Le conversazioni degli avvocati non sempre sono tutelate dal divieto di intercettazioni

Il divieto di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni dei difensori di cui al comma 5 dell’art. 103 c.p.p. non si estende a quelle comunicazioni che integrino esse stesse una fattispecie di reato.

Così si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 4116/18, depositata il 29 gennaio. Il fatto. Un avvocato, sottoposto ad indagini per il reato di favoreggiamento nel delitto di usura contestato ad altri imputati, ricorre in Cassazione avverso l’ordinanza con cui il Tribunale applicava la misura cautelare dell’interdizione dall’esercizio della professione forense per due mesi. Il ricorrente censura il provvedimento sia in punto di gravità indiziaria che in tema di sussistenza delle esigenze cautelari, nonché l’inattendibilità delle dichiarazioni risultanti dalle intercettazioni. Il reato commesso dall’avvocato. La Cassazione ripercorre la vicenda sottolineando che il ricorrente è accusato di favoreggiamento personale per aver aiutato, mediante consigli ed interventi professionali, altri due imputati, titolari di un credito usuraio, ad assicurarsi il profitto del reato di usura. Il ricorrente lamenta la circolarità della motivazione offerta dal Tribunale, in quanto sarebbe stato individuato come premessa di tutto il ragionamento un dato di fatto, quella della utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche dipendente dalla avvenuta perpetrazione del reato di favoreggiamento personale, che già dava per scontato quello che in realtà avrebbe dovuto essere dimostrato, e cioè appunto la sussistenza dei gravi indizi di reato e la piena consapevolezza della natura usuraia del credito . La doglianza risulta priva di fondamento in quanto il Tribunale ha correttamente dimostrato la piena conoscenza del ricorrente del fatto che il credito dei suoi clienti era di natura usuraia e solo successivamente ha dato atto dell’utilizzabilità delle intercettazioni, nonostante il divieto di cui all’art. 103, comma 5, c.p.p Sul punto, la giurisprudenza di legittimità afferma infatti che la norma citata, nel vietare le intercettazioni di conversazioni o comunicazioni dei difensori, risponde al fine di garantire l’esercizio del diritto di difesa e ha quindi ad oggetto le sole conversazioni relativi agli affari in cui l’avvocato eserciti la propria attività professionale e non si estende quindi alle conversazioni che integrano esse stesse reato. In conclusione la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 10 – 29 gennaio 2018, n. 4116 Presidente Paoloni – Relatore Gianesini Ritenuto in fatto 1. Il Difensore di C.A. ha proposto ricorso per Cassazione contro l’ordinanza con la quale il Tribunale di VENEZIA, in sede di appello proposto dal Procuratore della Repubblica di VICENZA, ha applicato all’indagato la misura cautelare della interdizione dall’esercizio della professione forense per la durata di due mesi. 1.1 Il C. è sottoposto ad indagine per il reato di cui all’art. 379 cod. pen. per avere aiutato terze persone ad assicurarsi il prezzo e i profitto del delitto di usura consumato ai danni di altra persona. 2. Il ricorrente ha dedotto plurimi motivi di ricorso, sia in tema di sussistenza della gravità indiziaria che in tema di sussistenza delle esigenze cautelari. 2.1 Sotto il primo profilo, il ricorrente, dopo aver riassunto i termini di fatto della vicenda e aver denunciato un vizio generale di circolarità della argomentazione svolta dal Tribunale, ha sottolineato che l’ordinanza impugnata aveva sempre scelto, nella valutazione del significato delle conversazioni intercettate e delle dichiarazioni della Ca. , cliente dell’indagato, l’opzione sfavorevole all’indagato stesso, tanto più che tutti gli atti che, secondo l’Accusa, avevano realizzato il delitto di favoreggiamento reale, appartenevano alla piena competenza funzionale dell’Avv. C. , così che non era stato dimostrata con la necessaria compiutezza la sussistenza del dolo e della consapevolezza della natura usuraria del credito. 2.2 In merito alla affermata utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche tra l’indagato e la sua cliente, il ricorrente ha censurato il fatto che il Tribunale si fosse soffermato solo sul disposto dell’art. 103, comma 5 cod. proc. pen. senza valorizzare il divieto generale di utilizzazione di cui all’art. 271, comma 2 cod. proc. pen. per le comunicazioni e conversazioni pertinenti la attività professionale e avesse invece genericamente ed apoditticamente sostenuto la piena utilizzabilità delle intercettazioni sulla base del carattere intrinsecamente delittuoso dei colloqui quando in realtà gli stessi si caratterizzavano esclusivamente come consigli di carattere legale che rientravano pienamente nelle competenze professionali dell’indagato. 2.3 Con ulteriori prospettazioni critiche, il ricorrente ha confutato il giudizio di piena attendibilità formulato dal Tribunale veneziano in ordine alle dichiarazioni del B. , persona offesa del delitto di usura, che in realtà non aveva ricostruito con accuratezza le dazioni di pagamento di natura usuraria corrisposte e non poteva comunque costituire il fondamento della consapevolezza della natura usuraria del credito vantato dal M. in capo all’indagato, tanto più che l’unico contatto telefonico diretto tra l’indagato e il B. non aveva fatto alcun cenno alla natura usuraria del credito ed anzi lo stesso B. aveva espressamente riconosciuto la fondatezza della pretesa creditoria dei clienti del C. dichiarandosi disponibile a estinguere il suo debito. Lo stesso Tribunale di Venezia, poi, sulla base dello stesso materiale indiziario, aveva correttamente ma contraddittoriamente escluso la consapevolezza della natura usuraria del credito e quindi la necessaria gravità indiziaria in capo ad una collaboratrice di studio dell’indagato. 2.4 Con una ulteriore censura, il ricorrente ha svolto considerazioni critiche sul punto della affermata attendibilità della chiamata in reità della Ca. , non adeguatamente valutata sotto il profilo della attendibilità intrinseca e contraddittoriamente fondata sul timore di nuove incarcerazioni che già dimostrava di per sé la inaffidabilità delle dichiarazioni stesse, che tra l’altro non avevano rivestito alcun valore effettivamente autoaccusatorio e non avevano mai chiamato direttamente in causa l’indagato sul punto della piena consapevolezza da parte di quest’ultimo della natura usuraria del credito. Le dichiarazioni in questione, poi, erano prive di reali riscontri oggettivi di natura individualizzante dato che la documentazione sequestrata rinvenuta nel personal computer dello studio dell’indagato e il contenuto delle conversazioni intercettate erano pienamente riferibili alla legittima attività professionale del ricorrente. 2.5 Con una diversa prospettazione critica, poi, il ricorrente ha lamentato la violazione del principio della devoluzione ex art. 310 cod. proc. pen. per avere il Tribunale di Venezia utilizzato documentazione e dichiarazioni sopravvenute in momento successivo rispetto alla richiesta di misura cautelare e rispetto all’appello proposto dal Pubblico ministero che avevano introdotto un profilo fattuale nuovo e diverso rispetto a quello originario. 2.6 Sul piano infine delle esigenze cautelari, il ricorrente ha segnalato in termini critici che la motivazione del Tribunale si fondava in realtà su vuote clausole di stile, senza alcun approfondito esame della concretezza e della attualità del ritenuto pericolo, tanto più che nei confronti della Ca. non era più in vigore alcuna misura, che il M. , presunto ideatore delle condotte usurarie, era deceduto e che l’indagato aveva dismesso tutti gli incarichi difensivi conferiti non solo dalla Ca. ma anche dalle persone che quest’ultima gli aveva presentato. Considerato in diritto 1. Il ricorso è infondato e va rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. 1.1 Vanno chiariti preliminarmente i termini di fatto della vicenda oggetto di esame il C. , che esercita la professione di Avvocato, è accusato del reato di favoreggiamento personale per avere aiutato, mediante consigli ed interventi di natura professionale, CA.Le. e M.S. nel frattempo deceduto , titolari di un credito usurario nei confronti di B.L. , ad assicurarsi il profitto del suddetto reato di usura commesso appunto dalla CA. e dal M. ai danni del B. . 2. Va prima di tutto confutata la tesi difensiva che intravede nell’assetto complessivo della motivazione del Tribunale una sorta di fallacia di circolarità, nel senso che sarebbe stato individuato come premessa di tutto il ragionamento un dato di fatto, quello della utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche dipendente dalla avvenuta perpetrazione del reato di favoreggiamento personale, che già dava per scontato quello che in realtà avrebbe dovuto essere dimostrato, e cioè appunto la sussistenza di gravi indizi di reato e la piena consapevolezza, nei limiti di rilevanza tipici della fase processuale nella quale l’ordinanza impugnata è stata pronunciata, della natura usuraria del credito che il C. si stava adoperando e rendere concretamente esigibile. 2.1 In realtà, contrariamente alla valutazione critica svolta nel ricorso, la motivazione della ordinanza impugnata non soffre alcuna taccia di circolarità argomentativa, posto che il Tribunale ha, in primo luogo, dimostrato la piena conoscenza da pare del C. della natura usuraria del credito vantato dalla coppia CA. - M. e solo in un successivo momento ha affermato la piena utilizzabilità, in termini di riscontro, delle intercettazioni in quanto intrinsecamente illecite perché costitutive ed espressive esse stesse dell’aiuto professionale prestato dal C. a finalizzato ad assicurare alla CA. il profitto del reato di usura. 3. Sotto il primo profilo, infatti, il Tribunale ha richiamato il contenuto delle dichiarazioni della persona offesa B. e le indicazioni contenute in quelle della CA. per giustificare l’affermazione che il ricorrente, in realtà, era pienamente a conoscenza della natura usuraria del credito vantato dalla coppia CA. - M. . 3.1 Il vaglio di credibilità della persona offesa B. , infatti, è stato condotto dal Tribunale in piena adesione alle note indicazioni della giurisprudenza di legittimità sul punto, con esame sia delle dichiarazioni in sé e per sé considerate e valutate dettagliate, coerenti ed immuni da contraddizioni che dei possibili motivi ritenuti del tutto assenti di calunnia o di risentimento nei confronti del ricorrente ugualmente immuni da censure sono le lunghe valutazioni che il Tribunale ha svolto quanto al narrato della CA. , esaminato anch’esso, in quanto reso da persona indagata in reato connesso, secondo i noti principi elaborati sempre dalla giurisprudenza di legittimità sia sotto l’aspetto propriamente soggettivo relativo alle ragioni e alle origini della collaborazione, sia in merito alla valutazione oggettiva del narrato sotto l’aspetto della coerenza e della non contraddizione, sia infine con l’indicazione di riscontri di carattere oggettivo, sostanzialmente costituiti dall’effettivo reperimento, nello studio professionale del C. , di documentazione costituita da bozze di scritture private con riconoscienti di debito nei confronti del creditore usurario M. , tra cui una a nome del debitore usurato B. . 3.2 I ricorrente ha svolto, in merito alla valutazione svolta dal Tribunale delle dichiarazioni delle due persone sopra richiamate, diverse considerazioni critiche che però si attestano, in gran parte, sul versante del merito e che quindi non possono essere valutate in questa specifica sede di legittimità, e in parte ancora non tengono conto del fatto che il Tribunale non era chiamato a pronunciare una sentenza di condanna ma solo ad accertare la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza e cioè di un compendio appunto indiziario tale da dimostrare una qualificata probabilità di colpevolezza da ultimo, in tal senso, Cass. Sez. 2 del 8/3/2017 n. 22968, Carrubba, Rv 270172 . 4. Una volta accertata quindi, nei limiti di cui sopra si è detto, la piena consapevolezza da parte del C. della natura usuraria del credito vantato dalla CA. e dal M. che, come si è detto, è nel frattempo deceduto , possono essere valutate come pienamente legittime le considerazioni svolte dal Tribunale in ordine alla utilizzabilità delle conversazioni intercettate tra il C. e la CA. le stesse, infatti, come è stato correttamente messo in evidenza nella motivazione del provvedimento impugnato, sono di per se stesse costitutive del reato di favoreggiamento perché enunciative e comunicative delle indicazioni di fatto e degli accorgimenti che il C. dava e suggeriva alla CA. per consentirle di rendere effettivamente e materialmente esigibile il credito usurario di cui si è detto più sopra. 4.1 Nella prospettiva di cui sopra, quindi, la tesi del Tribunale che ha affermato la piena utilizzabilità delle conversazioni intercettate nonostante il divieto di cui all’art. 103, comma 5 cod. proc. pen., è pienamente adesivo all’insegnamento della Corte di Cassazione secondo il quale la norma citata, nel vietare le intercettazioni delle conversazioni o comunicazioni dei difensori, mira a garantire l’esercizio del diritto di difesa, e ha quindi ad oggetto le sole conversazioni o comunicazioni relative agli affari nei quali i legali esercitano la loro attività difensiva, e non si estende, quindi, alle conversazioni che integrino esse stesse reato da ultimo, citata anche in motivazione dal Tribunale, Cass. Sez. 2 del 6/10/2015 n. 43410, Bellocco, Rv 265096 . 4.2 Il ricorrente ha contrapposto alla tesi del Tribunale il richiamo alle disposizioni di cui all’art. 271, comma 2 cod. proc. pen. che afferma in via generale la inutilizzabilità delle conversazioni intercettate delle persone indicate nell’art. 200, comma 1 cod. proc. pen. e cioè anche, ex art. 200, comma 1 lett. b, degli Avvocati ma la tesi è evidentemente debole posto che la disciplina della utilizzabilità delle intercettazioni nei confronti dei difensori è interamente prevista e codificata nell’art. 103, comma 5 Cod. proc. pen. mentre la disposizione di cui all’art. 271, comma 2 cod. proc. pen, non introduce nuove, distinte ed autonome ipotesi di inutilizzabilità ma si limita e ribadire, per quanto attiene agli Avvocati, un divieto di utilizzazione che già è previsto dall’art. 103, comma 5, con le eccezioni e le deroghe di cui si è detto più sopra. Anche il tema della attribuzione di significato alle conversazioni intercettate, attribuzione che il ricorrente lamenta come univocamente diretta a confermare le tesi della Accusa, resta enunciato nei termini di una non consentita valutazione di merito e per di più svolto per linee molto generali, senza la indicazione specifica di una plausibile interpretazione alternativa complessiva capace di intaccare plausibilmente la gravità indiziaria affermata dal Tribunale. 4.3 La piena utilizzabilità, quindi, delle conversazioni intercettate e riportate nel testo del provvedimento impugnato costituisce un ulteriore riscontro oggettivo ad un risultato indiziario peraltro già ampiamente raggiunto sulla sola base delle dichiarazioni del B. e della CA. e contribuisce in ogni caso al definitivo consolidamento di un quadro indiziario sicuramente qualificabile come grave nei termini che si sono sopra accennati. 5. Il ricorrente ha poi svolto un tema critico relativo alla affermata violazione del principio devolutivo nell’appello proposto ex art. 210 cod. proc. pen. dal Pubblico ministero più in dettaglio, secondo il ricorrente, il Tribunale avrebbe utilizzato, in violazione di detto principio, documentazione e dichiarazioni sopravvenute in un momento successivo rispetto alla richiesta originaria di misura cautelare rigettata dal Gip e rispetto all’atto di appello proposto dalla Pubblica accusa, con l’introduzione quindi di un profilo fattuale nuovo e diverso rispetto a quello originario. 5.1 Va subito osservato che il ricorrente non censura la decisione del Tribunale che, sulla base di nota giurisprudenza di legittimità richiamata nel testo stesso della motivazione, ha dato ingresso a documentazione sopravvenuta dopo la decisione impugnata ma riferibile alla vicenda favoreggiatoria oggetto dell’appello del Pubblico ministero ma ha criticato, sotto la specie appunto della violazione del principio della devoluzione, l’acquisizione e la utilizzazione di documentazione riferibile ad altra persona, tale Z.L.G. , diversa dal debitore usurato B.L. . 5.2 I tema è palesemente infondato e a confutarlo basterebbe l’osservazione, per un verso, che il devoluto dell’appello del Pubblico ministero è costituito dalla domanda di emissione di misura cautelare nei confronti del C. per il reato di favoreggiamento reale come specificamente indicato nella imputazione preliminare, e, dall’altro, la circostanza che i riconoscimenti di debito in favore della coppia CA. - M. e riferibili allo Z. non hanno svolto, nell’economia complessiva del ragionamento svolto dal Tribunale, alcun reale ruolo argomentativo, dato che di essi si è data mera notizia in sede di elencazione della documentazione sequestrata nello studio del C. . 6. In merito infine alla questione della sussistenza di esigenze cautelari, va posto in rilievo che il Tribunale ha adeguatamente motivato quelle di cui all’art. 274 lett. c cod. proc. pen. con accenno alle indicazioni enunciate nella norma in questione e cioè alle specifiche modalità e circostanze del fatto dimostrative, secondo il Tribunale, di condotte professionali particolarmente spregiudicate e quindi dimostrative del pericolo, concreto ed attuale, che analoghe condotte potessero essere tenute anche nel futuro. Nella prospettiva argomentativa sopra adottata, quindi, non rivestono alcuna rilevanza i fatti, segnalati dal ricorrente, relativi alla rinuncia da parte del C. a tutti i mandati difensivi assunti a favore della CA. e di altre persone presentate da quest’ultima, posto che il pericolo cautelare come individuato e affermato dal Tribunale non si limita alle vicende oggetto del presente procedimento ma riguarda in generale condotte che potrebbero essere tenute nei confronti di altri clienti del C. del resto, il sostanziale ridimensionamento del pericolo cautelare ex art. 274 lett. c cod. proc. pen. è già stato tenuto adeguatamente presente dal Tribunale che, a fonte di una richiesta di arresti domiciliati, ha disposto la misura cautelare della interdizione dall’esercizio della professione per soli due mesi. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 28 Reg. esec. cod. proc. pen