Compensazione “fai da te”: avvocato condannato per appropriazione indebita

In tema di appropriazione indebita, la Corte ribadisce il costante orientamento giurisprudenziale secondo cui non trova applicazione il principio della compensazione allorché si tratti di crediti non certi, né liquidi ed esigibili.

Lo hanno affermato i Giudici di legittimità con la sentenza n. 10977/18, depositata il 12 marzo. La vicenda. La Corte d’Appello di Bologna condannava l’imputato per appropriazione indebita poiché egli, in qualità di avvocato e patrocinatore legale di una S.r.l., aveva provveduto a riscuotere personalmente una somma di denaro da un debitore della società trattenendola per sé. Avverso la sentenza di seconde cure propone ricorso per cassazione l’imputato deducendo l’insussistenza dell’elemento soggettivo del reato e dell’ animus possidenti . Deduce il ricorrente che nessuna richiesta di versamento della somma gli era stata rivolta dagli amministratori della società prima della querela, conclusione del sorgere di evidenti incomprensioni al riguardo. Sul punto il ricorso è inammissibile in quanto si limita a riproporre questioni di merito già sollevate dinanzi alla Corte d’Appello che correttamente, in fatto e in diritto, ha ricostruito la vicenda. Crediti professionali. Gli Ermellini escludono poi la fondatezza del ricorso in ordine all’insussistenza del reato per la presenza di crediti professionali del difensore, peraltro negati dalla Società. Precisano inoltre che, anche nel caso in cui sussistessero eventuali crediti professionali, la giurisprudenza nega l’operatività, nel reato di appropriazione indebita, del principio della compensazioni allorché si tratti di crediti non certi, né liquidi ed esigibili. Nella fattispecie infatti il ricorrente richiama solo vagamente delle voci di credito in maniera del tutto incerta, rendendone evidente l’assenza del requisiti della liquidità ed esigibilità. In conclusione il ricorso viene dichiarato inammissibile e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 12 dicembre 2017 – 12 marzo 2018, n. 10977 Presidente Prestipino – Relatore Filippini Ritenuto in fatto 1. Con sentenza in data 21/4/2017, la Corte di appello di Bologna confermava la sentenza del Tribunale di Rimini del 19/5/2015, che aveva condannato P.M. alla pena ritenuta di giustizia per il reato di cui all’art. 646 cod. pen Alla stregua della ricostruzione del fatto contenuta nella sentenza impugnata, l’avv. P. , in qualità di patrocinatore legale della Oltremare s.r.l., ha provveduto a riscuotere direttamente, dalla società Sinergy Travel Team di , debitrice della propria cliente, la somma di Euro 10.571,06, trattenendola per sé senza più restituirla alla Oltremare. 1.1. La Corte territoriale respingeva le censure mosse con l’atto d’appello, in punto di riconosciuta responsabilità dell’imputato in ordine al reato allo stesso ascritto e di trattamento sanzionatorio irrogato. La Corte, considerando che lo stesso imputato aveva escluso di aver trattenuto le somme a titolo di compensazione di propri crediti professionali, ravvisava la presenza degli elementi costitutivi del reato ascritto nel fatto che le somme erano state richieste al debitore indicando le coordinate bancarie dell’imputato come modalità di pagamento e, una volta incassate, non erano state giate alla effettiva titolare del credito peraltro, la procedura seguita nel caso di specie era diversa da quella ordinariamente seguita dal difensore per la riscossione dei crediti dei clienti che normalmente avveniva mediante assegno del debitore intestato al creditore comunque, gli importi di causa non erano più stati restituiti alla Oltremare. 2. Avverso tale sentenza propone ricorso l’imputato per mezzo del suo difensore di fiducia, sollevando i seguenti motivi 2.1. violazione di legge e vizio della motivazione in relazione all’art. 646 cod.pen. per essere insussistente la dimostrazione della presenza dell’elemento soggettivo del reato e dell’animus possidenti, essendo del tutto congetturale il ragionamento che da alcuni elementi del fatto quali la richiesta di versare il corrispettivo direttamente allo studio legale o l’indicazione dell’IBAN del difensore, aspetti comunque contestati dal ricorrente desume la prova del dolo, mancando anzi dimostrazione dell’animus possidenti infatti, nella fattispecie non vi è stata, prima della proposizione della querela, alcuna richiesta di restituzione delle somme incassate da parte della Oltremare. L’imputato era semplicemente in attesa delle istruzioni degli amministratori della propria cliente S. e St. , tra i quali, a seguito degli avvicendamenti che si sono verificati, sono evidentemente insorte incomprensioni al riguardo. 2.2. violazione di legge e vizio della motivazione in relazione al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche per la minima intensità del dolo. Considerato in diritto Il ricorso è inammissibile in quanto basato su motivi manifestamente infondati o comunque non consentiti. 1. Quanto agli argomenti contenuti nel primo motivo, essi si rivelano meramente reiterativi delle analoghe questioni proposte con i motivi di appello e rispetto alle quali la motivazione della sentenza impugnata risulta puntuale in fatto e corretta in diritto. Trattasi comunque di valutazioni di merito, che sono insindacabili nel giudizio di legittimità, quando il metodo di valutazione delle prove sia conforme ai principi giurisprudenziali e l’argomentare scevro da vizi logici, come nel caso di specie Sez. U., n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794 Sez. U., n. 12 del 31.5.2000, Sakani, Rv. 216260 Sez. U. n. 47289 del 24.9.2003, Petrella, Rv. 226074 . E così, segnatamente, la Corte territoriale, dopo aver ribadito che, sotto il profilo materiale, non era dubbia la circostanza secondo la quale l’avvocato P. ha incassato sul proprio conto corrente quanto la debitrice Sinergy Travel doveva alla Oltremare, senza poi girare il denaro a quest’ultima, quanto all’elemento soggettivo del dolo necessario alla integrazione del reato ascritto, dà, adeguatamente, atto del vaglio degli elementi indiziari dai quali ne ha univocamente desunto la presenza, indicando, oltre al fatto che la tesi difensiva autorizzazione verbalmente data dall’amministratore di Oltremare, S. , di trattenere le somme in attesa che i nuovi vertici societari verificassero i conti del dare/avere tra la società ed il P. è stata seccamente smentita proprio dalla presunta fonte il S. , numerosi ulteriori elementi sintomatici, quali la circostanza che il pagamento era stato richiesto con lettera nella quale si invitava al pagamento direttamente allo scrivente Studio indicando allo scopo i dati dell’IBAN dell’avv. P. , che trattavasi di procedura del tutto anomala rispetto alla prassi corrente per casi analoghi e che comunque il denaro non era stato mai più restituito alla Oltremare. Come correttamente rilevato dalla Corte territoriale, l’imputato non ha fornito spiegazioni attendibili e riscontrate rispetto a nessuno di questi elementi. Né dubbi possono giustificarsi in relazione alla eventuale presenza di crediti professionali del difensore, peraltro negati dalla Oltremare. Infatti, quand’anche sussistessero eventuali crediti professionali, secondo la condivisa giurisprudenza di questa Corte Sez. 2, n. 293 del 04/12/2013, Rv. 257317 , nel reato di appropriazione indebita non opera il principio della compensazione con credito preesistente, allorché si tratti di crediti non certi, né liquidi ed esigibili. E i crediti di cui nella fattispecie si è vagamente parlato erano tutti incerti, illiquidi e contestati. Si consideri, inoltre, che la richiamata affermazione giurisprudenziale è stata resa in analoga fattispecie nella quale si è ritenuto configurabile il reato in questione nei confronti di un avvocato che aveva riscosso alcuni titoli di pagamento emessi in favore del proprio assistito e poi trattenuto le relative somme a compensazione di crediti professionali maturati nei confronti del cliente, che, però, ne contestava l’esistenza. 2. Quanto al secondo motivo, relativo alle attenuanti generiche, parimenti deve rilevarsi la manifesta infondatezza. Invero, nella sentenza impugnata si giustifica il diniego per l’assenza di elementi valutabili allo scopo, trattandosi di fatto che non presenta i caratteri della scarsa gravità, la somma non è trascurabile e non è mai stata restituita, il fatto è avvenuto abusando di relazioni professionali. Dunque ci si trova in presenza di motivazione effettiva e per nulla illogica. Inoltre, secondo consolidata giurisprudenza di legittimità, condivisa dal Collegio, il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente giustificato con l’assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la modifica dell’art. 62 bis, disposta con il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modifiche nella legge 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente non è più sufficiente lo stato di incensuratezza dell’imputato Sez. 3, n. 44071 del 25/09/2014, Rv. 260610 . Si deve dunque concludere nel senso indicato. 3. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue, ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., la condanna dell’imputato che lo ha proposto al pagamento delle spese del procedimento, nonché - ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità - al pagamento a favore della Cassa delle ammende di una somma che, alla luce del dictum della Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000, sussistendo profili di colpa, si stima equo determinare in Euro 2.000,00. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.