Il curatore non può esimersi dal testimoniare su quanto dichiaratogli dal fallito accusato di bancarotta

È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale relativa alla posizione del curatore fallimentare nell’ambito del procedimento per bancarotta intentato nei confronti dell’imprenditore fallito.

Così la Corte di Cassazione con la sentenza n. 54304/17, depositata il 1° dicembre. Il caso. La Corte d’Appello di Milano confermava la condanna di prime cure per bancarotta fraudolente patrimoniale e documentale dell’imputato. Quest’ultimo ricorre in Cassazione dolendosi, in primo luogo, per violazione di legge in relazione al rigetto dell’istanza di rinvio per legittimo impedimento del difensore per concomitante impegno professionale. La doglianza è priva di fondamento in quanto, ricorda la S.C., in tema di legittimo impedimento a comparire, il concomitante impegno del difensore dell’imputato in un procedimento civile oppure per la rappresentanza e l’assistenza di una parte civile, non integra il presupposto dell’obbligo per il giudice di rinviare l’udienza. Correttamente dunque la Corte d’Appello meneghina ha rigettato l’istanza di rinvio. Posizione del curatore fallimentare nel giudizio per bancarotta. Il ricorrente lamenta poi il difetto di motivazione in relazione alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 63, comma 2, c.p.p. nella parte in cui non include il curatore fallimentare nei soggetti che sono obbligati ad interrompere l’interrogatorio in caso di dichiarazioni autoaccusatorie. Sul tema la Corte di legittimità si è in realtà già pronunciata escludendo la fondatezza della questione di costituzionalità in quanto l’attività del curatore non ha natura ispettiva o di vigilanza, dovendo dunque ritenersi legittima la previsione della testimonianza del curatore su quanto il fallito gli abbia dichiarato in sede di procedura fallimentare cfr. Corte Cost. nn. 237/1993, 136/1995 . In conclusione, la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 15 settembre – 1 dicembre 2017, n. 54304 Presidente Vessichelli – Relatore Riccardi Ritenuto in fatto 1. B.V. ricorre per cassazione avverso la sentenza del 13/06/2016 con la quale la Corte di Appello di Milano ha confermato la sentenza del Tribunale di Milano che lo aveva condannato per i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale, per avere, in qualità di titolare dell’impresa individuale 2000, fallita il 23/09/2010, distratto i beni sociali merce di diverso genere, quale materiale per edilizia, carburante, lubrificanti, legname, condizionatori, ecc. , e distrutto o occultato i libri e le scritture contabili in maniera tale da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari. Deduce i seguenti motivi di ricorso, qui enunciati, ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen., nei limiti strettamente necessari per la motivazione. 1.1. Violazione di legge in relazione al rigetto dell’istanza di rinvio per legittimo impedimento lamenta che all’udienza del 13/06/2016 la Corte abbia rigettato l’istanza nonostante il difensore avesse tempestivamente comunicato il concomitante impegno professionale dinanzi al Tribunale di Monza, quale difensore della parte civile, e l’impossibilità di nominare un sostituto, anch’esso impegnato in altro procedimento civile. 1.2. Omessa motivazione in ordine alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 63 cod. proc. pen., nella parte in cui non include il curatore tra i soggetti che hanno l’obbligo di interrompere l’interrogatorio in caso di dichiarazioni autoaccusatorie gli orientamenti giurisprudenziali richiamati non terrebbero conto della nuova formulazione dell’art. 111 Cost 1.3. Vizio di motivazione in ordine alle condotte distrattive sostiene che le condotte siano state poste in essere nel periodo in cui l’imputato era agli arresti domiciliari dal novembre 2009 al febbraio 2010 , e che il numero di iscrizione 3255/2010 non sia identificativo dell’epoca del procedimento nell’ambito del quale era stata emessa la misura cautelare , che è stato oggetto di diversi provvedimenti di riunione la versione difensiva secondo cui le condotte sarebbero state poste in essere da soggetti dello studio C. , che utilizzavano la ditta del B. a sua insaputa, sarebbe confermata dalla sentenza del Tribunale di Milano n. 9138/2013 irrevocabile il 29/11/2013 , che ha assolto il B. , sostenendo che la ditta a lui intestata veniva utilizzata per scopi illeciti senza la consapevolezza del titolare. 1.4. Vizio di motivazione in ordine al diniego del giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche. Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile. 1.1. Il primo motivo è manifestamente infondato, essendo pacifico, in tema di legittimo impedimento a comparire, che il concomitante impegno del difensore dell’imputato per l’esercizio del patrocinio in un processo civile o per la rappresentanza e l’assistenza di una parte civile non costituisce situazione idonea a determinare l’obbligo per il giudice di differire la trattazione dell’udienza Sez. 2, n. 36097 del 14/05/2014, Diodato, Rv. 260353 Sez. 2, n. 39369 del 02/10/2008, Boscolo, Rv. 241865 . Ne consegue la legittimità del rigetto dell’istanza dí rinvio avanzata dal difensore dell’imputato per il contestuale impegno professionale quale patrono di parte civile. 1.2. Il secondo motivo è manifestamente infondato, avendo la Corte territoriale esaurientemente motivato in ordine alla manifesta infondatezza della questione di costituzionalità proposta con riferimento alle dichiarazioni rese dal fallito al curatore, richiamando altresì la sentenza della Corte costituzionale n. 136 del 1995 la sentenza impugnata ha, inoltre, evidenziato l’irrilevanza della questione, in quanto le dichiarazioni rese dal fallito al curatore non sono state utilizzate ai fini dell’affermazione di responsabilità. Al riguardo, premesso che le dichiarazioni rese dal fallito al curatore non sono soggette alla disciplina di cui all’art. 63, comma secondo, cod. proc. pen., in quanto il curatore non appartiene alle categorie indicate da detta norma e la sua attività non può considerarsi ispettiva o di vigilanza ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 220 disp. coord. cod. proc. pen. Sez. 5, n. 46422 del 25/09/2013 - dep. 21/11/2013, Besana, Rv. 257584 Sez. 5, n. 13285 del 18/01/2013, Pastorello, Rv. 255062 , deve ritenersi costituzionalmente legittima la previsione della testimonianza del curatore in ordine a quanto dichiaratogli dal fallito in sede di procedura fallimentare in tal senso ribadendo Sez. 5, n. 41134 del 15/10/2001, Lottini, Rv. 220257, che, richiamando Corte cost. sentenza n. 136 del 1995, ha affermato che, in tema di dichiarazioni autoindizianti, non è applicabile alle dichiarazioni rilasciate al curatore dal fallito la disciplina di cui all’art. 63, comma 2, cod. proc. pen., che prevede la inutilizzabilità di tali dichiarazioni se siano state rese alla autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria da chi, sin dall’inizio, avrebbe dovuto essere sentito in qualità di imputato, e che tale esclusione non può ritenersi in contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione , anche alla luce dell’art. 111 Cost. nell’attuale formulazione come chiarito dalla Corte Costituzionale, infatti, il divieto di cui all’art. 62 cod. proc. pen. presuppone pur sempre che le dichiarazioni su cui dovrebbe vertere la testimonianza de auditu siano state rese anche spontaneamente in occasione del compimento di ciò che debba comunque qualificarsi come un qualsiasi atto del procedimento Corte Cost, sentenza n. 237 del 1993 e, secondo la Consulta, è sicuramente da escludere che le dichiarazioni destinate al curatore possano considerarsi rese nel corso del procedimento penale, non potendo certo sostenersi che la procedura fallimentare sia preordinata alla verifica di una notitia criminis Corte Cost. n. 136 del 1995 . 1.3. Il terzo motivo è inammissibile. Il ricorso sostiene che le condotte siano state poste in essere nel periodo in cui l’imputato era agli arresti domiciliari dal novembre 2009 al febbraio 2010 , e non poteva aver in alcun modo concorso alle distrazioni accertate la versione difensiva secondo cui le condotte sarebbero state poste in essere da soggetti dello studio C. , che utilizzavano la ditta del B. a sua insaputa, sarebbe poi confermata dalla sentenza del Tribunale di Milano n. 9138/2013 irrevocabile il 29/11/2013 , che ha assolto il B. , sostenendo che la ditta a lui intestata veniva utilizzata per scopi illeciti senza la consapevolezza del titolare. Va, al riguardo, evidenziato, con riferimento al dedotto contrasto di giudicati, che, pur essendo precedente 16/07/2013 rispetto alla sentenza impugnata 13/06/2016 , la decisione del Tribunale di Milano invocata - che ha assolto il B. da reati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina - non è stata prodotta dinanzi alla Corte territoriale, sicché la doglianza finisce per proporre a questa Corte la valutazione di circostanze di fatto, non consentita in sede di legittimità, sulle quali il giudice di appello non ha potuto pronunciarsi. Con riferimento al profilo della erroneità ed illogicità della sentenza , relativamente all’affermazione di responsabilità per le condotte distrattive, essendo l’imputato agli arresti domiciliari nel periodo in cui sono state poste in essere la maggior parte delle distrazioni, la doglianza, che sollecita anch’essa una non consentita rivalutazione del merito, appare manifestamente infondata, in quanto la sentenza impugnata ha motivato evidenziando l’assenza di elementi concreti, o quanto meno di riscontri logici, in grado di corroborare la versione difensiva, ed in particolare che il B. aveva stipulato il contratto di locazione del magazzino dove erano state consegnate parte delle forniture distratte, e che il dipendente dello studio C. un non meglio identificato Rag. M. non avrebbe potuto ritirare il resto della merce destinata all’impresa dell’imputato presso lo spedizioniere di XXXXXX senza una precisa delega del predetto. 1.4. Il quarto motivo, concernente il diniego del giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche, è manifestamente infondato. Al riguardo, premesso che le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra opposte circostanze, implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette da sufficiente motivazione, tale dovendo ritenersi quella che per giustificare la soluzione dell’equivalenza si sia limitata a ritenerla la più idonea a realizzare l’adeguatezza della pena irrogata in concreto Sez. U, n. 10713 del 25/02/2010, Contaldo, Rv. 245931 , la Corte territoriale ha negato il giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche sulla riconosciuta aggravante ritenendo che non ricorressero elementi favorevoli all’imputato tali da fondare l’invocata valutazione, neppure sulla base del generico motivo di appello proposto elementi, del resto, non dedotti neppure con il ricorso per cassazione. 2. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese processuali e la corresponsione di una somma di denaro in favore della cassa delle ammende, somma che si ritiene equo determinare in Euro 2.000,00 infatti, l’art. 616 cod. proc. pen. non distingue tra le varie cause di inammissibilità, con la conseguenza che la condanna al pagamento della sanzione pecuniaria in esso prevista deve essere inflitta sia nel caso di inammissibilità dichiarata ex art. 606 cod. proc. pen., comma 3, sia nelle ipotesi di inammissibilità pronunciata ex art. 591 cod. proc. pen P.Q.M. dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.