La Consulta eleva a 4 anni il limite di automatica sospensione dell’ordine di esecuzione (allineandolo all’affidamento allargato)

L’art. 656, comma 5, c.p.p. va dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui si prevede che il pubblico ministero sospende l’esecuzione della pena detentiva, anche se costituente residuo di maggior pena, non superiore a 3 anni, anziché a 4 anni.

Come al solito, la Corte Costituzionale ha anticipato il legislatore, stavolta per eliminare una delle discrasie più irragionevoli e che incidevano profondamente in materia di libertà personale del condannato. Si ci riferisce a tutti quei casi in cui il soggetto debba scontare una pena, anche residua, superiore ai 3 anni e non superiore ai 4 anni. In questi casi l’ordine di esecuzione della pena detentiva andava sospeso? L’orientamento di gran lunga maggioritario delle Procure italiane rispondeva negativamente costringendo i difensori a proporre incidenti di esecuzione in cui si lamentava la mancata sospensione dell’ordine esecutivi di una pena da scontare ricompresa nel perimetro dai 3 ai 4 anni sollecitando richieste subordinate di questione di legittimità costituzionale . I cui esiti, come vedremo, erano tra i più incerti e variegati. La norma censurata. Ma partiamo dal quadro normativo. L’art. 656, comma 5, c.p.p. stabilisce che il pubblico ministero, salvo quanto previsto dai commi 7 e 9, se la pena detentiva, anche costituente residuo di maggior pena, non è superiore a 3 anni, ad anni 4 nel caso di detenzione domiciliare speciale, oppure a 6 nei casi di reati di droga, ne sospende l’esecuzione. L’adozione del provvedimento di sospensione costituisce un obbligo per il pubblico ministero da assolvere previo calcolo di tipo aritmetico-formale scevro da valutazioni discrezionali , esteso a tutte le pene detentive contenute entro la soglia quantitativa prevista, con contestuale avviso all’interessato della facoltà di presentare al Tribunale di sorveglianza l’istanza volta alla concessione di una misura alternativa alla detenzione. Il disallineamento sistematico con l’affidamento allargato. Tale norma non risulta coordinata con l’art. 47, comma 3- bis , ord. penit., in ordine all’individuazione del limite massimo di pena per accedere all’affidamento in prova al servizio sociale, elevato a 4 anni dal d.l. n. 146/2013 sullo svuota carceri, convertito dalla l. n. 10/2014 in particolare, il condannato, anche in stato di libertà, a pena residua non superiore ai 4 anni, che abbia serbato, quantomeno nell’anno precedente alla presentazione della richiesta, un comportamento positivamente valutabile, è ammesso all’affidamento in prova c.d. allargato invece, ai fini della sospensione dell’ordine di esecuzione, si è mantenuta inalterata la soglia di anni 3. L’allineamento percorso dalla Cassazione. In seno alla Prima Sezione della giurisprudenza di legittimità si è sviluppato un orientamento secondo il quale l’entità della sanzione prevista in astratto per la sospensione dell’esecuzione deve essere quello della pena, anche residua, non superiore a 4 anni quando la sospensione sia richiesta ai sensi dell’art. 47, comma 3- bis , ord. penit., ossia in dipendenza di una istanza di affidamento in prova Sez. I, nn. 39889/17 21667, 37848 e 51864 del 2016 . Anche se vi è stato un omesso adeguamento del limite quantitativo di pena previsto per l’ordine di sospensione ex art. 656, comma 5, c.p.p. la lettura esegetica accolta dagli ermellini si aggancia al richiamo che quest’ultimo compie all’art. 47 ord. penit. nella sua interezza, consente tale sbocco interpretativo di carattere sistematico e teleologico. Il perseguimento da parte delle due norme della medesima finalità di ridurre in forme controllate la popolazione carceraria e di evitare l’ingresso negli istituti penitenziari soggetti che possano usufruire di misure alternative, autorizza tale interpretazione adeguatrice dell’art. 656 e consente di mantenere il parallelismo con i più ampi limiti di pena previsti dall’art. 47, comma 3- bis . Interpretazione costituzionalmente orientata del Tribunale di Milano. Anche il Tribunale di Milano ha proposto una lettura che armonizzi le due discipline e pertanto il limite previsto in astratto per la sospensione dell’esecuzione deve essere individuato nella pena della reclusione, anche residua non già dei 3 anni come prevede l’art. 656, comma 5, c.p.p. ma non superiore a 4 anni ricorrendo le condizioni per l’accesso all’affidamento allargato Trib. Milano, 31 marzo 2017 . Proprio per avallare tale conclusione si richiama il comma 85, lett. c della recente legge delega n. 103/2017 in cui si prevede la revisione della disciplina concernente le procedure di accesso alle misure alternative, prevedendo che il limite di pena che impone la sospensione dell’ordine di esecuzione sia fissato in ogni caso a 4 anni Trib. Milano 24 agosto 2017 . Pertanto, l’intenzione del legislatore è chiaramente proiettata nel senso proposto. A cui si allinea” altra giurisprudenza di merito. Anche altri Tribunali hanno iniziato a interpretare in senso estensivo l'art. 656, comma 5. c.p.p. in modo tale da ricomprendere nell'ambito della sua applicazione l’affidamento in prova allargato e ciò in virtù di un criterio sistematico ed evolutivo che tenga conto della ratio delle norme da coordinare, in conformità col dettato costituzionale. Una diversa interpretazione determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento, rilevante ex artt. 3 e 27, comma 3, Cost., tra chi risulti condannato a pena inferiore ai 3 anni in quanto tale suscettibile di essere ammesso all'affidamento in prova ordinario e chi risulti condannato a pena inferiore ai 4 anni nelle condizioni di poter essere ammesso all'affidamento in prova cd. allargato , disparità derivante dal fatto che le condizioni soggettive utili all'accesso alla misura dell'affidamento in prova ai servizi allargato sono del tutto simmetriche, posto che in entrambi i casi la concreta ammissione alla misura alternativa è subordinata ad un periodo di osservazione del reo Trib. Bergamo, 15 dicembre 2017 . Il revirement della Cassazione. A complicare il già variegato panorama giurisprudenziale mentre la giurisprudenza che sembrava spingere e anticipare il legislatore ci ha pensato la Cassazione che, tornando sui suoi passi, ha ritenuto che il limite edittale per potere disporre la sospensione dell'ordine di esecuzione continua ad essere nonostante il richiamo operato dall'art. 656, comma 5, c.p.p. all'art. 47 ord. penit. e l'elevazione ad anni 4 del limite per la concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale disposto dal comma 3- bis della predetta norma quello di 3 anni, anche se costituente residuo di una pena di maggiore entità Sez. I, 10 ottobre 2017, n. 46562 . In particolare 1 si rifiuta il canone dell’interpretazione evolutiva 2 l’ipotesi introdotta all’art. 47, comma 3- bis , ord. penit. non può avere un'applicazione automatica” da parte dell'organo dell'esecuzione penale, essendo richiesta una specifica valutazione di merito da parte del Tribunale di sorveglianza 3 anche l’art. 1, comma 85, lett. c , della legge delega n. 103/2017 confermerebbe l’interpretazione restrittiva dell’art. 656, comma 5, c.p.p. in quanto il criterio di delega, volto a elevare a 4 anni il limite di pena per la sospensione obbligatoria dell'ordine di carcerazione, sarebbe superfluo nell'ottica dell'interpretazione evolutiva propugnata nel ricorso. Sollevata questione di legittimità costituzionale. Ritiene invece che non vi siano spazi per sposare una lettura conforme alla costituzione il Tribunale di Lecce che, con ordinanza del 13 marzo 2017 ha ritenuto fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 5, c.p.p., per violazione degli artt. 3 e 27, comma 3, Cost., nella parte in cui non consente che l’ordine di esecuzione debba essere sospeso anche nei casi di pena non superiore a 4 anni di detenzione. Pur prendendo atto del disallineamento sistematico – non colmato in sede di conversione del d.l. n. 146/2013, dalla l. n. 10/2014 mediante modifica dell’art. 656 – poiché l’elemento condizionante il meccanismo sospensivo dell’ordine di esecuzione risulta fondato su un limite numerico, esso, per sua intrinseca natura, appare insuscettibile di modifiche in via interpretativa, e dunque ostativo ad una interpretazione adeguatrice del dettato normativo in scrutinio ai principi costituzionali. E neppure la disapplicazione diretta della disposizione reputata illegittima consentirebbe di pervenire ad una lettura costituzionalmente orientata della norma, salvo a volerla ricongiungere ad una inammissibile interpretazione additiva. Questione accolta dalla Consulta. La Corte Costituzionale accoglie la questione condividendo l’idea che il limite di pena indicato nella disposizione censurata ai fini della sospensione dell’ordine di esecuzione non possa che equivalere al corrispondente limite previsto ai fini dell’accesso alla misura alternativa alla detenzione, in quanto la genesi dell’istituto e lo sviluppo che esso ha trovato nella legislazione confermano che immanente al sistema, e tratto di imprescindibile coerenza intrinseca di esso, è un tendenziale parallelismo tra i due termini posti a confronto. La natura servente” dell’istituto oggetto del dubbio di legittimità costituzionale lo espone a profili di incoerenza normativa ogni qual volta venga spezzato il filo che lega la sospensione dell’ordine di esecuzione alla possibilità riconosciuta al condannato di sottoporsi ad un percorso risocializzante che includa il trattamento carcerario. I Giudici delle leggi evidenziano l’avvenuta rottura del parallelismo, imputabile al mancato adeguamento del limite quantitativo di pena previsto per l’ordine di sospensione ex art. 656, comma 5, c.p.p. da 3 a 4 anni che appare di particolare gravità perché è proprio il modo in cui la legge ha configurato l’affidamento in prova allargato che reclama, quale corollario, la corrispondente sospensione dell’ordine di esecuzione. L’affidamento allargato anche a chi non è detenuto. Un passaggio fondamentale nell’accoglimento della questione di legittimità proposta è il rifiuto dell’argomentazione dell’avvocatura dello Stato inerente alla finalità dell’affidamento allargato quella di ottemperare al dictum di ridurre la popolazione carceraria della sentenza Torregiani della Corte EDU dell’8 gennaio 2013, per cui quest’ultimo andrebbe applicato solo a chi si è chi già detenuto. Per i Giudici delle leggi, il chiaro disposto dell’art. 47, comma 3- bis , laddove si fa riferimento all’inciso anche residua” dimostra che l’affidamento allargato è destinato pure a chi non deve espiare una pena residua e cioè a chi non è detenuto. Si è trattato di una scelta del tutto coerente con lo scopo di deflazionare le carceri, visto che esso si persegue non solo liberando chi le occupa ma anche evitando che vi faccia ingresso chi è libero. Bisogna allora considerare che è espressamente prevista la concessione dell’affidamento allargato al condannato in stato di libertà ma, se l’ordine di esecuzione di una pena detentiva tra 3 anni e un giorno e 4 anni non potrebbe essere sospeso, si tratterebbe di una previsione in concreto irrealizzabile, per quanto normativamente stabilita e voluta. Infatti l’esecuzione dell’ordine di carcerazione, avvenuta senza aver dato al condannato il tempo di richiedere l’affidamento in prova allargato e comunque senza attendere una decisione al riguardo, renderebbe impossibile la concessione della misura alternativa prima dell’ingresso in carcere. Pertanto, omettendo di intervenire sulla norma ancillare, il legislatore smentisce se stesso, insinuando nel sistema una incongruità sistematica capace di ridurre in gran parte dello spazio applicativo riservato alla normativa principale dell’affidamento allargato. Non è la Procura a valutare l’affidamento in prova. La Corte Costituzionale non prende direttamente in esame uno degli argomenti fatti propri dall’Avvocatura dello Stato e dal revirement della Cassazione la necessità di una valutazione della personalità del condannato per l’applicazione dell’affidamento allargato tale argomento si era spesso tradotto, nei provvedimenti di merito sul tema, in preoccupazioni in ordine alla presunta necessità da parte del pubblico ministero dell’esecuzione di esercitare un potere discrezionale rispetto al parametro della buona condotta” nell’anno anteriore all’esecuzione. Come è stato ben affermato, tali preoccupazioni sono state peraltro superate implicitamente anche dalla Corte dalla considerazione per cui non è l’ufficio di Procura a dovere valutare il merito della domanda e dunque la sussistenza effettiva di una condotta idonea rispetto al giudizio prognostico sul condannato , bensì la magistratura di sorveglianza, autorità giudiziaria attrezzata” rispetto a tale tipo di valutazione Alberta . La sospensione sarà dunque un atto automatico in presenza di una pena da eseguire pari o inferiore a 4 anni. Violato l’art. 3 Cost La Consulta è chiarissima nell’affermare che non si tratta di un mero difetto di coordinamento ma di una lesione dell’art. 3 Cost. in quanto la deroga al principio del parallelismo tra la sospensione della pena e la possibilità di fruire dell’affidamento in prova senza adeguata ragione giustificatrice, dando luogo a un trattamento normativo differenziato di situazioni da reputarsi uguali. Resta invece assorbita la questione inerente all’art. 27, comma 3, Cost., anche se ampiamente fondata in quanto contrasterebbe con la finalità rieducativa tradurre in carcere per un breve periodo chi possa sottrarvisi in ragione del percorso rieducativo compito che avrebbe così una irragionevole regressione , avendo maturato i presupposti per accedere alla misura alternativa alla detenzione. Si scongiura l’effetto porte girevoli”. A tale riguardo, anche a testimonianza della notevole importanza della pronuncia in commento, sul suo sito la Corte Costituzionale ha diramato un comunicato stampa nel quale si ricorda così essersi scongiurato l’effetto porte girevoli della norma impugnata, che comportava l’ingresso in carcere per alcuni mesi del condannato che avesse titolo per scontare la pena in altra forma. Pertanto, l’art. 656, comma 5, c.p.p. è costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui si prevede che il pubblico ministero sospende l’esecuzione della pena detentiva, anche se costituente residuo di maggior pena, non superiore a 3 anni, anziché a 4 anni.

Corte Costituzionale, sentenza 6 febbraio - 2 marzo 2018, n. 41 Presidente / Redattore Lattanzi Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 13 marzo 2017 r.o. n. 109 del 2017 , il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Lecce ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 5, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che l’ordine di sospensione della pena debba essere emesso anche nei casi di pena non superiore a quattro anni di detenzione . Il giudice a quo è investito, in qualità di giudice dell’esecuzione, della domanda di sospensione di un ordine di esecuzione della pena detentiva di tre anni, undici mesi e diciassette giorni, che il pubblico ministero ha emesso in base all’art. 656, comma 1, cod. proc. pen., senza sospenderlo, perché la pena da scontare eccedeva il limite di tre anni fissato dal quinto comma dello stesso articolo. Questo comma impone la sospensione dell’ordine di esecuzione in modo da consentire al condannato di presentare istanza per ottenere una delle misure alternative alla detenzione previste dagli artt. 47, 47-ter, e 50, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà , e dall’art. 94 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza . Il condannato ha quindi chiesto al giudice a quo di dichiarare inefficace l’ordine di esecuzione, sostenendo che esso avrebbe dovuto essere sospeso nonostante la pena da espiare eccedesse il limite triennale, perché l’art. 47, comma 3-bis, della legge n. 354 del 1975, introdotto dall’art. 3, comma 1, lettera c , del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria , convertito, con modificazioni, in legge 21 febbraio 2014, n. 10, consente una particolare forma di affidamento in prova quando la pena detentiva da eseguire non è superiore a quattro anni. Il condannato rileva che la sospensione dell’ordine di esecuzione è finalizzata ad ottenere l’applicazione della misura alternativa prima dell’ingresso in carcere poiché l’art. 47, comma 3-bis, della legge n. 354 del 1975 permette l’affidamento in prova anche quando la pena da espiare non è superiore a quattro anni, a suo avviso il limite cui subordinare la sospensione dell’ordine di esecuzione dovrebbe armonizzarsi con tale tetto e ritenersi fissato anch’esso in quattro anni, anziché in tre come prevede la lettera della disposizione censurata. Il giudice a quo, escluso di poter interpretare la disposizione nel senso auspicato dal ricorrente, dato l’univoco tenore letterale della stessa, dubita della sua legittimità costituzionale, nella parte in cui la sospensione dell’esecuzione continua a essere prevista quando la pena detentiva da espiare non è superiore a tre anni, anziché a quattro. 2.– In punto di rilevanza il rimettente osserva che l’accoglimento delle questioni comporterebbe l’inefficacia dell’ordine di esecuzione, poiché il condannato, che non è soggetto a una misura cautelare di carattere custodiale, deve scontare una pena superiore a tre anni di detenzione, ma non a quattro, e la condanna si riferisce al reato punito dall’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, ovvero a un reato che non rientra nel catalogo di quelli per i quali l’art. 656, comma 9, cod. proc. pen. esclude la sospensione di tale ordine. 3.– In punto di non manifesta infondatezza il rimettente rileva che la sospensione dell’ordine di esecuzione è strutturalmente e funzionalmente collegata alla possibilità di ottenere l’affidamento in prova al servizio sociale, misura di cui condivide lo scopo di deflazione carceraria e di prevenzione speciale, sulla base della comune presunzione di una ridotta pericolosità del condannato . È per questa ragione che il limite di tre anni stabilito dall’art. 656, comma 5, censurato corrisponde a quello fissato dall’art. 47, comma 1, della legge n. 354 del 1975 ai fini dell’affidamento in prova. Il nuovo art. 47, comma 3-bis, della legge n. 354 del 1975 ha introdotto un’ulteriore ipotesi di affidamento in prova, quello cosiddetto allargato, che può essere concesso al condannato che deve espiare una pena detentiva, anche residua, non superiore a quattro anni di detenzione, quando abbia serbato, quantomeno nell’anno precedente alla presentazione della richiesta, trascorso in espiazione di pena, in esecuzione di una misura cautelare ovvero in libertà, un comportamento tale da consentire un giudizio positivo circa la rieducazione del condannato e la prevenzione dal pericolo che commetta altri reati. Il rimettente ritiene che l’affidamento allargato abbia la medesima ratio dell’affidamento già previsto dall’art. 47, comma 1, della legge n. 354 del 1975, dal quale si distinguerebbe solo perché il periodo di osservazione del comportamento del condannato è di almeno un anno, anziché di almeno un mese come è invece previsto dall’art. 47, comma 2, della legge n. 354 del 1975. 3.1.– Ciò posto, l’omesso adeguamento del limite quantitativo di pena previsto dalla norma censurata a quello ora indicato ai fini dell’affidamento in prova allargato determinerebbe un disallineamento sistematico , frutto di un mancato raccordo tra norme , che il rimettente reputa lesivo anzitutto dell’art. 3 Cost., dato che discrimina ingiustificatamente coloro che possono essere ammessi alla misura alternativa perché debbono espiare una pena detentiva non superiore a quattro anni, da coloro che, potendo godere dell’affidamento in prova relativo a una pena detentiva non superiore a tre anni, ottengono la sospensione automatica dell’ordine di esecuzione. Inoltre la disposizione censurata, comportando l’ingresso in carcere di chi può godere dell’affidamento in prova allargato, sarebbe in contrasto con la finalità rieducativa della pena prevista dall’art. 27, terzo comma, Cost. 4.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili, o, in subordine, infondate. L’Avvocatura dello Stato ritiene che il disallineamento denunciato dal rimettente sia frutto non di una casuale omissione del legislatore ma di una scelta dipendente dal maggior grado di pericolosità del condannato, desumibile dalla maggiore misura della pena che gli è stata inflitta. Mentre l’affidamento in prova allargato è subordinato ad una valutazione giudiziale della personalità del condannato, l’ordine di esecuzione viene sospeso automaticamente perciò, in presenza di una pena elevata, sarebbe tutt’altro che illogica ed irragionevole l’opzione legislativa di escludere tale sospensione, riservando la rimessione in libertà al positivo giudizio prognostico sugli effetti della misura alternativa alla detenzione. Le questioni sarebbero perciò inammissibili perché invasive della discrezionalità del legislatore sulla necessità di un apprezzamento della mancanza di pericolosità. 5.– Nel merito l’Avvocatura dello Stato contesta che l’affidamento in prova allargato sia equiparabile per ratio all’affidamento regolato dall’art. 47, comma 1, della legge n. 354 del 1975, posto che quest’ultimo previene l’ingresso in carcere, mentre il primo avrebbe una finalità meramente deflattiva del sovraffollamento carcerario. Il legislatore avrebbe introdotto una misura alternativa alla detenzione pensata per chi è già detenuto, con la conseguenza che sarebbe stato incongruo elevare parallelamente il limite della pena detentiva prevista ai fini della sospensione dell’ordine di esecuzione. Secondo l’Avvocatura dello Stato sarebbe più che ragionevole ritenere che a fronte di una maggiore misura della pena, sia necessario un più attento ed approfondito esame della personalità del reo , senza escludere l’ingresso in carcere. Del resto la detenzione sarebbe limitata al tempo strettamente necessario, in forme compatibili con la funzione rieducativa della pena. 6.– Si è costituito in giudizio il ricorrente nel processo principale chiedendo l’accoglimento delle questioni. La parte privata auspica un’interpretazione adeguatrice della disposizione censurata, pur dando atto della difficoltà di addivenirvi, e reputa che altrimenti la questione dovrebbe essere accolta. Non ritiene possibile giustificare la norma censurata con l’argomento che l’affidamento in prova allargato ha lo scopo di diminuire la popolazione carceraria già presente, e non anche quello di prevenire ulteriori ingressi in carcere, dato che la misura alternativa è espressamente rivolta anche a chi si trova in libertà. Considerato in diritto 1.– Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Lecce, in funzione di giudice dell’esecuzione, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 5, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che l’ordine di sospensione della pena debba essere emesso anche nei casi di pena non superiore a quattro anni di detenzione . Il rimettente deve decidere su una domanda volta alla declaratoria di temporanea inefficacia di un ordine di esecuzione della pena detentiva di tre anni, undici mesi e diciassette giorni di reclusione, che il pubblico ministero ha emesso in base all’art. 656 cod. proc. pen. Il pubblico ministero non ha sospeso l’ordine, come è invece tenuto a fare ove la pena da espiare non superi i tre anni di detenzione. In questo caso infatti si preserva la libertà del condannato per consentirgli di presentare al tribunale di sorveglianza una richiesta di affidamento in prova al servizio sociale e di rimanere libero fino a quando non sopraggiunga una decisione sulla richiesta. Così si evita l’ingresso in carcere di persone che possono godere della misura alternativa alla detenzione. In ragione del collegamento che esiste tra la sospensione dell’ordine di esecuzione e la possibilità di fruire dell’affidamento in prova, la disposizione censurata prescrive in via generale l’effetto sospensivo relativo alle sole pene che non eccedono il tetto cui è subordinato l’accesso alla misura alternativa. L’art. 3, comma 1, lettera c , del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria , convertito, con modificazioni, in legge 21 febbraio 2014, n. 10, ha introdotto un comma 3-bis nel corpo dell’art. 47 della legge 26 luglio 1975, n. 354 Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà , delineando un’ulteriore forma di affidamento in prova, cosiddetto allargato, per il condannato che deve espiare una pena, anche residua, non superiore a quattro anni di detenzione, misura che può essere concessa al condannato che ha serbato, quanto meno nell’anno precedente alla presentazione della richiesta, un comportamento tale da consentire un giudizio prognostico favorevole quanto alla sua rieducazione e alla prevenzione del pericolo di commissione di altri reati. La nuova misura alternativa può perciò essere concessa anche per pene comprese tra tre anni e un giorno e quattro anni di detenzione, ma esse non possono venire sospese in attesa della decisione del tribunale di sorveglianza perché il limite triennale a tal fine previsto dalla disposizione censurata non è stato adeguato. In tale condizione si trova appunto l’istante nel giudizio principale, la cui carcerazione appare al giudice a quo, allo stato della legislazione vigente, inevitabile, benché questi possa aspirare a conseguire in seguito il beneficio dell’affidamento in prova allargato. Il rimettente dubita che quest’assetto normativo sia conforme all’art. 3 Cost., perché discrimina irragionevolmente coloro che, dovendo espiare una pena detentiva non superiore a tre anni, usufruiscono della sospensione dell’ordine di esecuzione in vista dell’accesso all’affidamento in prova ordinario, da coloro che, destinati ad espiare una pena detentiva compresa tra tre anni e un giorno e quattro anni, non possono sottrarsi alla carcerazione, nonostante sia loro concedibile in astratto l’affidamento in prova allargato. Sarebbe violato anche l’art. 27, terzo comma, Cost., perché contrasterebbe con la finalità rieducativa della pena tradurre in carcere, per un breve periodo, chi possa poi sottrarvisi grazie alla misura alternativa. Il rimettente chiede pertanto che il limite cui è subordinata l’automatica sospensione dell’ordine di esecuzione sia elevato a quattro anni di detenzione, così da ripristinare il parallelismo tra esso e il tetto previsto per l’accesso all’affidamento in prova allargato. Le questioni, conclude il rimettente, sono rilevanti, perché il condannato che deve espiare una pena compresa tra i tre anni e un giorno e i quattro anni di reclusione non versa in alcuna delle condizioni impedienti stabilite dall’art. 656, comma 9, cod. proc. pen. quanto alla sospensione della carcerazione, ovvero non è stato condannato per i delitti indicati dalla lettera a di tale comma, né si trova in stato di custodia cautelare lettera b . Perciò, ove le questioni fossero accolte, il rimettente dovrebbe dichiarare l’inefficacia dell’ordine di esecuzione adottato dal pubblico ministero, in quanto illegittimamente non sospeso. 2.– Il rimettente osserva che la lettera della disposizione censurata non permette alcuna interpretazione costituzionalmente orientata, a causa dell’inequivoco riferimento al limite di tre anni previsto ai fini della sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva. Così argomentando, il giudice a quo ha assolto con motivazione adeguata e convincente il proprio obbligo di verificare la praticabilità dell’interpretazione adeguatrice prima di sollevare un incidente di legittimità costituzionale, sicché le questioni sono per tale verso ammissibili sentenze n. 253 del 2017, n. 36 del 2016 e n. 221 del 2015 . 3.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni, giacché esse sarebbero tese a comprimere la discrezionalità del legislatore nel decidere in quali casi sospendere l’esecuzione della pena detentiva. Si tratta però di un profilo che attiene al merito della decisione, che sarebbe di infondatezza laddove la Costituzione non imponesse alcun limite a tale scelta. Esso andrà perciò scrutinato in sede di esame delle censure di illegittimità costituzionale. 4.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., in riferimento all’art. 3 Cost., è fondata. Il rimettente parte dall’idea che il limite di pena indicato dalla disposizione censurata ai fini della sospensione dell’ordine di esecuzione non possa che equivalere al corrispondente limite previsto ai fini dell’accesso alla misura alternativa alla detenzione. Indubbiamente la genesi dell’istituto definito dall’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. e lo sviluppo che esso ha trovato nella legislazione confermano che immanente al sistema, e tratto di imprescindibile coerenza intrinseca di esso, è un tendenziale parallelismo tra i due termini posti a raffronto. Va osservato anzitutto che la sospensione automatica dell’ordine di esecuzione è conseguente alla sentenza n. 569 del 1989, con cui questa Corte estese a chi si trovava in stato di libertà la possibilità di accedere all’affidamento in prova, riservato in precedenza alla sola popolazione carceraria. Il legislatore allora si avvide che sarebbe stato in linea di principio incongruo disporre temporaneamente la carcerazione di chi avrebbe poi potuto godere di una misura specificamente pensata per favorire la risocializzazione fuori dalle mura del carcere e giunse a perseguire al massimo grado l’obiettivo di risparmiare il carcere al condannato, sostituendo, con la legge 27 maggio 1998, n. 165 Modifiche all’articolo 656 del codice di procedura penale ed alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni , l’art. 656 cod. proc. pen. e introducendo l’automatica sospensione dell’esecuzione della pena detentiva, entro un limite pari a quello previsto per godere della misura alternativa. In seguito il principio del tendenziale parallelismo ha trovato conferma nella trama legislativa, posto che all’incremento della soglia di accesso alla misura alternativa ha corrisposto una pari elevazione del limite stabilito ai fini della sospensione. Così, l’art. 4-undevicies del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 , convertito, con modificazioni, in legge 21 febbraio 2006, n. 49, ha alzato a sei anni questo limite, in collegamento con l’art. 4-undecies del medesimo testo normativo, che aveva aumentato in uguale misura l’entità della pena detentiva da espiare in affidamento in prova per l’alcooldipendente o il tossicodipendente sottoposti a un programma di recupero. Allo stesso modo, il decreto-legge 1° luglio 2013, n. 78 Disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena , convertito, con modificazioni, in legge 9 agosto 2013, n. 94, ha portato a quattro anni il termine valido per la sospensione dell’ordine di esecuzione, ai fini della concessione della detenzione domiciliare, allo scopo di renderlo equivalente al nuovo termine previsto per godere della misura dell’art. 47-ter della legge n. 354 del 1975. Si è trattato di interventi correttivi conseguenti al carattere complementare che l’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. riveste rispetto alla scelta legislativa di aprire la via alla misura alternativa. La natura servente dell’istituto oggetto del dubbio di legittimità costituzionale lo espone a profili di incoerenza normativa ogni qual volta venga spezzato il filo che lega la sospensione dell’ordine di esecuzione alla possibilità riconosciuta al condannato di sottoporsi ad un percorso risocializzante che non includa il trattamento carcerario. Tuttavia nel caso di specie all’introduzione dell’affidamento in prova per pene da espiare fino a quattro anni di detenzione non ha corrisposto un’analoga modificazione del termine indicato dalla disposizione censurata. Infatti non è stata ancora esercitata la delega legislativa conferita con l’art. 1, comma 85, lettera c , della legge 23 giugno 2017, n. 103 Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario , il quale prevede che il limite di pena che impone la sospensione dell’ordine di esecuzione sia fissato, in ogni caso, in quattro anni. Oggetto dell’odierno scrutinio di legittimità costituzionale è l’attuale incongruità del disegno legislativo. Bisogna perciò accertarsi se essa possa trovare una non irragionevole giustificazione per allontanarsi, in questo peculiare caso, dal parallelismo di cui si è detto. 5.– Il tendenziale collegamento della sospensione dell’ordine di esecuzione con i casi di accesso alle misure alternative costituisce un punto di equilibrio ottimale, ma appartiene pur sempre alla discrezionalità legislativa selezionare ipotesi di cesura, quando ragioni ostative appaiano prevalenti. Naturalmente è proprio la dimensione normativa ancillare della sospensione rispetto alle finalità delle misure alternative che rende particolarmente stretto il controllo di legittimità costituzionale riservato a dette ipotesi. Resta nondimeno possibile che peculiari situazioni suggeriscano al legislatore di imporre un periodo di carcerazione in attesa che l’organo competente decida sull’istanza di affidamento in prova. Ciò potrebbe ad esempio dipendere dalla particolare pericolosità di cui, secondo il legislatore, sono indice i reati in questione, alla quale si intende rispondere inizialmente con il carcere, secondo la ratio cui si ispira l’art. 656, comma 9, lettera a , cod. proc. pen. nell’indicare specifici delitti per i quali è esclusa la sospensione dell’ordine di esecuzione. Ovvero il legislatore potrebbe anche prendere atto che l’accesso alla misura alternativa è soggetto a condizioni così stringenti da rendere questa eventualità meramente residuale, sicché appare tollerabile che venga incarcerato chi all’esito del giudizio relativo alla misura alternativa potrà con estrema difficoltà sottrarsi alla detenzione è quanto oltre che per la gravità dei reati accade per i delitti elencati dall’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, che l’art. 656, comma 9, lettera a , cod. proc. pen. esclude dal beneficio della sospensione dell’ordine di esecuzione. L’esito dello scrutinio di legittimità costituzionale su queste e altre ipotesi analoghe dipende perciò dall’adeguatezza degli indicatori che nella visione del legislatore dovrebbero opporsi all’esigenza della coerenza sistematica, fino a poter prevalere su di essa. 6. – Sotto questo aspetto non può non osservarsi che nel caso di specie la rottura del parallelismo, imputabile al mancato adeguamento della disposizione censurata, appare di particolare gravità, perché è proprio il modo con cui la legge ha configurato l’affidamento in prova allargato che reclama, quale corollario, la corrispondente sospensione dell’ordine di esecuzione. In proposito va in primo luogo osservato che non ha pregio l’argomento dell’Avvocatura dello Stato secondo cui l’affidamento allargato sarebbe precipuamente indirizzato a chi è già detenuto, al fine di ridurre la popolazione carceraria per ottemperare a quanto deciso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza 8 gennaio 2013, Torreggiani e altri contro Italia. In senso contrario è sufficiente osservare che l’art. 47, comma 3-bis, della legge n. 354 del 1975 si rivolge espressamente anche ai condannati che si trovano in stato di libertà, senza alcuna distinzione di rilevanza rispetto ai detenuti, come è riconosciuto anche dall’Avvocatura dello Stato e si desume dalla destinazione dell’affidamento in prova allargato al condannato che deve espiare una pena, anche residua, non superiore a quattro anni di detenzione . L’inciso anche residua dimostra che la misura è destinata pure a chi non deve espiare una pena residua e cioè a chi non è detenuto. È per questa ragione che la disposizione in questione, ai fini dell’applicazione della misura, richiede una valutazione del comportamento del condannato quantomeno nell’anno precedente alla presentazione della richiesta, trascorso in espiazione di pena, in esecuzione di una misura cautelare ovvero in libertà . È vero che in linea di principio non è fatto divieto al legislatore di dare vita a forme alternative alla detenzione riservate ai soli detenuti, ma nel caso dell’affidamento allargato la legge non si è valsa di tale spazio di discrezionalità perché ha esplicitamente optato per l’equiparazione tra detenuti e liberi ai fini dell’accesso alla misura alternativa. Del resto si è trattato di una scelta del tutto coerente con lo scopo di deflazionare le carceri, visto che esso si persegue non solo liberando chi le occupa ma anche evitando che vi faccia ingresso chi è libero. Bisogna allora considerare che è espressamente prevista la concessione dell’affidamento allargato al condannato in stato di libertà, ma, se l’ordine di esecuzione di una pena detentiva tra tre anni e un giorno e quattro anni non potesse essere sospeso, si tratterebbe di una previsione in concreto irrealizzabile, per quanto normativamente stabilita e voluta. Infatti l’esecuzione dell’ordine di carcerazione, avvenuta senza aver dato al condannato il tempo di chiedere l’affidamento in prova allargato e comunque senza attendere una decisione al riguardo, renderebbe impossibile la concessione della misura alternativa prima dell’ingresso in carcere. Tale è appunto la situazione normativa che si è realizzata a causa del mancato adeguamento dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. Omettendo di intervenire sulla normativa ancillare, il legislatore smentisce sé stesso, insinuando nell’ordinamento una incongruità sistematica capace di ridurre gran parte dello spazio applicativo riservato alla normativa principale. 7.– Mancando di elevare il termine previsto per sospendere l’ordine di esecuzione della pena detentiva, così da renderlo corrispondente al termine di concessione dell’affidamento in prova allargato, il legislatore non è incorso in un mero difetto di coordinamento, ma ha leso l’art. 3 Cost. Si è infatti derogato al principio del parallelismo senza adeguata ragione giustificatrice, dando luogo a un trattamento normativo differenziato di situazioni da reputarsi uguali, quanto alla finalità intrinseca alla sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva e alle garanzie apprestate in ordine alle modalità di incisione della libertà personale del condannato. L’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. va perciò dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui si prevede che il pubblico ministero sospende l’esecuzione della pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena, non superiore a tre anni, anziché a quattro anni. 8.– La questione di legittimità costituzionale basata sull’art. 27, terzo comma, Cost. resta assorbita. Per questi motivi la Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 656, comma 5, del codice di procedura penale, nella parte in cui si prevede che il pubblico ministero sospende l’esecuzione della pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena, non superiore a tre anni, anziché a quattro anni.

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