L’occasione fa il dipendente ladro (e il peculato)

La materiale disponibilità della cosa può non essere direttamente succedanea alle mansioni d’ufficio, siccome non prescritto al dipendente/amministratore il possesso della cosa illecitamente acquisita. Altrettanto rigorista è ormai la giurisprudenza di legittimità sull’accesso abusivo del dipendente al sistema informatico ex art. 615-ter c.p. a rilevare è l’accesso, al di là dei fini e delle abilitazioni alla permanenza nel sistema.

Così la Cassazione, sesta sez. penale, n. 57521/2017, depositata il 22 dicembre. Il fatto. 910mila euro finiti nelle tasche dei dipendenti di una azienda municipalizzata ritiravano i soldi delle bollette di ignari utenti, attestavano falsamente per via cartolare il pagamento facendone risultare il saldo sui database dell’azienda. Condannati anche in appello per peculato ex art. 314 c.p., accesso abusivo al sistema informatico ex art. 615- ter c.p. e falso ideologico ex art. 476 c.p., in continuazione ex art. 81 c.p La Cassazione conferma. Truffa ex art. 640 c.p. – più blandamente punibile - o peculato ex art. 314 c.p. a rilevare è l’istante dell’appropriazione della cosa pubblica. I cittadini versavano denari ai dipendenti, confidando dai medesimi nell’attività solutoria delle debenze d’utenza. I giudici del merito, con il plauso di quelli di legittimità che hanno respinto le doglianze della difesa, hanno correttamente configurato la condotta dei dipendenti nel recinto del peculato – anziché della truffa - in quanto l’appropriazione della cosa pubblica non ha seguito la condotta dissimulatoria – a seguito di artifizi e raggiri - bensì l’ha preceduta, ai fini della definitiva acquisizione illecita dei valori. La semantica del concetto di disponibilità della cosa di proprietà pubblica nel peculato. D’altro lato il concetto di disponibilità, ai fini del peculato, è alquanto vasto ed eterogeno. Nel caso i giudici hanno verificato, in astratto, che non costituiva ipotesi irreale quella del pagamento degli importi dovuti brevi manu presso i dipendenti – parimenti dunque esclusa è stata l’ipotesi del reato impossibile, ex art. 49, comma 2, c.p., per impossibilità del verificarsi dell’evento di reato -, dovendo includere nell’area di disponibilità cit. qualsiasi somma o cosa acquisita in ragione delle incombenze d’ufficio. Anche qualora non fosse stata prevista dall’ordinamento interno dell’azienda altra forma di pagamento che non fosse stata quella telematica, l’acquisizione indebita delle somme cit. avrebbe configurato il peculato. Eventualmente, solo il caso fortuito della disponibilità della somma, alieno a qualsiasi ipotesi prevista fra le mansioni d’ufficio, avrebbe potuto escludere la specificità del peculato. Caso qui non configurato. Accesso abusivo al sistema informatico ex art. 615-ter c.p. prosegue la linea rigorista. A far seguito alla pronuncia delle Sezioni Unite n. 41210/17 , la giurisprudenza ha tracciato un ambito applicativo del reato estremamente vasto, tale da includere condotte di permanenza nel sistema al di là degli specifici scopi perseguiti. E’ reato intrattenersi nel sistema informatico in violazione di qualunque regolamentazione. In specie, gli imputati avevano utilizzato strumenti informatici in grado di poter celare l’identità dell’accedente, a loro consentita l’abilitazione per l’accesso nel sistema informatico. La norma trasgredita può essere costituita da norme prescrittive dell’accesso ai sistemi informativi rilevanti ex art. 615- ter cit. ed altre disposizioni interne variamente denominate. Inoltre rilevano anche gli obblighi di rango legislativo di fedeltà del pubblico dipendente, di riservatezza, di buon andamento della pubblica amministrazione ed altre norme generali, per l’effetto che l’assenza di specifiche violazioni delle norme interne può non impedire l’integrazione del reato. Rileva la condotta di accesso, non il fine. Pur non violata alcuna disposizione interna, ai fini della configurazione del reato sono irrilevanti gli scopi e le finalità dell’accesso. A rilevare è la mera condotta di accesso abusivo nel sistema informatico. Quando violati i principi per la trattazione del procedimento amministrativo – fine d’istruzione, di proposta e deliberativa – che conformano l’attività del dipendente in buona fede, l’abusivo accedente al sistema informatico risulta punibile, pur in astratto abilitato alla trattazione dei dati.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 6 – 22 dicembre 2017, n. 57521 Presidente Carcano – Relatore Tronci Ritenuto in fatto 1. I difensori di fiducia di D.B.C. e F.C. , dipendenti entrambi della AMAP s.p.a. - società partecipata integralmente dal comune di e concessionaria del servizio pubblico idrico e delle attività correlate ricorrono tempestivamente, ciascuno con un proprio e distinto atto, avverso la sentenza in data 13.12.2016 con cui la Corte di appello di Palermo ha confermato la pronuncia emessa dal g.u.p. del Tribunale dello stesso capoluogo, di condanna dei due imputati alla pena di anni cinque di reclusione ciascuno oltre sanzione accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici e statuizioni civili , in ragione della loro affermata colpevolezza per i reati di peculato, falso materiale ed ideologico in atto pubblico il primo commesso al di fuori dell’esercizio delle proprie funzioni, quali soggetti privati, il secondo quali pubblici dipendenti, rilevando la veste di pubblico ufficiale propria del F. , falso in documenti informatici ed accesso abusivo al sistema informatico, unificati nel vincolo della continuazione. Tanto con riferimento al sistema fraudolento predisposto, secondo la tesi accusatoria recepita dai giudici di merito, dai due imputati - il F. quale capo unità dell’Ufficio contabilità clienti dell’AMAP e perciò pubblico ufficiale il D.B. quale addetto al medesimo ufficio, con mansioni non meramente esecutive e perciò incaricato di pubblico servizio presso la società medesima - sistema consistente nel selezionare utenti ai quali spesso i due imputati erano legati da pregressi rapporti di amicizia o fiducia, per poi proporre agli stessi la possibilità di pagare le bollette per il consumo idrico direttamente presso di loro, in contanti , onde quest’ultimi, attratti dal vantaggio di evitare lunghe file d’attesa presso gli sportelli preposti al pagamento, consegnavano al D.B. ed al F. le somme dovute all’AMAP , ricevendo in cambio bollettini postali previamente falsificati, a dimostrazione dell’avvenuto versamento del dovuto, ovvero altrettanto false attestazioni di pagamento apposte sulle fatture emesse dall’AMAP, con l’utilizzo del timbro della società. Provvedendo poi, gli imputati medesimi, ad introdursi abusivamente nel sistema informatico di contabilità dell’AMAP e ad alterare i dati in esso contenuti, al fine di far figurare come pagate le bollette il cui importo era stato loro consegnato in contanti dagli utenti . 2. Il ricorso proposto nell’interesse del D.B. si articola attraverso i seguenti profili di censura, tutti ai sensi dell’art. 606, co. 1, lett. b ed e , cod. proc. pen. 2.1 violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione alla mancata declaratoria di decadenza dalla costituzione di parte civile del comune di , costituzione che lo stesso g.i.p. aveva formalmente dichiarato revocata per via della mancata presentazione di conclusioni all’udienza a tal fine fissata, salvo poi far luogo ad una non prevista rimessione in termini dell’anzidetta parte civile, che la Corte distrettuale ha avallato sulla scorta di un’interpretazione dell’art. 82 cod. proc. pen., definita distonica dal suo evidente significato , peraltro sulla scorta di un ragionamento reputato non aderente al caso di specie 2.2 violazione di legge e vizio di motivazione, per avere il giudice d’appello disatteso la richiesta difensiva di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, in funzione dell’acquisizione dei bilanci dell’AMAP, nonostante la ritenuta necessità di siffatto accertamento, ai fini della verifica tanto dell’effettiva esistenza di un danno in capo alla detta società, quanto dell’entità del danno medesimo, ove esistente, trattandosi di un dato imprescindibile in ottica accusatoria, ma anche per quanto concerne la dosimetria della pena 2.3 violazione di legge e vizio di motivazione, in punto di qualificazione giuridica del fatto di reato di cui al capo a della rubrica, asseritamente da ricondursi in seno al paradigma di cui all’art. 640 cod. pen., e non a quello dell’art. 314 dello stesso codice, avendo la Corte territoriale omesso di considerare, malgrado la corretta distinzione delle due ipotesi criminose tratteggiata in astratto, che il D.B. non aveva il possesso del denaro in ragione del ruolo rivestito, perché lo stesso proprio con artifizi e raggiri riusciva a farsi consegnare le somme di denaro per il pagamento di bollette che, diversamente, gli utenti non avrebbero mai dovuto consegnare al prevenuto, addetto all’ufficio di contabilità, ma non all’ufficio casse , non senza aggiungere - a maggior supporto dell’assunto in questione - come da numerosi anni il pagamento fosse consentito solo a mezzo bancomat e non anche in contanti 2.4 violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione al reato di falso di cui agli artt. 476 e 482 cod. pen., sub b , in rapporto all’art. 49 dello stesso codice, non avendo la sentenza impugnata correttamente ed adeguatamente motivato in ordine alle diverse e puntuali ragioni prospettate dalla difesa nell’atto di appello con specifico riguardo alla grossolanità del falso , a nulla asseritamente valendo le convinzioni ed i convincimenti delle parti civili, quali valorizzati dalla Corte d’appello, a fronte del dato oggettivo costituito dalla mancata ricezione di pagamenti in contanti da parte dell’AMAP da oltre dieci anni e della sicura consapevolezza di ciò in capo alle parti offese, che di professione svolgono l’attività di amministratore di condominio , tanto più alla luce della farsa della sostituzione dei primi bollettini con una ‘secondà partita di ricevute mai meglio descritte . 2.5 violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento al reato previsto e punito dall’art. 615 ter cod. pen., sub e , dovendosi considerare integrato il reato di cui trattasi, in conformità all’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, solo se la condotta del soggetto agente viola le condizioni e le prescrizioni impartite al fine di delimitarne oggettivamente l’accesso 2.6 violazione di legge e vizio di motivazione, avuto riguardo al trattamento sanzionatorio, discriminatorio rispetto a quello applicato al correo che ha sempre negato ogni coinvolgimento, ed al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche . 3. Quanto al ricorso redatto dal difensore di fiducia del F. , deduce il legale 3.1 violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione alla ritenuta colpevolezza dell’imputato in ordine al reato di peculato, sotto un duplice profilo perché solo due episodi, tra gli innumerevoli riferiti alla p.g. , vedrebbero il coinvolgimento del prevenuto, peraltro asseritamente maturato in circostanze eccezionali, verificatesi indipendentemente dalla volontà del F. , a carico del quale nessun altro elemento si assume essere emerso nel corso delle indagini perché, dal punto di vista della qualificazione giuridica, il comune di socio di AMAP s.p.a. non ha alcun ruolo nei rapporti con la clientela e, per quanto di interesse nella vicenda in esame, tali rapporti sono regolati esclusivamente dagli schemi contrattuali di fornitura di servizi, previsti dal codice civile , cosicché il fatto avrebbe dovuto essere comunque ricondotto entro lo schema dell’appropriazione indebita 3.2 violazione di legge e vizio di motivazione, in rapporto alle false attestazioni di pagamento di cui ai capi b e c della rubrica quanto al reato sub c , stante la ritenuta assenza di qualsivoglia elemento di prova a carico dell’imputato de quo, come eccepito già con l’atto di appello, le cui censure sarebbero tuttavia rimaste prive di risposta quanto al reato sub b , per via dell’erronea e travisante attribuzione al F. della paternità della falsificazione dei timbri digitalmente artefatti, riproducesti attestazioni di pagamento ad opera di poste private , malgrado le precise quanto - si assume - ignorate considerazioni svolte dal C.T.P., in uno con l’avvenuto ritrovamento dei files artefatti nell’abitazione del D.B. 3.3 violazione di legge e vizio di motivazione, avuto riguardo al reato di falso informatico sub d , poiché anche in questo caso sarebbe del tutto carente la prova del coinvolgimento del F. , risultando peraltro erroneo - in tesi anche il rigetto della richiesta subordinata di assorbimento in detto reato di quello di cui all’art. 615 ter cod. pen., atteso che, nel caso di specie, il falso materiale in atto pubblico consiste proprio nell’accesso abusivo al sistema informatico finalizzato alla falsificazione dei pagamenti mediante apposizione di flag 3.4 violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento al testé ricordato reato ex art. 615 ter cod. pen., posto che la declaratoria di colpevolezza dell’imputato per detto addebito contrasterebbe con l’accertata, mancata disponibilità del necessario software, laddove le argomentazioni svolte dalla Corte distrettuale per far fronte a tale dato sarebbero espressione di autentico travisamento della prova , alla luce sia dell’esito delle indagini condotte da personale altamente specializzato della Guardia di Finanza , sia delle dichiarazioni del coimputato D.B. , da ritenersi coerentemente credibili anche nella presente vicenda 3.5 violazione di legge, mancata assunzione di prova decisiva e vizio di motivazione, con riferimento alla disattesa richiesta di acquisizione dei bilanci dell’AMAP, da ritenersi finalizzata alla verifica non già della effettiva sussistenza di un danno economico , bensì della esatta quantificazione del danno medesimo, ai fini dell’applicazione della previsione normativa del sequestro per equivalente , non essendo a tal fine sufficiente - giusta la tesi qui sostenuta - il semplice elenco di fatture allegato alla denuncia presentata dall’ing. C.V. , da cui ha preso le mosse il presente procedimento, così come rappresentato dalla Corte distrettuale, la cui motivazione - si prosegue - risulta in contrasto con quella del primo giudice, a dimostrazione ulteriore della sua ritenuta illogicità 3.6 violazione di legge e vizio di motivazione, in ordine allo specifico motivo di gravame relativo alla valutazione delle dichiarazioni del coimputato, ai sensi dell’art. 192 co. 3 c.p.p.”, considerate attendibili, benché estremamente contraddittorie e in alcuni punti smentite dalle risultanze processuali , e nondimeno disattese là dove il D.B. , almeno con riferimento ai reati di cui ai capi d ed e , ha escluso categoricamente la partecipazione del F. alle condotte contestate 3.7 violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione al trattamento sanzionatorio adottato a carico dell’imputato in questione, per non avere, i giudici d’appello, dato conto adeguatamente della scelta del g.u.p. di discostarsi dal minimo edittale, malgrado le censure al riguardo formalizzate, senza adeguare l’irrogazione in concreto della pena, attraverso gli strumenti forniti dal legislatore con l’art. 62 bis c.p. e i parametri dallo stesso stabiliti per muovere dal minimo al massimo edittale della pena, secondo il disposto dell’art. 133 c.p. . Considerato in diritto 1. La sentenza impugnata non merita le censure avverso essa rivolte dai due atti d’impugnazione, di cui s’impone pertanto il rigetto, con le conseguenti statuizioni di legge. 2. Vanno innanzi tutto delibate le questioni preliminari sollevate dalla difesa del D.B. , la seconda delle quali è altresì comune al ricorso redatto nell’interesse del F. . 3. Non ha fondamento la dedotta violazione di legge, relativamente alla presenza in giudizio della parte civile comune di , che la Corte distrettuale - così confermando il provvedimento del primo giudice - ha tenuto ferma, pur a fronte di conclusioni formalizzate in altra e successiva udienza rispetto a quella in cui era previsto l’intervento finale del suo patrono, rilevando, per un verso, come i casi di revoca della costituzione di parte civile siano unicamente quelli disciplinati dall’art. 82 cod. proc. pen., e, per altro verso, come il mancato rispetto dell’ordine delle discussioni, pur previsto dall’art. 523 dello stesso codice, non sia nondimeno stabilito a pena di nullità. 3.1 Meramente suggestivo è il primo argomento sviluppato dal ricorso a sostegno della propria tesi, incentrato - come già si è avuto modo di rilevare sulla omessa considerazione che la costituzione di parte civile del comune di era stata già oggetto di provvedimento di revoca, adottato dal g.u.p. con ordinanza del 21.07.2015, non essendo peraltro contemplata dalla legge alcuna rimessione in termini , rilevante al fine che ne occupa. 3.2 Ad inficiare in radice la prospettazione della difesa è la constatazione che la revoca della costituzione di parte civile non può che rientrare nell’ambito delle ipotesi tassativamente disciplinate dal legislatore, di cui il giudice è tenuto a verificare la conformità al caso concreto sottoposto al suo esame. Premesso che il secondo comma dell’art. 82 del codice di rito prevede testualmente che La costituzione si intende revocata se la parte civile non presenta le proprie conclusioni a norma dell’art. 523, ovvero se promuove l’azione davanti al giudice civile , nella presente vicenda processuale il giudice, in tal senso appositamente sollecitato dalle difese degli imputati, ha ritenuto revocata la costituzione della parte civile di cui trattasi per effetto della mancata comparizione del relativo difensore sia all’udienza fissata per la presentazione delle sue conclusioni, che a quella successiva, senza peraltro che risultasse ancora ultimata la fase della discussione, stante il contestuale differimento del processo ad altra data per eventuali repliche, oltre che per la decisione. Detta circostanza, da ultimo indicata, va debitamente posta in correlazione con il principio, già affermato dalla giurisprudenza di questa Corte ed opportunamente richiamato dalla sentenza impugnata, secondo cui Il mancato rispetto dell’ordine della discussione ex art. 523 cod. proc. pen., non integra una causa di nullità, prevista solo per l’ipotesi di violazione del diritto di replica spettante all’imputato e al difensore, contemplata dal comma quinto dello stesso articolo così Sez. 5, sent. n. 2641 del 17.09.2015 - dep. 21.01.2016, Rv. 265923, in una fattispecie in cui sono state ritenute legittime le conclusioni della parte civile proposte successivamente alla discussione della difesa il che si conforma, appunto, al dato testuale della citata disposizione codicistica v. anche, negli stessi termini, Sez. 5, sent. n. 41141 del 17.10.2001, nella cui parte motiva si rileva che devono ritenersi tempestive le conclusioni presentate dalla parte civile prima che abbia termine l’intera fase della discussione, non essendo necessario che esse precedano l’inizio della discussione da parte dell’imputato . Disposizione che - non è inutile ricordarlo - riproduce nella sostanza il tenore della corrispondente norma dettata dall’art. 468 del codice di rito del 1930, in ordine alla quale si era affermato, convergentemente e ripetutamente, che, Qualora la parte civile si sia già costituita e la sua costituzione non sia stata in alcun modo contestata, non possono essere ritenute tardive, e quindi inducenti alla revoca tacita della predetta costituzione, le attività espletate da essa parte civile consistenti nella presentazione delle conclusioni e della nota delle spese da parte del difensore della parte civile presente al dibattimento, allorché si sia già conclusa la requisitoria del P.m. o sia già iniziata l’arringa del difensore dell’imputato. Infatti, il momento prescritto di cui all’art. 468 c.p.p., per la presentazione delle conclusioni è quello compreso tra la fine della istruttoria dibattimentale e la chiusura del dibattimento, senza che possa aversi riguardo all’ordine delle discussioni indicato nel primo comma di detto articolo, trattandosi di un ordine non stabilito a pena di nullità, salvo che l’imputato o il suo difensore non abbiano chiesto ed ottenuto per ultimi la parola così, per tutte, Sez. 4, sent. n. 2719 del 25.11.1986 - dep. 04/03/1987, Rv. 175269 . 3.3 In definitiva, pertanto, non si è qui in presenza di una sorta di rimessione in termini della parte civile, in effetti non prevista dagli istituti disciplinati dal vigente codice di procedura penale, bensì della legittima revoca di un’ordinanza intempestivamente adottata, a fronte di un’irregolarità non processualmente sanzionata. Essendo appena il caso di puntualizzare che la pronuncia n. 38998 del 24.04.2009 di questa Corte, invocata dal ricorrente, relativa alla mancata comparizione nella fase della discussione della parte civile che abbia presentato proprie conclusioni scritte, oltre ad essere espressione di un orientamento niente affatto univoco cfr., in senso contrario, Sez. 5, sent. n. 34922 del 29.04.2016, Rv. 267769 , in ogni caso non si attaglia alla vicenda processuale di cui si discute, in cui è fuor di dubbio che la parte civile sia comparsa ed abbia rassegnato le proprie conclusioni, seppur - si ripete - in un momento diverso da quello inizialmente previsto. Quanto precede vale, ad un tempo, a confutare l’apodittico ed ulteriore assunto difensivo, secondo il quale l’interpretazione della Corte palermitana sarebbe distonica rispetto al difforme significato dell’art. 82 c.p.p., definito evidente benché non meglio precisato, di cui si sarebbe in tal modo patrocinata un’interpretazione in malam partem nei confronti dell’imputato , nonostante che la norma sia diretta chiaramente a definire le modalità dell’esercizio del potere di revoca riconosciuto alla parte civile, nonché le ipotesi di revoca presunta, ex lege. 4. Altrettanto inconsistente è la censura che investe il rigetto della richiesta della richiesta di acquisizione dei bilanci dell’AMAP s.p.a In linea generale, è principio consolidato che, per effetto dell’opzione esercitata per la celebrazione del processo allo stato degli atti, l’imputato rinuncia al diritto di assumere prove diverse da quelle già acquisite in atti, ovvero richieste sotto forma di condizione ai sensi dell’art. 438 c.p.p., comma 5, cosicché la possibilità di disporne l’acquisizione è rimessa esclusivamente al potere d’ufficio riconosciuto al giudice, ancorché a seguito di sollecitazione dell’interessato, e da attivarsi nei limiti dell’assoluta necessità cfr. l’art. 441 co. 5 cod. proc. pen., nonché, per il grado d’appello, il disposto dell’art. 603 co. 3 dello stesso codice non vi è pertanto un diritto delle parti passibile di tutela cfr., da ultimo, Sez. 2, sent. n. 17103 del 24.03.2017, Rv. 270069 ed il provvedimento del giudice, purché congruamente motivato, non è sindacabile in sede di legittimità. Tanto premesso, la Corte palermitana ha osservato essere stata raggiunta in atti, alla stregua della ricostruzione operata dal primo giudice e convalidata in sede d’appello - peraltro neppure posta in discussione, benché solo dalla difesa del D.B. - la solida prova della condotta appropriativa posta in essere dagli imputati, tale che la eventuale verifica che, in seno ai bilanci di cui gli appellanti hanno chiesto l’acquisizione, non era stato registrato alcun ammanco non potrebbe avere alcuna influenza né in ordine alla prova della sussistenza delle appropriazioni, né in ordine all’esatta determinazione del relativo ammontare. Circostanza, questa, avente portata assorbente anche rispetto al pur rilevato carattere esplorativo della richiesta in questione, in spregio alla previsione del ricordato art. 603 del codice di rito. Trattasi di argomentazioni senza meno corrette e lineari, a fronte delle quali non residuano spazi vuoti da colmare, in funzione dell’acquisizione dei dati necessari per la corretta determinazione del trattamento sanzionatorio v. ricorso D.B. , come pure ai fini dell’altrettanto corretta applicazione del dettato dell’art. 322 ter cod. pen., in tema di confisca per equivalente v. ricorso F. . 5. Non hanno reale fondamento neppure le altre censure formalizzate nell’interesse del D.B. , a partire da quella inerente all’esatta qualificazione giuridica dei fatti ascritti sub a , dei quali l’imputato non contesta la paternità. Non è qui in discussione - poiché lo stesso ricorrente ne riconosce la persistente validità - l’ampiamente consolidato principio elaborato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo il quale la differenza di fondo fra le fattispecie disciplinate, rispettivamente, dall’art. 314 e dall’art. 640 cpv. c.p., risiede nel fatto che nel delitto di peculato il possesso e la disponibilità del denaro per determinati fini istituzionali è un antecedente della condotta incriminata, mentre nella truffa l’impossessamento della cosa è l’effetto della condotta illecita donde il corollario per cui è al rapporto tra possesso, da una parte, ed artifizi e raggiri, dall’altra, che deve aversi riguardo, nel senso che, qualora questi ultimi siano finalizzati a mascherare l’illecita appropriazione da parte dell’agente del denaro o della res di cui già aveva legittimamente la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio, ricorrerà lo schema del peculato qualora, invece, la condotta fraudolenta sia posta in essere proprio per conseguire il possesso del denaro o della cosa mobile altrui, sarà integrato il paradigma della truffa aggravata. In altri termini, ciò che rileva è il modo con il quale il funzionario infedele acquista il possesso del denaro o del bene costituente l’oggetto materiale del reato il momento consumativo della truffa coincide con il conseguimento del possesso a cagione dell’inganno e quale diretta conseguenza di esso, il che significa appropriazione immediata e definitiva del denaro o della res a vantaggio personale dell’agente il peculato presuppone il legittimo possesso disponibilità materiale o giuridica , per ragione dell’ufficio o del servizio, del denaro o della res, che l’agente successivamente fa propri, condotta quest’ultima che, anche se eventualmente caratterizzata da aspetti di fraudolenza, non esclude la configurabilità del delitto di cui all’art. 314 c.p., fatte salve le ulteriori ipotesi di reato eventualmente concorrenti. Rispetto a quanto precede, è solo il caso di osservare che la sfera di operatività della norma incriminatrice dettata dal succitato art. 314 - fermo il rispetto del criterio discretivo testé ricordato - non è certo circoscritta al solo caso in cui il funzionario infedele controlli materialmente la cosa pubblica di cui si appropria, attesa la ben più ampia latitudine propria del concetto di disponibilità , che è contenuto nel precetto in esame. A tale proposito, è stato anche di recente affermato, in generale, che il possesso qualificato dalla ragione dell’ufficio o del servizio non è solo quello che rientra nella competenza funzionale specifica del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, ma anche quello che si basa su un rapporto che consenta al soggetto di inserirsi di fatto nel maneggio o nella disponibilità della cosa o del denaro altrui, rinvenendo nella pubblica funzione o nel servizio anche la sola occasione per un tale comportamento così si legge, infatti, nella motivazione della sentenza n. 18177 del 03.03.2016 della Sezione 6, Rv. 266985, emessa in relazione all’ipotesi della condotta di un ufficiale giudiziario che si faceva consegnare dalla cassa dell’ufficio UNEP somme maggiori rispetto a quelle necessarie per l’espletamento dell’attività d’ufficio, ricorrendo poi all’alterazione della documentazione per occultare l’illecita apprensione v., in senso conforme, Sez. 6, sent. n. 20952 del 13.05.2009, Rv. 244280 . Principio affermato in fatto anche da Sez. 6, sent. n. 4959 del 21.10.2014 - dep. 03.02.2015, Rv. 262156, che ha ravvisato il reato previsto e punito dall’art. 314 c.p., nella condotta dell’ufficiale giudiziario che, nel corso di una procedura di pignoramento, senza procedere alla previa redazione del relativo verbale, aveva versato su conti correnti bancari a sé intestati le somme di denaro portate da assegni bancari sottoscritti dai debitori esecutati e solo successivamente aveva tramutato le stesse in assegni circolari versati in favore dei creditori pignoranti ciò in quanto la violazione dei doveri d’ufficio, determinata dalla mancata redazione del verbale di pignoramento, aveva costituito esclusivamente la modalità della condotta di appropriazione, mentre il comportamento fraudolento era stato finalizzato unicamente all’occultamento dell’illecita appropriazione v., per un’ipotesi del tutto sovrapponibile, Sez. 6, sent. n. 12306 del 26.02.2008, Rv. 239212 . 5.1 Facendo applicazione di detti principi, non può che pervenirsi alla conclusione dell’assoluta correttezza della qualificazione giuridica dei fatti contestati, quale tratteggiata dalla contestazione d’accusa, recepita da entrambe le sentenze dei giudici di merito. La sottolineatura difensiva circa l’acquisizione con l’inganno del denaro consegnato dagli utenti - in larga parte costituiti da amministratori di condomini, con rapporti di pregressa conoscenza principalmente con l’imputato - per il pagamento delle bollette, in spregio al regolamento interno, che da anni ne vietava l’effettuazione mediante denaro contante, non sposta affatto i termini della questione, in linea con quanto sopra appena precisato. Del che si trae conferma sulla scorta di due convergenti rilievi il primo è che il capo d’accusa, sintomaticamente, ravvisa la condotta fraudolenta a carico degli odierni ricorrenti sotto tutt’altro profilo, ossia nell’aver simulato il pagamento mediante consegna agli utenti di quietanze false e attraverso l’alterazione dei sistemi informatizzati dell’AMAP facendo risultare l’avvenuto incasso delle somme relative alle bollette il secondo è che, Ai fini della configurabilità del reato di peculato, il possesso della cosa oggetto di appropriazione non può ritenersi determinato da ragioni di ufficio o servizio qualora sia stato conseguito per un evento fortuito ovvero per il fatto del terzo che abbia consegnato il bene al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio, ma non in ragione delle mansioni svolte dai medesimi così Sez. 6, sent. n. 39363 del 23.09.2010, Rv. 248789 il che è l’esatto contrario di quanto avvenuto nella vicenda in esame, così come pacificamente ricostruita, in cui la consegna delle somme al D.B. - che non a caso la sentenza impugnata rappresenta avvenisse quasi sempre presso l’ufficio del prevenuto - ovvero anche al F. è inscindibilmente collegata alla veste sua propria di addetto all’ufficio contabilità o, nel caso del coimputato, di capo unità del medesimo ufficio . Essa, cioè, si conforma puntualmente all’ampio concetto di disponibilità di cui si è detto in precedenza, comprensivo altresì dell’acquisizione materiale della res oggetto del reato, valendo quindi a dimostrare come il conseguimento del denaro - in quanto pacificamente affidato dalle persone offese perché si provvedesse al pagamento dei consumi idrici fatturati e, dunque, con un preciso vincolo di destinazione - si ricollega qui giusto alle mansioni svolte dall’incaricato di pubblico servizio D.B. o dal pubblico ufficiale F. , pur se non esattamente corrispondenti a quelle di cassiere, a nulla rilevando l’avvenuta violazione delle disposizioni organizzative dell’ufficio al riguardo. 5.2 Per ragioni di organicità della presente trattazione, conviene affrontare in questo paragrafo anche l’ulteriore profilo sollevato, sempre in tema di qualificazione giuridica della medesima condotta illecita sub a , dalla difesa del F. , che investe la differente questione della sussistenza, in capo agli imputati, della qualità richiesta dalla norma incriminatrice dettata dall’art. 314 cod. pen La tesi negativa propugnata dalla difesa - che, come già si è avuto modo di rilevare, si basa sull’asciutta constatazione che i rapporti dell’AMAP con la clientela sono regolati esclusivamente dagli schemi contrattuali di fornitura di servizi, previsti dal codice civile , non avendo in essi alcuna veste il comune di , che è solo socio di AMAP - va parimenti disattesa, per via della sua sicura infondatezza. Conclusione che discende dal principio, reiteratamente enunciato in sede di legittimità, che Riveste qualifica di incaricato di pubblico servizio il dipendente di una società di diritto privato ad intera partecipazione pubblica, che operi per il soddisfacimento di finalità tipicamente pubbliche Nella specie, la S.C. ha ritenuto configurabile il reato di peculato nella condotta di impossessamento di materiali di consumo in dotazione della società incaricata della raccolta dei rifiuti solidi urbani, posta in essere da operaio addetto a tale servizio in concorso con il responsabile della struttura così, per tutte, Sez. 6, sent. n. 49286 del 07.07.2015, Rv. 265702 ciò che non può essere negato nella fattispecie, essendo l’AMAP - peraltro società interamente partecipata dal comune di - concessionaria del servizio idrico, con tutte le connesse attività, sulla cui connotazione d’interesse pubblico non merita davvero soffermarsi oltre. 6. Manifestamente infondata è la tesi della grossolanità dei falsi ex artt. 476 e 482 cod. pen., ossia quelli di cui al capo b della rubrica. Si premette, sinteticamente e per mera completezza - non essendovi contestazione sul punto - che Integra il reato di falso in atto pubblico commesso dal privato, la falsificazione del bollettino di pagamento effettuato mediante conto corrente postale, attesa la natura di atto pubblico di tale bollettino, che attesta, con efficacia probatoria nei confronti dei terzi, il versamento di una somma di denaro a mani di un pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio così, per tutte, Sez. 5, sent. n. 36831 del 22.06.2016, Rv. 267955 . 6.1 Fermo quanto sopra, è indubitabile che la grossolanità del falso - come comprovato dalla sua stretta correlazione con il concetto di reato impossibile, di cui all’art. 49 c.p. - poggia sulle caratteristiche oggettive del documento, nel senso che, in conformità all’insegnamento di una risalente ma sempre valida giurisprudenza, l’inidoneità dell’azione, che rende appunto impossibile il reato si verifica solo allorché le mutazioni apportate al documento genuino sono talmente evidenti e grossolane da richiamare l’attenzione di un osservatore non attento così Sez. 5, sent. n. 7931 del 21.06.1983, Rv. 160449 v. anche Sez. 5, sent. n. 1278 del 15.12.1993 - dep. 03.02.1994, Rv. 197071, in tema di falso nummario . Nulla di tutto ciò è dato ravvisare nella presente fattispecie, in cui si è in presenza di bollettini postali con relative attestazioni di pagamento - inseriti in fotocopia nella motivazione della sentenza del primo giudice - all’apparenza perfettamente riconducibili a società di poste private, che si accertava poi essere inesistenti o prive della prescritta licenza. D’altro canto, le obiezioni della difesa si muovono su tutt’altro piano, atteso che valorizzano la pretesa consapevolezza della falsità in capo alle persone offese, anche alla luce della veste professionale loro propria essendo, come detto, per lo più amministratori condominiali , per via della non prevista possibilità di pagamento in contanti delle bollette presso gli uffici AMAP, oltre a porre l’accento, da ultimo, sulla farsa della sostituzione dei bollettini da parte del D.B. . Dunque, si tratta di argomentazioni che lasciano senz’altro ferma l’oggettività dei falsi commessi e la correlata violazione della pubblica fede che ne discende. Non senza rilevare, per un verso, quanto alla prima obiezione, che la circostanza del non consentito versamento in contanti dell’importo delle fatture presso l’AMAP non ha alcun rilievo, nel momento in cui la prova del pagamento era fornita attraverso un bollettino postale, come tale indicativo di una modalità di pagamento pienamente ammessa per altro verso, quanto alla seconda obiezione - che trae spunto dalla sostituzione delle fatture falsamente quietanzate con l’apposizione del timbro AMAP con falsi bollettini di pagamento postale, in effetti compiuta in taluni casi dal D.B. , una volta venuto a conoscenza delle indagini che erano state avviate dagli inquirenti - che la spiegazione di ordine generale rappresentata dalla Corte territoriale, a proposito del convincimento delle parti offese che il D.B. fosse comunque autorizzato a permettere il pagamento in contanti, non è affatto irragionevole, al di là della constatazione dell’assai limitata significatività di tale specifica condotta, che si colloca in un momento successivo all’appropriazione ed al falso connesso, qui rientrante nell’ambito dell’imputazione di cui al non contestato capo c della rubrica. 6.2 Né è a dire che ci si trovi al cospetto di falsi innocui, valendo l’insegnamento - ancora una volta del tutto consolidato - per cui, In tema di falsità in atti, il falso innocuo si configura solo in caso di inesistenza dell’oggetto tipico della falsità, di modo che questa riguardi un atto assolutamente privo di valenza probatoria, quale un documento inesistente o assolutamente nullo così Sez. 5, sent. n. 28599 del 07.04.2017, Rv. 270245 v. anche Sez. 5, sent. n. 47601 del 26.05.2014, Rv. 261812 il che non è nel caso di specie, senza necessità di spendere ulteriori considerazioni in proposito, se non per precisare che In tema di falso materiale commesso dal privato in atto pubblico, l’alterazione di elementi accessori dell’atto, diversi da quelli che attengono al contenuto tipico dell’attestazione, non configura un falso innocuo o irrilevante, in quanto tutte le componenti inserite nel documento ripetono da questo la loro idoneità funzionale ad asseverare l’esistenza di quanto indicato, in particolare laddove tali componenti accessorie siano inserite proprio per provare i fatti da esse rappresentati cfr. Sez. 6, sent. n. 28303 del 03.06.2016, Rv. 267094 . 7. Eguale valutazione d’infondatezza va ripetuta con riferimento alle censure mosse avverso la statuizione di condanna del D.B. per il reato previsto e punito dall’art. 615 ter cod. pen., sub e . 7.1 Si premette che, ancorché irrilevante per quanto di seguito si dirà, del tutto congetturale è l’affermazione in fatto contenuta nel ricorso, secondo cui il prevenuto avrebbe al più chiesto ad un operatore di sistema abilitato di verificare talune posizioni e provvedere all’emissione del provvedimento di sgravio laddove ne sussistessero gli estremi essa, invero, si risolve nella sua mera enunciazione, poiché non trova riscontro in alcun elemento desumibile dalla sentenza impugnata, ove anzi leggesi che il software denominato TOAD - che si spiega essere in grado di manipolare il sistema informatico allora in uso presso l’AMAP, senza lasciare traccia dell’autore delle modifiche - veniva rinvenuto dalla Guardia di Finanza sul portatile in uso esclusivo al D.B. , presso il suo ufficio nella società per non dire della palese contraddittorietà dell’assunto con la riconosciuta paternità della condotta di peculato, al di là della tesi - per quanto detto, errata - sostenuta in ordine al suo inquadramento giuridico. 7.2 Ciò posto, non pertinente è il richiamo, in chiave difensiva, all’insegnamento di cui alla sentenza n. 4694 del 27.10.2011 - dep. 07.02.2012, ric. Casani, delle Sezioni Unite di questa Corte Rv. 251269 , a mente del quale Integra il delitto previsto dall’art. 615 ter cod. pen., colui che, pur essendo abilitato, acceda o si mantenga in un sistema informatico o telematico protetto violando le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso, rimanendo invece irrilevanti, ai fini della sussistenza del reato, gli scopi e le finalità che abbiano soggettivamente motivato l’ingresso nel sistema . Com’è noto, con detta sentenza l’Alto Consesso, a fronte del quesito sottoposto alla sua valutazione - avente ad oggetto la legittimità di un accesso, o di mantenimento nel sistema, ad opera di soggetto abilitato, ma per scopi o finalità estranei a quelli per i quali la facoltà di accesso gli è stata attribuita - ha ritenuto che la soluzione della problematica sollevata non debba essere riguardata sotto il profilo delle finalità perseguite da colui che accede o si mantiene nel sistema , bensì prendendo in considerazione il dato oggettivo dell’accesso o della permanenza nel sistema nel senso, cioè, del carattere abusivo della condotta di colui che violi i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema , ovvero anche ponga in essere operazioni di natura ontologicamente diversa da quelle di cui egli è incaricato ed in relazione alle quali l’accesso era a lui consentito . Se, dunque, così è, venendo al caso di specie, non può che valutarsi come corretta la soluzione concordemente raggiunta dai due giudici di merito, ossia che l’accesso nel sistema e l’inserimento nello stesso di dati - in concreto, attraverso il simbolo di spunta c.d. flag dell’avvenuto pagamento - indicativi di un’apparenza non conforme alla realtà, sì da mascherare la pregressa appropriazione di somme di denaro compiuta, rientra appieno nel paradigma illecito tracciato dalla suindicata sentenza, poiché per certo non conforme alla volontà, anche tacita, del titolare dello ius excludendi alios. 7.3 E che tale interpretazione sia conforme a legge discende dal nuovo arresto che, in detta materia, hanno compiuto le Sezioni Unite, le quali, con recentissima pronuncia n. 41210 del 18.05.2017 non ancora massimata , chiamate a dirimere il contrasto insorto nella giurisprudenza di legittimità sulla portata della sentenza Casani, con peculiare riferimento al comportamento posto in essere dall’agente che sia pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, hanno ritenuto, sulla scorta della valorizzazione del dettato del n. 1 del capoverso dello stesso art. 615 ter cod. pen. - che prevede, quale circostanza aggravante, che il fatto sia commesso da pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio rientrare nell’ambito della fattispecie incriminatrice in esame la condotta di accesso o mantenimento nel sistema informatico che, pur avvenuta a seguito di utilizzo di credenziali proprie dell’agente ed in assenza di ulteriori espressi divieti in ordine all’accesso ai dati, si connoti, tuttavia, dall’abuso delle proprie funzioni da parte dell’agente, rappresenti cioè uno sviamento di potere, un uso del potere in violazione dei doveri di fedeltà che ne devono indirizzare l’azione nell’assolvimento degli specifici compiti di natura pubblicistica a lui demandati , essendo tale il comportamento del pubblico funzionario che, nella sua attività, persegue una finalità diversa da quella che gli assegna in astratto la legge sul procedimento amministrativo L. n. 241 del 1990, art. 1 . Donde, in definitiva, il principio di diritto così enunciato Integra il delitto previsto dall’art. 615 ter, secondo comma, n. 1, cod. pen. la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che, pur essendo abilitato e pur non violando le prescrizioni formali impartite dal titolare di un sistema informatico o telematico protetto per delimitarne l’accesso omissis , acceda o si mantenga nel sistema per ragioni ontologicamente estranee e comunque diverse rispetto a quelle per le quali, soltanto, la facoltà di accesso gli è attribuita . 8. Non consentita, infine, è la residua censura dell’impugnazione del D.B. , in tema di trattamento sanzionatorio in senso ampio . Del tutto gratuitamente il difensore ricorrente lamenta che la sentenza impugnata abbia malamente discriminato il proprio assistito, ponendolo sullo stesso piano - tanto con riguardo al negato riconoscimento delle attenuanti generiche, quanto in relazione all’entità della pena inflitta, comune ad entrambi gli imputati - del concorrente F. , sempre arroccatosi nella negativa delle proprie responsabilità, a differenza del D.B. , il cui comportamento processuale non sarebbe stato quindi malamente tenuto in alcuna considerazione. Per contro, il giudice d’appello ha dato contezza, in termini lineari e coerenti, delle scelte adottate in materia, per un verso evidenziando la diretta partecipazione, sia del D.B. che del F. , al meccanismo di appropriazione del denaro destinato al pagamento delle bollette AMAP, dal quale entrambi gli imputati traevano vantaggio allo stesso modo , al di là della differenza dei ruoli, e, dall’altro, ha significato come nessuna valenza positiva, in funzione del riconoscimento del beneficio di cui all’art. 62 bis cod. pen., possa riconoscersi alle dichiarazioni auto ed etero-accusatorie del D.B. - la cui confessione già il g.u.p. aveva definito tardiva , per via dell’iniziale esercizio della facoltà di non rispondere, in sede d’interrogatorio di garanzia, parziale e sostanzialmente irrilevante, poiché intervenuta allorquando era stata già acquisita la prova della sua qualificata probabilità di colpevolezza - in forza di una molteplice serie di ragioni la rilevata reticenza della condotta processuale del prevenuto, in presenza di versioni in parte non verosimili, tese più che altro ad alleggerire la propria posizione, a dimostrazione della loro strumentalità alla strategia perseguita ancora, la complessità del sistema fraudolento , come congegnato ed attuato, espressione ad un tempo di una rilevante intensità dell’elemento soggettivo , unitamente alla considerevole portata offensiva dei reati contestati , quale evidenziata dallo ingiusto profitto di considerevole ammontare in tal modo acquisito, a significare la portata comunque prevalente di tali dati fortemente negativi. Vale, dunque, l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, in ossequio al quale, In tema di ricorso per cassazione, non può essere considerato come indice del vizio di motivazione il diverso trattamento sanzionatorio riservato nel medesimo procedimento ai coimputati, anche se correi, salvo che il giudizio di merito sul diverso trattamento del caso, che si prospetta come identico, sia sostenuto da asserzioni irragionevoli o paradossali così Sez. 3, sent. n. 27115 del 19.02.2015, Rv. 264020 . Logico corollario di quanto precede è che non può trovare ingresso in questa sede il tentativo difensivo di patrocinare una diversa e più favorevole lettura dei dati già compiutamente presi in esame dalla sentenza impugnata, non senza rilevare il Collegio, a proposito della pretesa svalutazione della chiamata in correità del D.B. , che le relative dichiarazioni sono del tutto estranee al costrutto motivazionale posto a base della statuizione di colpevolezza nei confronti del F. , sia del g.u.p. che della Corte distrettuale, la quale ultima, in particolare, neppure ne rappresenta il contenuto. 9. Venendo ora al ricorso redatto nell’interesse del mezionato F. , fermo il rinvio al precedente paragrafo 4. a proposito della doglianza circa la mancata acquisizione dei bilanci dell’AMAP, le considerazioni da ultimo svolte legittimano la valutazione in termini di radicale irrilevanza del sesto motivo dell’atto d’impugnazione, per violazione di legge e vizio di motivazione riguardo alle dichiarazioni del D.B. ciò in quanto, al di là della pur evidente genericità della censura, dette dichiarazioni non hanno avuto alcun ruolo nella statuizione di colpevolezza a carico dell’imputato di cui trattasi. 9.1 Inammissibili sono altresì le prime quattro doglianze, nella parte in cui sottopongono a critica la declaratoria di condanna del F. , asseritamente estraneo alla commissione dei reati di peculato, sub a , falso in atto pubblico, sub b e c , falso informatico, sub d , ed accesso abusivo a sistema informatico, sub e , non già alla stregua di incongruenze ravvisabili nel discorso giustificativo sviluppato dalla Corte palermitana, bensì sulla scorta di imprecisate omissioni per di più, in assenza di ogni allegazione circa la loro portata determinante ai fini del convincimento assunto dalla sentenza impugnata e del diverso apprezzamento di talune risultanze d’indagini, estrapolate dalla totalità del materiale probatorio in atti e, quindi, al di fuori del doveroso sguardo d’insieme del materiale medesimo, al chiaro fine di svilirne il significato accusatorio. A tale riguardo, a riprova della loro concreta incensurabilità nella presente sede, è senz’altro sufficiente tracciare le linee portanti dell’iter motivazionale percorso dalla Corte territoriale - ancor più pregnanti se riguardate di concerto con la convergente sentenza del g.u.p., la quale Corte - ha dato conto, in primo luogo, del sicuro coinvolgimento diretto dell’imputato de quo nel già descritto meccanismo illecito, significando come il F. operò in prima persona, quale collettore di denaro contante destinato al pagamento delle bollette dell’AMAP, raccogliendo in tre occasioni il denaro consegnatogli da tal CA. , indirizzato al F. giusto dal D.B. , che lo aveva presentato come amico e collega, a cui rivolgersi liberamente in suo assenza v. pag. 18 della sentenza d’appello. E, ancora, comportandosi in analoga maniera con gli utenti CA. e BO. , quest’ultimo in effetti a lui rivoltosi su indicazione dello stesso CA. , che diede tale input - per sua stessa ammissione in ragione del rapporto di fiducia che lo legava all’amico di vecchia data F. , il quale aveva già concesso a lui la possibilità di pagare le bollette per il consumo idrico secondo le modalità anomale che si contestano all’imputato in questa sede ibidem, pag. 19 - ha rappresentato - sempre con riferimento al medesimo tema - che, a rafforzare il già doveroso coordinamento delle circostanze sopra esposte con l’agire sistematico del D.B. , stanno le innumerevoli ed inequivocabili intercettazioni telefoniche tra i due il legame di incontestabile familiarità riscontrato, anche grazie ad alcuni sms telefonici tra il figlio del D.B. ed il F. ancora, il non casuale comportamento del ricorrente di cui trattasi, il quale, a fronte del contestato afflusso anomalo di persone giusto presso gli uffici della contabilità, ubicati ai piani superiori dell’immobile occupato dall’AMAP, e della conseguente sollecitazione rivoltagli ad aprire uno sportello front-office a piano terra, evadeva la disposizione ricevuta dal superiore gerarchico, adibendo a detto sportello proprio il D.B. , che in tal modo ancor maggiormente poteva intrattenere contatti con gli utenti in ragione del proprio ufficio, proprio nel periodo in cui si verificavano i fatti per cui è processo ivi, pagg. 18 - 19, cui adde pag. 90 sentenza g.u.p. - ha rilevato, a proposito del ritenuto coinvolgimento di entrambi gli imputati nei falsi in atto pubblico loro ascritto, in aggiunta al già stringente argomento logico che scaturisce dalle considerazioni testé esposte, che, all’interno di una pendrive consegnata ai militari operanti dal figlio minore del D.B. - nell’abitazione del quale ultimo furono rinvenuti e sequestrati numerosissimi bollettini postali del tipo di quelli, falsi, consegnati alle ignare persone offese - fu riscontrata la presenza di files contenenti falsi timbri postali, il cui autore risultava essere F.C. ivi, pag. 20 , per tabulas ciò in quanto l’indicazione dell’autore del file viene assegnata dal sistema operativo mediante il quale il computer funziona al momento della creazione del file stesso, e non varia in alcun modo a seguito della sua trasposizione in altri dispositivi, salvo che non sia oggetto di apposita modifica cfr. pag. 21 sentenza d’appello - ha osservato, a proposito del reato di cui all’art. 615 ter cod. pen. – e prima di soffermarsi sulla già ricordata presenza del software TOAD nel computer portatile in uso esclusivo al D.B. - che il F. era stato messo a parte dal dirigente AMAP BO. ed ancor in precedenza da altro dirigente, M. dell’esistenza di anomalie nel sistema di gestione della contabilità AMAP , poiché alcune bollette, nonostante fossero contrassegnate come solute, non erano state realmente pagate , non risultando allegate iniziative di sorta assunte dall’odierno ricorrente. Inoltre, le anzidette circostanze, già di per sé connotate da univoca significatività probatoria, si correlano con altro sintomatico dato, di cui la stessa Corte dà atto nel sintetizzare gli elementi in chiave accusatoria su cui il g.u.p. ha fondato il proprio convincimento, senza che risulti essere stato oggetto di contestazione di sorta ex adverso ossia l’oscillante comportamento tenuto in prima battuta dal F. , il quale, nel corso della sua iniziale audizione innanzi alla p.g., richiesto in ordine al rilevante ammanco riscontrato nei conti AMAP, ipotizzava che lo stesso potesse dipendere esclusivamente da un’anomalia nel programma installato sui computer aziendali, salvo poi rappresentare di aver compiuto e fatto compiere operazioni di controllo a campione in tutti gli archivi cartacei, da cui non era emersa l’esistenza di fatture a riscontro delle bollette apparentemente pagate cfr. pag. 8 sentenza d’appello e 59 - 60 sentenza g.u.p. . 9.2 Fermo quanto sopra, va quindi osservato per gli ulteriori profili di doglianza a che l’evidente nesso che accomuna inscindibilmente le condotte contestate legittima la prova logica del coinvolgimento del F. anche in seno al delitto di falso documentale sub c e di falso informatico sub d , pur in assenza di elementi specifici a suo carico, per la prima figura di reato essendo comunque preliminare la constatazione dell’assenza di censure in merito nell’atto di appello b che, rispetto all’altra fattispecie di falso in atto pubblico, sub b , la reiterazione, da parte della difesa, dei medesimi motivi, asseritamente non presi in esame dalla Corte d’appello benché portati alla sua attenzione, risulta in realtà sterile, poiché detti motivi - tratti dall’elaborato del consulente tecnico della difesa e basati sull’assenza, nel computer in uso al F. ed oggetto di sequestro, di tracce di sorta comunque riconducibili ai files rinvenuti nella pendrive consegnata ai militari operanti dal figlio del D.B. - non valgono in alcun modo ad incrinare la portata dirimente dell’argomentazione svolta dal giudice di secondo grado e già in precedenza riportata ossia che - si ripete l’indicazione dell’autore del file - qui risultante documentalmente l’odierno ricorrente - viene assegnata dal sistema operativo mediante il quale il computer funziona al momento della creazione del file stesso, e non varia in alcun modo a seguito della sua trasposizione in altri dispositivi, salvo che non sia oggetto di apposita modifica , nella fattispecie nemmeno ipotizzata c che neppure riveste consistenza alcuna l’ipotesi di assorbimento del reato di accesso abusivo in sistema informatico, sub e , in quello di falso in documento informatico, di cui al capo d in proposito vanno tenute ferme le corrette argomentazioni della Corte palermitana, la quale, onde legittimare il ritenuto concorso dei reati, ha rilevato - in conformità all’orientamento interpretativo tracciato dalla giurisprudenza di legittimità, sopra ricordato - che la prima delle due fattispecie in questione è integrata dalla obiettiva violazione delle condizioni e dei limiti risultanti dalle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne l’accesso , laddove la seconda richiede l’alterazione del documento informatico, che può sì presupporre il necessario accesso ad un sistema informatico, ma non per forza di natura abusiva d che, rispetto alla questione circa la qualificazione giuridica ai sensi dell’art. 646 cod. pen., dei fatti ricondotti al paradigma del peculato, vale il rinvio alle considerazioni svolte nel paragrafo 5.2 del considerato in diritto. 9.3 Manifestamente infondata e, insieme, generica è la censura ultima, in tema di entità della pena e concessione delle attenuanti generiche manifestamente infondata, perché non risponde a verità che la Corte territoriale non abbia dato contezza delle ragioni che l’hanno indotta a discostarsi dal minimo edittale nella determinazione della pena concreta a carico del F. , così come del D.B. , essendo stati i due accomunati sul piano del trattamento sanzionatorio generica, per via della totale apoditticità dei rilievi di mancato superamento delle imprecisate doglianze difensive e di contraddittorietà della motivazione. 10. Al rigetto di entrambi i ricorsi, segue, ex lege, la condanna degli imputati al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione di quelle del grado sostenute dalle parti civili comparse in sede di legittimità, nella misura specificata in dispositivo. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Condanna ì ricorrenti alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili AMAP s.p.a. e G.N. , quale amministratore del condominio sito in via Cappuccini n. 212, che liquida in Euro 3.500,00 ciascuna, oltre rimborso spese generali nella misura del 15%, I.V.A. e C.P.A Condanna inoltre i ricorrenti a rifondere le spese del grado in favore dell’ulteriore parte civile L.T.G. , ammessa al patrocinio dello Stato, nella misura che sarà separatamente liquidata dal competente giudice di merito, disponendo il pagamento di tali spese in favore dello Stato.