Indeducibili i costi derivanti da fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, se…

In tema di delitto di dichiarazione fraudolenta mediante fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto e punito dall’art. 2, d.lgs. n. 74/2000, i costi documentati in fatture per operazioni soggettivamente inesistenti non possono essere dedotti dal committente/cessionario così come va negato il diritto alla detrazione dell'imposta IVA effettivamente versata ove non ricorra la prova dell'assenza dei presupposti dell'illecito penale, integrando invero tale operazione, tradizionalmente, il reato di falso documentale, rilevante sia come concorso nell'emissione di fattura falsa, sia come utilizzazione a fini di evasione.

Infatti, la derivazione dei costi da un'attività integrante illecito penale - espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse da quelle proprie dell'attività dell'impresa - comporta il venir meno dell'indefettibile requisito dell'inerenza tra i costi medesimi e l'attività imprenditoriale. Lo ha stabilito la Quarta Sezione della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 55102/2017, depositata l’11 dicembre. La dichiarazione fraudolenta mediante fatture false. L’art. 2 d.lgs. n. 74/2000 delinea un’ipotesi di dichiarazione fraudolenta, mediante l’uso di fatture o di altri documenti per operazioni inesistenti. Si tratta della prima ipotesi di dichiarazione fraudolenta contemplata dalla riforma del diritto penale tributario del 2000, configurata quale fattispecie principale rispetto a quella di cui all’art. 3 del decreto, in virtù della clausola di riserva posta all’inizio di tale ultima norma. Come per le altre ipotesi delittuose di cui al d.lgs. n. 74/2000, il bene giuridico tutelato dalla fattispecie in esame coincide con l’interesse dell’Erario alla percezione dei tributi, a differenza di quanto disposto dalla previgente legge del 1982, che proteggeva principalmente l’interesse del Fisco al corretto svolgersi dell’azione di accertamento tributario. La differenza con la dichiarazione mediante altri artifici Diversa è la fattispecie di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, disciplinata dall’art. 3 d.lgs. n. 74/2000 e s.m.i Il delitto de quo si consuma infatti con la presentazione della dichiarazione annuale, che indichi elementi attivi per un ammontare inferiore, ovvero elementi passivi fittizi, ad esempio attraverso la violazione del principio di competenza. Peraltro, la violazione del predetto principio, tale da cagionare errori di impostazione contabile, non è penalmente rilevante, ogni volta in cui si risolve in incongruenze che, di fatto, non sottraggono materia imponibile alla dichiarazione. Di contro, non sussisterà l’ipotesi dell’art. 3 bensì quella di cui all’art. 2, d.lgs. n. 74/2000 qualora il contribuente provveda prima a presentare la dichiarazione mendace, e solo successivamente a porre in essere falsità nella contabilità obbligatoria, utili a supportare a posteriori la falsa dichiarazione dei redditi. La dottrina si è interrogata sul problema comune a tutti i delitti tributari in materia di dichiarazione della rilevanza penale dell’indicazione di elementi passivi che, seppure effettivamente sostenuti dal contribuente, risultino, però, indeducibili. Ci si è chiesti, in particolare, se anche in tal caso possa parlarsi di elementi passivi fittizi idonei a condurre ad una declaratoria di responsabilità penale del contribuente ai sensi dell’art. 3. Secondo un rigoroso orientamento, per elementi passivi fittizi dovrebbero intendersi tutti quegli elementi indicati in dichiarazione che, secondo le disposizioni fiscali, divergono per eccesso rispetto a quelli effettivi, così ricomprendendo ogni componente negativa di reddito non vera, non inerente, non spettante, o inesistente nella realtà, che risulti dichiarata in misura superiore a quella effettivamente sostenuta, o a quella detraibile. Tale orientamento trova la propria ratio ispiratrice nella necessità, perseguita dal legislatore della riforma del 2000, di punire tutte le condotte che siano concretamente pregiudizievoli per l’Erario. Tuttavia, autorevole dottrina ha sostenuto che la nozione di fittizietà degli elementi passivi indicati in dichiarazione deve essere il più possibile ricavata in base ai principi fondamentali del diritto penale sostanziale, segnatamente sulla scorta del principio di tassatività art. 25, comma 2, Cost. . e l’orientamento maggioritario. Per la Suprema Corte, anche l'inesistenza soggettiva delle operazioni è condotta che può rientrare tra quelle considerate dalla norma incriminatrice dell’art. 2, sul rilievo che la falsità ben può essere riferita anche all'indicazione dei soggetti con cui è intercorsa l'operazione, intendendosi per soggetti diversi da quelli effettivi , ai sensi del d.lgs. n. 74 del 2000, art. 1, lett. a , coloro che, pur avendo apparentemente emesso il documento, non hanno effettuato la prestazione, sono irreali, come nel caso di nomi di fantasia, o non hanno avuto, come nella specie, alcun rapporto con il contribuente finale. Come è stato reiteratamente precisato dalla Sezione tributaria di questa Corte ex multis , Sez. 5, n. 23626/11 la previsione del d.P.R. n. 633/1972, art. 21, comma 7 - secondo la quale, se vengono emesse fatture per operazioni inesistenti, l'imposta è dovuta per l'intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura - è, con riguardo all'ipotesi considerata, esplicita nel senso di imporre il versamento dell'imposta, ma di precluderne la detrazione. La disposizione viene, infatti, letta nel senso che il tributo viene ad essere considerato fuori conto” e la relativa obbligazione, conseguentemente isolata” dalla massa di operazioni effettuate, estraniata”, per ciò stesso, dal meccanismo di compensazione tra IVA a valle” ed IVA a monte”, che presiede alla detrazione d'imposta di cui al d.P.R. n. 633/1972, art. 19. E ciò per il rilievo che il versamento dell'IVA ad un soggetto che non sia la genuina controparte, aprendo la strada ad un indebito recupero dell'imposta, è evento dirompente, nell'ambito del complessivo sistema IVA. Ciò in quanto il diritto alla detrazione dell'IVA non può prescindere dalla regolarità delle scritture contabili ed in particolare della fattura che è considerata documento idoneo a rappresentare un costo dell'impresa.

Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 4 ottobre – 11 dicembre 2017, numero 55102 Presidente Blaiotta – Relatore Bellini Ritenuto in fatto 1. Il Tribunale del Riesame di IMPERIA, giudicando in sede di rinvio dalla pronuncia di annullamento della Corte di Cassazione, accoglieva solo parzialmente la richiesta di riesame proposta da P.B. titolare della DIGITAL MEDIA STORE s.r.l. avverso di sequestro preventivo ai sensi dell’articolo 321 coli bis c.p.p. e 322 ter cod.penumero in relazione al reato di cui all’articolo 2 Dcr.Lgs. 74/00, riducendo a Euro 2.585.908,00 oltre ad interessi l’importo fino a concorrenza del quale veniva autorizzato il provvedimento cautelare, in quanto escludeva la somma riconosciuta in relazione a diverso titolo di reato per cui non vi era richiesta della cautela. 2. Con particolare riferimento alla componente dell’importo sequestrato riferibile ad IRES, pari ad Euro 1.497.351,00 assumeva che, premesso il fumus boni juris della condotta delittuosa ascritta al prevenuto sulla base di una serie di elementi indiziari specificamente indicati, evidenziava l’autonomia del regime tributario rispetto a quello penale e richiamava giurisprudenza del S.C. che esclude la deducibilità dei costi esposti in fatture per operazioni soggettivamente inesistenti in quanto fittizie, anche nel caso in cui si riferiscano a prestazioni effettivamente rese, laddove il regime di indeducibilità di tali costi non dipendeva soltanto dall’impiego diretto a finanziare condotte immediatamente qualificabili come delitto doloso, ma anche allorché si riferiscano ad una più generale attività delittuosa di cui l’utilizzatore abbia comunque consapevolezza, sulla base di una valutazione di inerenza alla gestione dell’impresa. 3. Su tale specifica questione e relativamente alla componente IRES proponeva ricorso per Cassazione la difesa del P. deducendo violazione di legge in relazione all’applicazione dell’articolo 14 co. 4 bis della L. 24.12.1993 numero 537 come novellato dall’articolo 8 comma I del D.L. 16/2012, norma di cui si deve tenere conto nell’applicazione della legge penale di cui all’articolo 2 D.Lvo 74/2000, avendo il giudice della cautela illegittimamente ritenuto di procedere anche al sequestro di somma corrispondente a quanto asseritamente evaso a titolo di IRES, omettendo di considerare che la maggiore parte delle operazioni in relazione alle quali si prospettava ipotesi di utilizzazione di fatture soggettivamente inesistenti, la società del P. aveva poi effettivamente proceduto ad eseguire attività di rivendita nella grande distribuzione con esposizione di IVA e correlativa acquisizione del corrispondente debito tributario, che veniva onorato nelle forme di legge nei confronti dell’Erario. 3.1 Assumeva che sul punto la giurisprudenza tributaria era concorde nel ritenere la deducibilità dei costi sostenuti attraverso fatture, sia pure soggettivamente inesistenti, ma oggettivamente esistenti, in presenza di disciplina richiamata che deve trovare applicazione anche con riferimento ai reati tributari, laddove il discrimine tra deducibile e non deducibile non può essere ricondotto a profili relativi al collegamento indiretto dei costi ad una attività asseritamente delittuosa, realizzatasi nei passaggi intermedi delle prestazioni rese, ma deriva dall’accertamento in sede tributaria dei principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza e determinabilità dei componenti negativi che possono esser portati in deduzione e, in sede penale, dalla indeducibilità dei costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio utilizzate per il compimento del reato. Considerato in diritto 1. Va in primo luogo evidenziato che l’ambito del giudizio di rinvio, da cui trae origine la ordinanza sottoposta a impugnazione, riguarda il fumus commissi delicti in relazione alla condotta, ritenuta fraudolente del P. quale legale rappresentante della ditta DIGITAL MEDIA STORE s.r.l., per avere utilizzato fatture per prestazioni soggettivamente inesistenti e per poi avere proceduto a dedurne i costi dalle dichiarazioni ai fini Iva e Ires. 2. Il giudice di rinvio dopo avere operato una analitica ricognizione di tutti gli elementi indiziari a carico del P. in relazione al reato ascritto, ha poi esaminato le censure del ricorrente in relazione ai singoli componenti dell’asserito debito tributario, il cui pagamento sarebbe stato omesso facendo leva sulle spese dei beni e servizi utilizzate per il compimento del reato. 3. Il ricorso del P. è limitato al debito fiscale per IRES e in esso si assume vizio di violazione di legge laddove il giudice della cautela ha ritenuto di riconoscere la indeducibilità dei beni e dei servizi per prestazioni effettivamente rese, pertanto non oggettivamente inesistenti, sul presupposto che, pure a riconoscere la interposizione nella cessione dei suddetti beni, prima che la DIGITAL SERVICE nel divenisse titolare, la stessa si era resa effettiva cessionaria di tali beni nei confronti dei terzi, assumendosi pertanto il relativo onere fiscale nei confronti dell’Erario, con la conseguenza che sulla base della disciplina positiva articolo 8 D.L. 16/2012 cit. essa ben poteva operare in deduzione in relativo importo non trattandosi di prestazioni di beni utilizzati per commettere il reato. 4. La tesi sostenuta è infondata e contrasta irrimediabilmente con la giurisprudenza di legittimità che ha riconosciuto, e più volte ribadito che i costi documentati in fatture per operazioni soggettivamente inesistenti non possono essere dedotte ai fini delle imposte dirette del committente cessionario, che consapevolmente li abbia sostenuti, in quanto essi sono espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse da quelle proprie dell’attività di impresa comportando la cessazione dell’indefeffibile requisito dell’inerenza tra i costi medesimi e l’attività imprenditoriale cfr. sez. III, 7.7.2015, De Angelis, Rv. 265154 19.12.2014, Berni e altri, Rv. 264010 . 4.1 In particolare la giurisprudenza di questa Corte, cui si ritiene di dovere aderire in relazione al caso in esame, ha riconosciuto che l’articolo 8 cit. che ritiene la non ammissione in deduzione i costi e le spese dei beni e delle prestazioni direttamente utilizzati per la commissione delle condotte criminose, indica una regola valida per le sole procedure di accertamento tributario ai fini delle imposte sui redditi e non ha, alcun rilievo sulle condotte di dichiarazione fraudolenta punita dall’articolo 2 D.L.vo 74/2000. 4.2 Invero tale conclusione si fonda sul fatto che la indeducibilità di tali partite è collegato non solo ad un impiego diretto delle relative partite per finanziare atti qualificabili nello immediato come delitti dolosi, ma anche per la loro inerenza a più generali attività delittuose alle quali l’impresa non sia estranea e per il cui perseguimento abbia sostenuto i costi fittiziamente fatturati ancorché realmente sostenuti sez.III, Berni cit. , dovendosi considerare a tale proposito che quando i costi sono direttamente riconducibili ad un contesto illecito, al quale lo stesso contribuente abbia partecipato, la possibilità di dedurne i costi si tramuterebbe, per assurdo, nel consolidamento del vantaggio illecito ottenuto e comunque nella minimizzazione del rischio che la possibilità di recuperare le somme investite per la consumazione del reato consentirebbe sez.III, De Angelis, cit. . 4.3 In presenza invero di un fumus commissi delicti in relazione alla partecipazione alle frodi c.d. carosello da parte del P. attraverso la società DIGITAL MEDIA STORE, mediante la condivisione del suddetto illecito meccanismo fraudolento, si deve invero riconoscere che gli interessi erariali ne abbiano subito un diretto pregiudizio, sia in relazione alle imposte dirette che in relazione a quelle indirette, derivandone pertanto la lesione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, rappresentato dall’interesse dell’Erario alla percezione dei tributi. Con la ulteriore conseguenza che tra il costo che il soggetto gravato dall’obbligo tributario intende dedurre e l’esercizio dell’attività imprenditoriale in cui si assume lo stesso essere maturato, viene meno qualsiasi rapporto di causa effetto, che giustificherebbe la deducibilità del primo, in quanto i costi del reato non hanno alcun rapporto di carattere funzionale con l’esercizio dell’attività di impresa perché estranei alla stessa, venendo ad elidere la relazione di inerenza che ne consente la deducibilità. 5. Sul punto anche la giurisprudenza tributaria di legittimità ha sostenuto che, ai fini della determinazione del reddito di impresa, i costi documentati in fatture per operazioni soggettivamente inesistenti non possono essere dedotte dal committente / cessionario ove non ricorra la prova dell’assenza dei presupposti dell’illecito penale, integrando invero tale operazione, tradizionalmente il reato di falso documentale, rilevante sia come concorso nella emissione della fattura falsa, sia come utilizzazione ai fini dell’evasione del carico fiscale. E stato a tale proposito sostenuto che la derivazione dei costi da una attività integrante illecito penale, espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse da quelle proprie dell’attività di impresa, comporta il venire meno dell’indefettibile requisito dell’inerenza tra i costi dei medesimi e l’attività imprenditoriale Cass. Civ. sez. V, 11.11.2011 numero 23626, Rv. 619982 . 6. Sotto questo profilo pertanto oltre a risultare infondate le doglianze in diritto del ricorrente, risulta sostanzialmente composto l’asserito contrasto giurisprudenziale tra giudice di legittimità penale e giudice di legittimità tributario in ordine all’ambito di applicazione della disciplina segnata dall’articolo 8 D.l. numero 16/2012, laddove la derivazione del costo da un illecito tributario rappresenta per entrambi gli ambiti giurisprudenziali un discrimine per escludere la deducibilità della relativa partita, facendo venire meno il necessario rapporto di inerenza tra lo stesso e l’attività di impresa. Il ricorso deve pertanto essere rigettato e il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.