familiare ed emotivo in cui il fatto è maturato, non consente né di escludere che quel movente abbia rappresentato la spinta a commettere il reato, né, ancor più, di affermare che lo stesso sia stato un mero pretesto per lo sfogo di un istinto violento, indice di un elevato grado di pericolosità dell’agente. 3. Infondato è, invece, il motivo di ricorso relativo all’omessa esclusione dell’aggravante della premeditazione ed al mancato riconoscimento del dolo d’impeto, in quanto, a fronte di una motivazione logica, completa ed adeguata del provvedimento impugnato, che individua i singoli elementi indicativi della preordinazione del delitto e della incompatibilità degli stessi con una volizione d’impeto, il ricorrente si limita, ricalcando i motivi di appello, a confutare le ragioni del provvedimento, senza tuttavia individuarne vizi sindacabili nella presente sede di legittimità. 4. Il Collegio rileva, infine, l’infondatezza del motivo di ricorso concernente la violazione del divieto di reformatio in peius, nei termini prospettati dalla difesa. Invero non emerge, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, alcuna violazione dell’articolo 597 cod. proc.penumero , avendo il giudice di appello proceduto alla riduzione non solo della pena finale, ma anche di tutti gli altri elementi di calcolo e determinazione della stessa, avendo applicato una pena base inferiore a quella individuata dal giudice di primo grado ed avendo espresso un giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle contestate aggravanti. Ritiene, piuttosto, il Collegio, concordando con il rilievo effettuato dalla difesa del ricorrente, che nella parte motiva riguardante la rideterminazione in mitior del trattamento sanzionatorio, il Giudice di appello ha omesso di indicare, espressamente, una riduzione della pena anche in relazione alla circostanza attenuante del risarcimento del danno in favore della persona offesa, riconosciuta dal giudice di primo grado, e che, pertanto, anche di tale rilievo il giudice dovrà tenere conto in sede di rinvio per nuovo giudizio sul trattamento sanzionatorio. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata, limitatamente alla circostanza aggravante di cui all’articolo 61, comma 1, numero 1 cod. penumero , che esclude, e rinvia per nuovo giudizio sul conseguente trattamento sanzionatorio ad altra sezione della Corte di Appello di Catanzaro.