Quando il vantaggio del reato può tecnicamente qualificarsi come ‘profitto’ ed essere confiscato

Il profitto non coincide con una mera aspettativa di fatto ma deve corrispondere ad un mutamento materiale, attuale e di segno positivo della situazione patrimoniale del suo beneficiario, ingenerato dal reato attraverso la creazione, trasformazione oppure acquisizione di cose suscettibili di valutazione economica.

Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 1754/18, depositata il 16 gennaio. La vicenda. Il caso prende spunto dalla applicazione all’imputato, da parte del giudice dell'udienza preliminare, oltre alla pena di un anno e sei mesi di reclusione per il reato di corruzione, anche della confisca per equivalente dei beni nella sua disponibilità per un valore superiore a 2.000.000,00 di euro. Tanto conseguiva dal fatto che l’uomo era imputato del reato di corruzione propria internazionale per aver compiuto, per il tramite di due persone di fiducia del Ministero dell'Energia dell'Algeria, plurime dazioni di denaro in favore di quest'ultimo per assicurare ad una società per azioni, di cui egli era amministratore, un indebito vantaggio in operazioni economiche internazionali. Le dazioni di denaro, infatti, sarebbero state eseguite affinché il vitato Ministro, nella sua veste di pubblico ufficiale e violando i propri doveri di ufficio, avesse garantito alla società per azioni de quo il reingresso nell'elenco delle imprese invitate alle gare dall'Ente di Stato e di essere inserita tra i contrattisti di una società italiana che operava in Algeria. Il giudice affermava che, in ragione della configurazione di un patto corruttivo unico, il reato contestato non si era estinto per prescrizione. Quanto alla confisca - punctum particolarmente dolens dell’imputato - veniva ritenuto dal giudicante che il profitto derivante dal reato sarebbe stato costituito per la società per azioni dalla possibilità di continuare ad operare nel mercato algerino, vincendo delle gare di appalto, per un potenziale profitto ammontante ad oltre gli € 2.000.000,00 che, pertanto, veniva sequestrato per equivalente ex art. 322- ter , comma 2, c.p Aggiungeva il Tribunale che, non essendo possibile procedere alla confisca diretta nei riguardi della società, poiché la stessa era fallita, la detta confisca per equivalente avrebbe dovuto avere ad oggetto i beni personali dell'imputato. Ricorreva ovviamente in Cassazione il soggetto interessato dal processo de quo. Il problema giuridico. Gli Ermellini a fronte dei tre primi motivi del ricorso dichiarano lo stesso infondato ed addirittura al limite della inammissibilità . Ma accolgono un unico motivo di ricorso - di per sé valevole - afferente alla confisca, disposta dal giudice dell'udienza preliminare, per equivalente dei beni di cui l'imputato aveva la disponibilità fino al valore di poco superiore gli € 2.000.000,00. Nello specifico, la Suprema Corte osserva che tale somma costituirebbe il profitto derivante dal reato di corruzione che sarebbe stato conseguito dalla società per azioni e, in particolare, che lo stesso è stato individuato dal giudice di prime cure nella possibilità per detta s.p.a., di cui l'imputato era il legale rappresentante, di continuare ad operare nel mercato algerino, vincendo delle gare d'appalto, nonché di essere inserita tra i soggetti invitati alle gare. La questione, dunque, attiene al ‘se’ detto vantaggio sia tecnicamente qualificabile come profitto derivante dal reato e, quindi, suscettibile di confisca. Excursus sul concetto di ‘profitto’ derivante da reato e sua confisca. Secondo la Suprema Corte risulta consolidata l'affermazione secondo cui non si rinviene una nozione generale di profitto non solo nel codice penale ma anche nelle varie disposizioni contenute in leggi speciali che ne prevedono la confisca. Si tratta di norme che danno la nozione per presupposta ovvero si limitano a contrapporla ad altri concetti parimenti non definiti quali quelli di ‘prezzo’, ‘corpo del reato’ e ‘strumento del reato’, peraltro utilizzandola sia per determinare l'oggetto della confisca sia ad altri fini, come elemento costitutivo della fattispecie di reato o come circostanza aggravante. La giurisprudenza della Corte di Cassazione - anche a Sezioni Unite - sulla nozione di profitto ha individuato nel tempo una serie di principi stabili, sia che si accettasse la nozione ‘tradizionalista’ del detto concetto giuridico sia che si condividesse la nozione ‘estesa’. Nello specifico 1. il profitto, per rilevare ai fini della disciplina della confisca, deve essere accompagnato dal requisito della pertinenzialità inteso nel senso che deve derivare in via diretta ed immediata dal reato che lo presuppone. In tutte le sentenze che si sono occupate dell'argomento si è sempre fatto riferimento alla circostanza che il parametro della pertinenzialità, alleato del profitto, rappresenta l'effettivo criterio primario selettivo di ciò che può essere confiscato Cass. Civ. SS.UU., sent. n. 41936/05 Cass. Civ. SS.UU., sent. n. 29951/04 Cass. Civ. SS.UU., sent. n. 9194/96 . 2. Tale collegamento diretto tra reato e profitto esiste anche rispetto ai cosiddetti surrogati, cioè, rispetto al bene acquisito attraverso l'immediato impiego oppure la trasformazione del profitto diretto del reato. Ma tale estensione del concetto di pertinenzialità trova il limite estremo nel requisito della immediatezza del reimpiego che, in sostanza, ne garantisce la riconoscibilità probatoria Cass. Civ. SS.UU., sent. n. 38691/09 . 3. In virtù del principio di causalità e dei requisiti di attualità e materialità, il profitto per essere tipico deve corrispondere ad un mutamento materiale, attuale, di segno positivo della situazione patrimoniale del suo beneficiario, ingenerato dal reato attraverso la creazione, trasformazione oppure acquisizione di cose suscettibili di valutazione economica. Per cui non rappresenta profitto un qualunque vantaggio futuro, immateriale oppure non ancora materializzato in termini strettamente economico-patrimoniali Cass. Civ., sent. n. 10265/13 . 4. Quanto al c.d. profitto-risparmio di spesa, esso potrebbe assumere il rilievo solo se inteso non in senso assoluto ma in senso relativo, presupponendo – cioè - tale concetto il ricavo introitato e non decurtato dei costi che si sarebbero dovuti sostenere. Anche nel caso di profitto-risparmio, dunque, sarebbe stato necessario il risultato economico positivo completamente determinato. Il tema del profitto-risparmio di spesa è stato storicamente connesso con quello dei reati tributari in relazione ai quali era condivisa l'affermazione secondo cui la illiceità connota non la produzione della ricchezza da sottoporre a tassazione quanto, piuttosto, la sottrazione a tassazione. A tal proposito si assumeva che il profitto non poteva essere assoggettato a confisca diretta sia perché il valore sottratto, cioè l'imposta non corrisposta, essendo già presente nel patrimonio del reo non poteva considerarsi proveniente dal reato e sia perché era impossibile ricostruire il nesso di derivazione tra la res , c'è il denaro risparmiato, ed il reato. Dunque, si affermava in tema di reati tributari, che il profitto consistesse, salvo casi eccezionali, solo in un mancato esborso conseguente all’inadempimento di un’obbligazione di pagamento. Sul punto era intervenuto anche il legislatore prevedendo espressamente l'applicabilità dell'art. 322- ter c.p. ai reati tributari, ed in seguito, le Sezioni Unite della Cassazione avevano affermato il principio secondo cui, in tema di reati tributari, il profitto confiscabile anche nella forma per equivalente è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito dalla consumazione del reato e, quindi, può consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo oppure delle sanzioni dovute oppure degli interessi a seguito dell'accertamento del debito tributario. 5. Ma, per come anticipato, esiste una nozione anche più ampia del concetto di profitto, così per come emerge sia dalla sentenza 'Gubert', con cui è stata recepita una nozione di profitto funzionale alla confisca molto più ampia perché capace di accogliere al suo interno non soltanto i beni appresi per effetto diretto ed immediato dell'illecito, ma anche ogni altra utilità che sia conseguenza, anche indiretta o mediata, dell'attività criminosa [] la trasformazione che il denaro, profitto del reato, abbia subito in beni di altra natura, fungibili ed infungibili, non è quindi di ostacolo al sequestro preventivo il quale ben può avere ad oggetto il bene di investimento così acquisito. Infatti, il concetto di profitto o provento di reato legittimante la confisca [] deve intendersi come comprensivo non soltanto dei beni che l'autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto diretto ed immediato dell'illecito, ma altresì di ogni altra utilità che lo stesso realizza come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa'. Ma anche dalla sentenza 'Tyssen' in cui la Corte di Cassazione ha sostanzialmente recepito il principio già affermato dalla precedente pronuncia secondo cui 'il concetto di profitto-provento di reato legittimante la confisca deve intendersi come comprensivo non soltanto dei beni che l'autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto diretto ed immediato dell'illecito, ma altresì di ogni altra utilità che lo stesso realizza come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa . Per tutti questi motivi, secondo gli Ermellini, il giudice di prime cure aveva errato, in quanto aveva fatto coincidere il profitto con una mera aspettativa di fatto ovvero una mera chance mentre non costituisce profitto del reato un qualunque vantaggio che, pur derivante dal reato stesso, tuttavia sia futuro, eventuale o sperato, solo possibile, immateriale e non ancora materializzato in termini strettamente economico-patrimoniali. Infatti nel caso di specie si era fatto coincidere il profitto del reato non con il vantaggio derivante dalle possibili gare d'appalto aggiudicate dalla società per azioni, per effetto della corruzione, né tantomeno con i vantaggi derivanti dai contratti stipulati con l'altra società italiana in Algeria ma con la mera possibilità per la s.p.a., di cui l’imputato era il legale rappresentante, di partecipare in futuro a gare di appalto oppure di essere inserita negli elenchi dei soggetti ‘contrattisti’. Tuttavia, tale possibilità non costituisce un vantaggio concreto valutabile in relazione alla sfera patrimoniale del soggetto e si è affermato che la mera possibilità di partecipare ad una gara, ovvero di essere ammesso alla fase di contrattazione, realizzi nella vicenda una chance non autonomamente qualificabile in termini di entità patrimoniali autonoma e, quindi, di profitto. Pertanto, non potendo essere tecnicamente individuato un profitto del reato non poteva neppure essere disposta la confisca per equivalente sui beni dell'imputato.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 14 settembre 2017 – 16 gennaio 2018, n. 1754 Presidente Ippolito – Relatore Silvestri Ritenuto in fatto 1. Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Milano ha applicato a B.C. la pena di un anno e sei mesi di reclusione per il reato di corruzione, disponendo la confisca per equivalente dei beni nella disponibilità dell’imputato per un valore pari a 2.100.000 Euro. B. è imputato del reato di corruzione propria internazionale artt. 319, 321, 322 comma 2, n. 2 cod. pen. per aver compiuto, per il tramite di due persone di fiducia del Ministro dell’energia dell’Algeria, plurime dazioni di denaro in favore di quest’ultimo al fine di assicurare alla società B. s.p.a. un vantaggio indebito in operazioni economiche internazionali. In particolare, le dazioni di denaro sarebbero state eseguite affinché il Ministro dell’Algeria, nella sua veste di pubblico ufficiale, violando i propri doveri d’ufficio, garantisse alla società B. s.p.a., di cui l’imputato era il legale rappresentante, il reingresso nell’elenco delle imprese invitate alle gare dall’Ente di Stato Algerino Sonatrach e di essere inserita tra i contrattisti di Saipem, società italiana che operava in Algeria. Ha affermato il Giudice che, in ragione della configurazione di un patto corruttivo unico, il reato contestato non sarebbe estinto per prescrizione, essendo stato effettuato l’ultimo versamento nel 2011. Quanto alla confisca, si è ritenuto che il profitto derivante dal reato sarebbe costituito per la società B. s.p.a. dalla possibilità di continuare ad operare nel mercato algerino vincendo gare di appalto tale profitto sarebbe costituito da 2,1 milioni di Euro, equivalente, ai sensi dell’art. 322 ter, comma 2, cod. pen., alle somme corrisposte in ragione dell’accordo corruttivo. Ha aggiunto il Tribunale che, non essendo possibile procedere alla confisca diretta nei riguardi della società, essendo questa fallita, la confisca, per equivalente, dovrebbe avere ad oggetto i beni personali dell’imputato. 2. Ha proposto ricorso per cassazione il difensore, munito di procura speciale, articolando tre motivi. 2.1. Con il primo si deduce l’erronea applicazione della legge processuale in relazione agli artt. 444-129 cod. proc. pen., atteso che la pena sarebbe stata applicata in relazione ad un reato già estinto per prescrizione, in quanto commesso dal omissis al . Escluso che la richiesta di patteggiamento equivalga ad una rinuncia alla prescrizione, si evidenzia che nella specie, come risulterebbe dalla stessa lettura della imputazione, i patti corruttivi sarebbe stati due, intervenuti in tempi diversi, in luoghi diversi, all’esito di molteplici incontri effettuati con persone diverse ed aventi un oggetto diverso. Tale elemento avrebbe dovuto condurre il giudice a dichiarare l’estinzione almeno di uno dei due reati contestati per prescrizione. La stessa motivazione della sentenza sul punto sarebbe, a dire del ricorrente, contraddittoria, perché, da una parte, affermerebbe l’unicità del patto corruttivo al fine di non dichiarare la estinzione del reato per prescrizione, e, dall’altra, farebbe invece espresso riferimento a due distinti accordi corruttivi al fine della quantificazione del profitto anche le dichiarazioni rese da B. sarebbero state travisate, avendo l’imputato affermato che le dazioni furono compiute a seguito di plurimi accordi. Si aggiunge che, ove pure si volesse fare riferimento ad un unico patto corruttivo, nondimeno le multiple dazioni configurerebbero più fatti reato unificati per continuazione che, tuttavia, avrebbero un loro autonomo dies a quo per il decorso della prescrizione. 2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge in relazione agli artt. 322 ter cod. pen. e 129 cod. proc. pen Si sostiene che la confisca avrebbe dovuto essere disposta solo per gli episodi corruttivi non ancora prescritti alla data della sentenza e, quindi, solo in relazione alle dazioni effettuate dal 29.10.2009 200.000 Euro ed a quelle corrisposte nel 2011 100.000 . 2.3. Con il terzo motivo si deduce la violazione della legge penale in relazione all’art. 322 ter cod. pen Secondo il ricorrente, nella specie non sarebbe stato conseguito da parte della società B. s.p.a. un profitto di diretta ed immediata derivazione causale dal reato ne deriverebbe che, in assenza di un profitto, il giudice non avrebbe potuto disporre la confisca per equivalente dei beni dell’imputato per un valore corrispondente ad un non dimostrato profitto. Non costituirebbe profitto in senso tecnico, cioè, quello indicato nella imputazione, cioè il mero inserimento della società nella sfera dei contrattisti delle imprese invitate alle gare di appalto dell’Ente di Stato algerino Sonatrach e la possibilità di contrattare con la società privata Saipem. 3. In data 24/07/2017 è stato proposto un nuovo motivo di impugnazione con il quale si deduce la violazione di legge e l’erronea applicazione degli artt. 110 321 319 ter e 322 ter cod. pen. si sostiene che la sentenza sarebbe viziata nella parte in cui ha disposto la confisca della somma di 2,1 milioni di Euro nei confronti del ricorrente senza tenere conto della natura plurisoggettiva necessaria del reato contestato e, in particolare, del ruolo dei pubblici funzionari ai fini della suddivisione dell’importo della somma ritenuta profitto del reato. Considerato in diritto 1. Il ricorso è fondato limitatamente al terzo motivo. 2. Quanto al primo motivo di ricorso, va evidenziato che l’art. 444, comma 2, cod. proc. pen. impone al giudice di verificare l’insussistenza di una delle cause di non punibilità indicate nel citato art. 129 cod. proc. pen. la cui operatività è necessariamente sottratta ai poteri dispositivi delle parti sulla base degli atti fino a quel momento acquisiti. La giurisprudenza ha sottolineato che si tratta di un’operazione che deve avvenire allo stato degli atti, cioè senza alcuna necessità di un approfondimento probatorio ovvero dell’acquisizione di ulteriori elementi, in quanto l’eventuale pronuncia di proscioglimento può derivare solo qualora le risultanze disponibili rendano palese l’esistenza della causa di non punibilità Sez. un., n. 3 del 25 novembre 1998, dep. 1999, Messina, Rv. 212437 . Al giudice è assegnato un sindacato meramente negativo con riferimento alla responsabilità dell’imputato, dovendo constatare semplicemente l’insussistenza delle cause indicate nell’art. 129 cod. proc. pen., non potendo, quindi, pronunciare sentenza di proscioglimento per mancanza, insufficienza o contraddittorietà delle prove desumibili dagli atti, non rientrando tale possibilità tra quelle esplicitamente indicate dall’articolo citato. L’accusa, se correttamente qualificata, non può essere rimessa in discussione. Il controllo preteso dall’art. 129, comma 1, cod. proc. pen. deve essere compiuto considerando che per effetto dell’accordo sulla pena l’imputato ha rinunciato, non solo a controvertere sulla quantificazione della sanzione, ma anche sul diritto alla prova, accettando di essere giudicato in base agli atti probatori presenti nel fascicolo, rinunciando altresì a controvertere sul fatto. I limiti di quello che è definito un accertamento negativo della non punibilità dell’imputato effettuato in relazione alla sentenza di patteggiamento, caratterizzato da diverse regole di giudizio rispetto a quello sulla sentenza di condanna, condiziona i motivi che possono essere oggetto del ricorso per cassazione, nel senso che la natura negoziale del rito incide in concreto sui ricorsi di legittimità contro questo tipo di sentenze. In particolare, oltre a non poter essere dedotte insufficienze ovvero carenze probatorie, la denuncia dell’errata qualificazione giuridica del fatto è destinata a ricevere un’applicazione limitata. Come è noto, la possibilità di impugnare la sentenza di patteggiamento per denunciare l’erronea qualificazione giuridica del fatto ha dato luogo ad interpretazioni contrastanti, risolte da un intervento delle Sezioni unite sent. n. 5 del 19 gennaio 2000, Neri , le quali hanno statuito che con il ricorso per cassazione può essere denunciata l’erronea qualificazione del fatto come prospettata dalle parti e recepita dal giudice, e ciò perché è lo stesso art. 444 comma 2, cod. proc. pen. ad imporre siffatto controllo, funzionale ad evitare che l’accordo sulla pena si trasformi in accordo sui reati. Tuttavia, proprio in considerazione della natura del patteggiamento e dello scopo del controllo affidato al giudice, la giurisprudenza ritiene che l’impugnabilità per l’erronea qualificazione del fatto debba essere limitata ai casi in cui quella prospettata dalle parti sia palesemente erronea ovvero ai casi in cui la contestazione originariamente delineata dal solo pubblico ministero sia anch’essa manifestamente erronea. La ricorribilità della sentenza di patteggiamento è ammessa nelle sole ipotesi di errore manifesto, ossia quando sussiste realmente l’eventualità che l’accordo sulla pena si trasformi in accordo sui reati, sicché deve essere esclusa tutte le volte in cui la diversa qualificazione presenti margini di opinabilità l’errata qualificazione giuridica del fatto può essere fatta valere solo dinanzi ad un evidente error in iudicando che dissimuli un’illegale trattativa sul nomen iuris , ma non in presenza di una qualificazione che presenti oggettivi margini di opinabilità tra le altre, tante, Cfr., Sez. 7, n. 39600 del 10/09/2015, Casarin. Rv. 264766 Sez. 3, n. 34902 del 24/06/2015, Brughitta, Rv. 264153 Sez. 6, n. 15009 del 27/11/2012 dep. 2013 Bisignani, Rv. 254865 . Non sono consentite impugnazioni che richiamino, come passaggio logico indispensabile della deduzione, aspetti in fatto e probatori che non risultino con immediatezza, quindi senza alcuna possibilità e tantomeno necessità di interpretazione o integrazione, dalla contestazione. Ogni argomentazione, pur in diritto, che non deduca la palese eccentricità della qualificazione giuridica che è stata proposta al Giudice e da questi condivisa, e richieda, per il proprio esame, una premessa in fatto che non risulti con la evidenziata necessaria peculiare immediatezza dal capo di imputazione, è preclusa. 3. Sulla base di tali condivisibili principi, il motivo di ricorso rivela la sua infondatezza, al limita della inammissibilità. Nel caso di specie, non emerge alcun elemento per ritenere che il Giudice abbia errato nella qualificazione dei fatti e, in particolare, nel ricondurli nell’ambito di un unico patto corruttivo, con conseguente decorso del termine di prescrizione solo dalla data dell’ultima dazione di denaro. Al di là della necessità di distinguere le dazioni di denaro in relazione alle singole vicende al fine della quantificazione del profitto del reato, si è chiaramente ritenuto che le somme furono corrisposte in esecuzione di un unico patto corruttivo, che, tuttavia, ebbe modo di esplicitarsi nel tempo sotto diversi profili ed in relazione a diverse vicende. A fronte di tale elemento, con il motivo di ricorso, fondato sulla prospettazione della esistenza di più accordi corruttivi e, quindi, sulla esistenza di una pluralità di reati con conseguente decorrenza di autonomi termini di prescrizione, si adducono argomenti critici quali la pluralità di persone, la diversità di tempo e di luogo in cui gli accordi sarebbero intervenuti, per la cui valutazione sarebbe stata necessaria la verifica dibattimentale L’esame della doglianza rende cioè necessario un preliminare accesso alla ricostruzione in fatto che, tuttavia, è preclusa dal rito prescelto dall’imputato e dalla sua difesa. 3.1. Infondato è altresì l’assunto secondo cui, ove pure si volesse fare riferimento ad un unico patto corruttivo, nondimeno le multiple dazioni configurerebbero più fatti reato unificati per continuazione che, tuttavia, avrebbero un loro autonomo dies a quo per il decorso della prescrizione. Sul punto è sufficiente richiamare il principio affermato dalle Sezioni unite della Corte di cassazione secondo cui il delitto di corruzione si perfeziona alternativamente con l’accettazione della promessa ovvero con la dazione ricezione dell’utilità, e tuttavia, ove alla promessa faccia seguito la dazione ricezione, è solo in tale ultimo momento che, approfondendosi l’offesa tipica, il reato viene a consumazione Sez. un., n. 15208 del 25/02/2010, Mills, Rv. 246583 . Tale principio deve essere posto in connessione con l’ulteriore affermazione, secondo cui il reato è unico se trova la sua genesi in una sola pattuizione corruttiva, a nulla rilevando le plurime attività funzionali del p.u. o le plurime dazioni eventualmente erogate dal soggetto privato. Dunque, il delitto di corruzione è reato a duplice schema perché si perfeziona alternativamente con l’accettazione della promessa o con il ricevimento effettivo dell’utilità, ma, se tali atti si susseguono, il momento consumativo si cristallizza nell’ultimo, che assorbe, facendogli perdere di autonomia, l’atto di accettazione della promessa, perché con l’effettiva prestazione si concretizza l’attività corruttiva e si approfondisce l’offesa tipica del reato Sez. 6, n. 33435 del 04/05/2006, Battistella, Rv. 234360 Sez. 6, n. 35118 del 09/07/2007, Fezia, Rv. 237288 . Ne consegue che correttamente il Giudice dell’udienza preliminare ha ritenuto non estinto per prescrizione il reato di corruzione contestato all’imputato, attesa l’unicità del patto corruttivo e la commissione dell’ultima dazione di denaro nel 2011. 4. È fondato il terzo motivo di ricorso. Il Giudice dell’udienza preliminare ha disposto la confisca per equivalente dei beni di cui l’imputato abbia la disponibilità, fino al valore pari a 2,1 milioni di Euro. Tale somma costituirebbe il profitto derivante dal reato di corruzione che sarebbe stato conseguito dalla società B. s.p.a. in particolare il profitto è stato individuato nella possibilità per la B. s.p.a., società di cui l’imputato era il legale rappresentante, di continuare ad operare nel mercato algerino, vincendo gare di appalto così testualmente la sentenza , cioè nell’essere inserita detta società nei soggetti invitati alle gare di appalto dell’Ente di Stato algerino Sonatrach e tra i contrattisti di Saipem. 5. La questione attiene al se detto vantaggio sia tecnicamente qualificabile come profitto derivante dal reato e quindi suscettibile di confisca. 5.1. È consolidata l’affermazione secondo cui non si rinviene una nozione generale di profitto non solo nel codice penale, ma anche nelle varie disposizioni contenute in leggi speciali che ne prevedono la confisca si tratta di norme che danno la nozione per presupposta, ovvero si limitano a contrapporla ad altri concetti parimenti non definiti, quali quelli di prezzo , corpo e strumento del reato, utilizzandola, peraltro, sia per determinare l’oggetto della confisca, sia ad altri fini, come, cioè, elemento costitutivo della fattispecie di reato o come circostanza aggravante. 5.2. Sulla nozione di profitto, la giurisprudenza della Corte di Cassazione, anche a Sezioni unite, aveva individuato nel tempo una serie di stabili principi 1 il profitto, per rilevare ai fini della disciplina della confisca, deve essere accompagnato dal requisito della pertinenzialità , inteso nel senso che deve derivare in via immediata e diretta dal reato che lo presuppone principio di causalità del reato rispetto al profitto Sez. Un., n. 9194 del 3/07/1996, Chabni, Rv. 205707 Sez. Un., n. 29951 del 24/05/2004, Focarelli, in motivazione Sez. Un., n. 29952 del 24/05/2004, Romagnoli, in motivazione Sez. Un., n. 41936 del 25/10/ 2005, Muci, Rv. 232164 Sez. Un., n. 26654 del 27/03/2008, Fisia Impianti, Rv. 239924 Sez. un., n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, in motivazione . In tutte le sentenze indicate si è sempre fatto riferimento alla circostanza che il parametro della pertinenzialità al reato del profitto rappresenta l’effettivo criterio primario selettivo di ciò che può essere confiscato anche la sentenza delle Sezioni unite, n. 20208 del 25/10/2007, dep. 2008 Miragliotta, Rv. 238700, pur ammettendo la confiscabilità dell’utilità mediata c.d. surrogati-, ha tuttavia affermato la necessità di individuazione di un profitto originario e di accertare i passaggi attraverso i quali si è compiuta la trasformazione dello stesso 2 tale collegamento diretto reato-profitto esiste anche rispetto ai c.d. surrogati, cioè rispetto al bene acquisito attraverso l’immediato impiego/trasformazione del profitto diretto del reato, ma tale estensione del concetto di pertinenzialità trova il suo limite estremo in siffatto requisito di immediatezza del reimpiego , che in sostanza ne garantisce la riconoscibilità probatoria Sez. un., Miragliotta, cit. Sez. un., n. 38691 del 25/06/2009, Caruso 3 in virtù del principio di causalità e dei requisiti di materialità e attualità, il profitto, per essere tipico, deve corrispondere a un mutamento materiale, attuale e di segno positivo della situazione patrimoniale del suo beneficiario ingenerato dal reato attraverso la creazione, trasformazione o l’acquisizione di cose suscettibili di valutazione economica, sicché non rappresenta profitto un qualsivoglia vantaggio futuro, immateriale, o non ancora materializzato in termini strettamente economico-patrimoniali Sez. 5, n. 10265 del 28/12/2013, dep. 2014-, Banca Italease s.p.a., Rv. 258577 ma anche Sez. un. Fisia impianti , cit. 4 quanto al c.d. profitto risparmio di spesa, esso potrebbe assumere rilievo solo se inteso non in senso assoluto ma in senso relativo, presupponendo tale concetto un ricavo introitato e non decurtato dei costi che si sarebbero dovuti sostenere anche nel caso di profitto risparmio sarebbe stato, cioè, necessario un risultato economico positivo concretamente determinato Sez. un., Fisia impianti , cit nello stesso senso, anche letteralmente, Sez. 6, n. 35490 del 28/05/ 2013, dep. 2014 Ri.va. Fire s.p.a. ed altro, Rv. 244274 . Il tema del profitto risparmio di spesa è stato storicamente connesso con quello dei reati tributari in relazione ai quali era condivisa l’affermazione secondo cui l’illiceità connota non la produzione della ricchezza da sottoporre a tassazione quanto, piuttosto, la sua sottrazione a tassazione. Si assumeva che il profitto non potesse essere assoggettato a confisca diretta perché 1 il valore sottratto, cioè l’imposta non corrisposta, essendo già presente nel patrimonio del reo, non poteva considerarsi proveniente da reato 2 era impossibile ricostruire il nesso di derivazione tra res , cioè il denaro risparmiato, e il reato. Si affermava, cioè, che in tema di reati tributari il profitto consistesse, salvo in casi eccezionali, solo in un mancato esborso conseguente all’inadempimento di un obbligazione di pagamento. Sul punto, era intervenuto il legislatore, attraverso l’art. 1, comma 143, della legge finanziaria 24 dicembre 2007, n. 244, prevedendo espressamente l’applicabilità dell’art. 322 ter cod. pen. ai reati tributari. Le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno poi affermato il principio secondo cui, in tema di reati tributari, il profitto confiscabile anche nella forma per equivalente è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito dalla consumazione del reato e può dunque consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovuti a seguito dell’accertamento del debito tributario Sez. un., n. 18734 del 31/01/2013, Adami, Rv. 255036 . 5.2. In tale articolato quadro di riferimento, si colloca Sez. un., n. 2014 del 30/01/2014, Gubert, con cui è stata recepita una nozione di profitto funzionale alla confisca molto più ampia perché capace di accogliere al suo interno non soltanto i beni appresi per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma anche ogni altra utilità che sia conseguenza, anche indiretta o mediata, dell’attività criminosa . la trasformazione che il denaro, profitto del reato, abbia subito in beni di altra natura, fungibili o infungibili, non è quindi di ostacolo al sequestro preventivo il quale ben può avere ad oggetto il bene di investimento così acquisito. Infatti, il concetto di profitto o provento di reato legittimante la confisca e quindi nelle indagini preliminari, ai sensi dell’art. 321, comma 2, cod. proc. pen., il suddetto sequestro, deve intendersi come comprensivo non soltanto dei beni che l’autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma altresì di ogni altra utilità che lo stesso realizza come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa . Sul tema sono nuovamente intervenute le Sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza emessa n. 38343 del 24/04/2014, Rv. 261117, nel processo per i tragici fatti della Tyssen . La Corte di cassazione ha sostanzialmente recepito il principio affermato nella sentenza Gubert secondo cui il concetto di profitto o provento di reato legittimante la confisca deve intendersi come comprensivo non soltanto dei beni che l’autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma altresì di ogni altra utilità che lo stesso realizza come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa . 5.3. Sul tema, obiettivamente intricato, sono nuovamente intervenute le Sezioni Unite della Corte di cassazione, ribadendo il principio secondo cui profitto è solo il vantaggio di immediata e diretta derivazione causale dal reato Sez. un., n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264436 successivamente, nello stesso senso, Sez. 6, n. 33226 del 14/07/2015, Azienda Agraria Greenfarm di Guido Leopardi, Rv. 264941 Sez. 2, n. 53650 del 05/10/2016, Maiorano, Rv. 268854 . 6. Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Milano non ha fatto corretta applicazione dei principi indicati. Sia che si voglia fare riferimento alla nozione di profitto tradizionalmente recepita dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, sia che invece si voglia recepire la nozione più ampia avallata dalle pronunce Gubert e Tyssen il profitto deve comunque corrispondere a un mutamento materiale, attuale e di segno positivo della situazione patrimoniale del suo beneficiario ingenerato dal reato attraverso la creazione, trasformazione o l’acquisizione di cose suscettibili di valutazione economica Non costituisce profitto del reato un qualsivoglia vantaggio che, pur derivante dal reato, tuttavia sia futuro, sperato, eventuale, solo possibile, immateriale o non ancora materializzato in termini strettamente economico-patrimoniali. Il profitto non coincide con una mera aspettativa di fatto, con una mera chance , salvo che questa, in quanto fondata su circostanze specifiche, non presenti caratteri di concretezza ed effettività tale da costituire essa stessa una entità patrimoniale a sé stante, autonoma, giuridicamente ed economicamente suscettibile di valutazione in relazione alla sua proiezione sulla sfera patrimoniale del soggetto. Nel caso di specie, si è fatto coincidere il profitto del reato non con il vantaggio derivante dalle possibili gare di appalto aggiudicate alla B. s.p.a. per effetto della corruzione, né con i vantaggi derivanti dai contratti stipulati con Saipem, ma con la mera possibilità per la società in questione di partecipare in futuro a gare di appalto o di essere inserita negli elenchi dei soggetti contrattisti di Saipem. Tale possibilità, tuttavia, non costituisce un vantaggio concreto valutabile in relazione alla sfera patrimoniale del soggetto, né si è affermato che la mera possibilità di partecipare ad una gara, ovvero di essere ammessi alla fase di contrattazione, realizzi nella vicenda in esame una chance autonomamente qualificabile in termini di entità patrimoniale automa e, quindi, di profitto. Ne deriva che nella specie, non potendo essere tecnicamente individuato un profitto del reato, non poteva essere disposta la confisca per equivalente sui beni dell’imputato. La sentenza deve pertanto essere annullata sul punto senza rinvio. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla confisca disposta e rigetta nel resto il ricorso.