Minacce al debitore per ottenere la soddisfazione del credito: è estorsione

Integra il reato di estorsione - e non di esercizio arbitrario delle proprie ragioni - la condotta del creditore che costringa, con minaccia, il debitore a vendere l’immobile in cui abita per soddisfarsi sul ricavato della vendita.

Lo ha affermato la Corte di legittimità con la sentenza n. 14160/18, depositata il 27 marzo. Il fatto. Il Tribunale del riesame di Caltanissetta confermava l’applicazione della misura della custodia in carcere applicata ad un soggetto imputato per associazione di tipo mafioso ed estorsione. Avverso tale pronuncia ricorre in Cassazione la difesa deducendo, per quanto d’interesse, l’insussistenza del reato di estorsione art. 629 c.p. posto che la sua condotta era inquadrabile nell’ambito del mero esercizio arbitrario delle proprie ragioni essendo la persona offesa debitore dell’imputato. Estorsione o esercizio arbitrario delle proprie ragioni? Ripercorrendo i termini della vicenda, la Corte sottolinea che l’imputato aveva costretto con minaccia la persona offesa, nonché suo debitore, a vendere l’immobile in cui abitava al fine di soddisfare il proprio credito sul prezzo ricavato dalla vendita in quanto le difficili condizioni economiche impedivano al debitore di adempiere spontaneamente all’obbligazione. Al fine di valutare la possibilità di qualificare la condotta in termini di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la Corte s’interroga sulla possibilità, per il ricorrente, di ottenere il medesimo risultato facendo ricorso al giudice civile. E la risposta, ovviamente ed intuitivamente , è negativa. Il ricorrente sicuramente avrebbe potuto ottenere dal giudice civile un titolo esecutivo da far valere nei confronti del debitore ma mai avrebbe ottenuto la vendita coattiva dell’abitazione di quest’ultimo. Concludendo, il ricorso viene rigettato dagli Ermellini che affermano il principio secondo cui il creditore che costringa, con minaccia, il proprio debitore a vendere l’immobile in cui abita per soddisfarsi sul ricavato della vendita del credito che vanta, commette reato di estorsione e non di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in quanto non avrebbe potuto ricorrere al giudice al fine di ottenere direttamente la vendita coattiva del bene del debitore insolvente .

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 6 – 27 marzo 2018, n. 14160 Presidente Gallo – Relatore Rago Ritenuto in fatto 1. P.R. - a mezzo del proprio difensore - ha proposto ricorso per cassazione contro l’ordinanza in epigrafe con la quale il Tribunale del riesame di Caltanissetta aveva confermato l’ordinanza con la quale, in data 22/09/2017, il giudice delle indagini preliminari del medesimo Tribunale, gli aveva applicato la misura della custodia cautelare in carcere per i delitti di cui agli artt. 416 bis e 629 cod. pen. aggravato dall’art. 7 L. 203/1991. La difesa del ricorrente ha dedotto 1.1. la violazione dell’art. 416 bis cod. pen. in quanto il Tribunale non aveva evidenziato quale fosse il contributo che il ricorrente aveva fornito all’associazione criminale, essendo irrilevanti le semplici frequentazioni per parentela, affetti, comune estrazione ambientale o sociale per amicizia 1.2. la violazione dell’art. 629 cod. pen. in quanto, nella condotta addebitatagli era ravvisabile un semplice esercizio arbitrario delle proprie ragioni essendo il ricorrente pacificamente creditore della persona offesa. Considerato in diritto 1. LA VIOLAZIONE DELL’ART. 416 BIS COD. PEN. La censura è manifestamente infondata. Dall’ordinanza impugnata, risulta che l’imprenditore P. , insieme a tale S.A.S. , operante nel bresciano nel settore immobiliare, è stato incolpato di far parte dell’associazione mafiosa facente capo alla famiglia dei R. la cui reggenza era stata affidata a R.S. , per avere offerto ogni utile supporto per favorire l’infiltrazione nel tessuto economico legale di attività mafiosa in grado di alterare le regole della concorrenza di mercato, assicurando al reggente gli spostamenti logistici sul territorio in condizioni di sicurezza , nonché attivandosi per il compimento delle molteplici attività illecite di pertinenza dell’organizzazione mafiosa, come la riscossione di crediti con modalità estorsive . Tale affermazione è stata provata cfr § 3 dell’ordinanza impugnata attraverso a i contatti tra R.S. ed il ricorrente b il finanziamento del sodalizio mafioso da parte, del ricorrente c l’interessamento di R.S. alla riscossione del credito vantato dal ricorrente e di cui al capo d’incolpazione per l’estorsione d la consapevolezza del ricorrente di far parte del sodalizio mafioso diretto da R.S. il tribunale, infatti, spiega che socio del P. era tale S. già condannato per concorso esterno in associazione mafiosa del quale, essendo stretto collaboratore e socio di fatto, era al corrente di tutto ciò che riguardava la gestione dell’impresa e il rapporto con il boss . Ognuno dei suddetti capitoli è suffragato da precisi indizi indicati, di volta in volta, dal tribunale e consistenti, sostanzialmente, nel contenuto di intercettazioni e di servizi di osservazione. Alla stregua dei suddetti indizi - puntualmente indicati e valutati - il tribunale ha quindi concluso che il P. doveva ritenersi stabilmente compenetrato nel sodalizio non essendo emerso un unico o comunque sporadici interventi in favore del solo boss, ma una vera e propria messa a disposizione si pensi alla sistematica spartizione degli utili e alla partecipazione a riunioni anche con mafiosi di altri mandamenti per ricevere in cambio quell’intermediazione necessaria a sfruttare il metodo mafioso nell’esercizio dell’attività imprenditoriale, che di fatto sia il P. che il S. gestivano sotto la direzione del R. , in un’ottica di reciproco supporto funzionale all’infiltrazione di Cosa Nostra nel tessuto economico . Su tutto il coacervo di indizi evidenziati dal tribunale, la difesa del ricorrente, in pratica, nulla ha obiettato, essendosi solo limitata ad invocare notorie massime giurisprudenziali in ordine agli elementi ritenuti necessari per ritenere provata la partecipazione di un soggetto ad un’associazione per delinquere, ma senza spiegare per quali ragioni, nella concreta situazione fattuale evidenziata dal tribunale, quella giurisprudenza dovesse applicarsi anche al ricorrente, benché raggiunto da una molteplicità di univoci indizi che lo indicavano come partecipe, in modo stabile, dell’associazione criminale e con quel ben determinato ruolo descritto nel capo d’incolpazione. La censura, quindi, essendo del tutto generica ed aspecifica, va ritenuta manifestamente infondata. 2. LA VIOLAZIONE DELL’ART. 629 COD. PEN. La censura è infondata. In punto di fatto, la complessa vicenda per la quale il ricorrente è stato incolpato del delitto di estorsione aggravata in danno di tale M.A. , può essere sintetizzata nei seguenti termini il ricorrente era pacificamente creditore di una somma di denaro nei confronti del suddetto M. , somma che, però, costui, trovandosi in difficoltà economiche, non aveva la possibilità di restituire. Fu allora che il ricorrente, insieme al R. , costrinsero - con minacce - il M. a vendere l’immobile nel quale abitava di sua proprietà benché fittiziamente intestato ad un terzo per soddisfarsi del credito vantato sul prezzo ricavato alla vendita. Il tribunale ha ritenuto che, nella fattispecie, fosse configurabile il delitto di estorsione perché, nella vicenda, era intervenuto - per fini propri, trascendendo l’interesse del soggetto realmente interessato - il R. , ossia un terzo privo di legittimazione. La difesa del ricorrente, ha ribattuto che, essendo pacifico che il P. era creditore del M. , la condotta contestata avrebbe dovuto essere sussunta nel paradigma di cui all’art. 393 cod. pen. in quanto tendente solo al soddisfacimento di un credito sebbene con modalità violente e/o minacciose. Alla stregua della pacifica ricostruzione in punto di fatto effettuata dal tribunale e non contestata neppure dalla difesa del ricorrente, deve ritenersi corretta - sebbene con diversa motivazione - la qualificazione giuridica data dal tribunale. Infatti, il punto dirimente per valutare se il suddetto fatto possa o no essere qualificato come esercizio arbitrario delle proprie ragioni consiste nel verificare se il P. avrebbe potuto ottenere lo stesso risultato della condotta violenta vendita dell’immobile al fine di soddisfarsi sul ricavato facendo ricorso al giudice civile. La risposta, ovviamente ed intuitivamente, non può che essere negativa il P. , infatti, sicuramente avrebbe potuto rivolgersi al giudice civile per farsi riconoscere il credito vantato e, quindi, ottenere un titolo esecutivo da far valere nei confronti del M. . Ma, è altrettanto sicuro che non avrebbe mai potuto adire il giudice civile al fine di ottenere direttamente la vendita coattiva del bene del debitore insolvente al fine di soddisfarsi sul ricavato della vendita. La censura va quindi disattesa alla stregua del seguente principio di diritto il creditore che costringa, con minaccia, il proprio debitore a vendere l’immobile in cui abita per soddisfarsi sul ricavato della vendita del credito che vanta, commette il reato di estorsione e non di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in quanto non avrebbe potuto ricorre al giudice al fine di ottenere direttamente la vendita coattiva del bene del debitore insolvente . 3. In conclusione, l’impugnazione deve rigettarsi con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94/1-ter disp. att. cod. proc. pen.