Paziente psichiatrico cagiona la morte di un altro: c’è responsabilità del personale sanitario?

Compete al medico curante l’attestazione di non pericolosità di una paziente psichiatrica sicché non possono essere ritenuti responsabili della condotta della paziente eteroaggressiva l’amministratore e gli infermieri di una struttura assistenziale dove trovano ricovero esclusivamente pazienti psichiatrici stabilizzati.

Così la Corte di Cassazione con la sentenza n. 53992/17, depositata il 30 novembre. Il caso. Interno notte una paziente psichiatrica entra nella stanza di un altro paziente e, schernita dallo stesso, reagisce colpendolo più volte con una scarpa il personale medico si era accorto delle lesioni solo il mattino seguente e non aveva potuto impedire il decesso avvenuto alcuni giorni dopo. Ritenuti indiretti responsabili l’amministratore della struttura e gli infermieri del turno di notte. L’amministratore unico di una residenza assistenziale privata era accusato di abbandono di incapaci per aver abbandonato i ricoverati, incapaci di provvedere a loro stessi e, in particolare, per non aver provveduto ad assumere il personale medico e specialistico necessario e per aver consentito che gli addetti all’assistenza svolgessero attività di operatori socio-sanitari per la quale non erano abilitati e garantendo in orario notturno solo la presenza di due infermieri professionali. La Corte d’Assise lo aveva però ritenuto colpevole non per le carenze strutturali bensì perché non aveva dato disposizioni al personale di assicurarsi che un anziano ricoverato – poi vittima – non corresse pericoli a seguito della condotta a suo danno di un’altra ricoverata. I due infermieri professionali erano dapprima accusati di omicidio colposo, poi derubricato in abbandono di incapace per aver abbandonato il ricoverato così determinando quella situazione di pericolo l’uomo infatti veniva colpito da un’altra ricoverata anch’essa incapace e decedeva per le lesioni patite. Riforma in melius in appello. La Corte d’appello riformava la sentenza assolvendo tutti gli imputati. Si evidenziava che l’aggressione non era avvenuta in orario notturno ma nelle prime ore del mattino e che alla vittima vennero prestate immediatamente le cure necessarie purtroppo non impeditive del decesso avvenuto dodici giorni più tardi . I protagonisti della vicenda non erano ricoverati per l’età avanzata ma per i loro problemi psichiatrici. Quanto alla posizione dell’amministratore si negava che la presenza di un terzo infermiere nel turno di notte avrebbe potuto impedire l’evento. Quanto ai due infermieri si evidenziava invece che non erano adeguatamente informati dei frequenti litigi tra i due ricoverati e dei pericoli che ne potevano derivare. La Corte d’appello, poi, valorizzava la circostanza che la struttura sanitaria non poteva ricoverare pazienti psichiatrici che non fossero stabilizzati non essendo autorizzata ad ospitare pazienti problematici perché non disponeva del personale medico specializzato. Insomma, non era provato, ad avviso della Corte territoriale, l’elemento soggettivo in capo agli imputati non essendosi accertato che fossero a conoscenza che l’abbandono del paziente avrebbe potuto cagionargli il danno che ne era derivato. Le parti civili hanno proposto ricorso davanti alla Corte di Cassazione. L’abbandono di persone minori o incapaci. L’elemento oggettivo del reato è costituito da qualsiasi condotta, attiva od omissiva, contrastante con il dovere giuridico di cura o di custodia , gravante sul soggetto agente, da cui derivi uno stato di pericolo anche meramente potenziale per la vita o l’incolumità del soggetto passivo. L’elemento soggettivo del reato si configura solo quando l’agente abbia consapevolezza che l’incapace sia esposto a tale pericolo. L’accertamento dell’elemento soggettivo segna il confine tra condanna e assoluzione. La Corte territoriale, data per accertata la materialità del delitto di abbandono di incapace, è giunta a soluzione contraria quanto all’elemento soggettivo, ribaltando la conclusione del giudice di prime cure per insussistenza di prova. La Corte d’Assise era giunta a condannare gli imputati limitandosi ad affermare che gli stessi fossero a conoscenza dei ricorrenti litigi tra i ricoverati protagonisti della vicenda e che avevano abbandonato la vittima esponendola ad uno stato di pericolo. La Corte d’Assise d’Appello, invece, aveva contestato che gli alterchi tra i due ricoverati fossero diversi e più gravi di quelli intercorsi fra altri pazienti psichiatrici ricoverati nella struttura. La Corte aveva poi valorizzato la circostanza che la struttura non poteva ospitare pazienti psichiatrici non compensati, non avendo specifica e necessaria autorizzazione a farlo quando i pazienti mostravano segni di squilibrio l’unica soluzione possibile era quella di trasferirli in un’altra struttura idonea a prestare le particolari cure. Difetto dell’elemento soggettivo. Secondo la Corte d’Appello, gli imputati potevano essere stati al più informati degli alterchi tra i ricoverati come una delle tante voci correnti nella struttura e non come una situazione che necessitava del loro intervento e della loro sorveglianza. In definitiva non potevano essere consapevoli dello stato di pericolo reale o potenziale che il ricoverato correva perché la permanenza nella struttura della ricoverata che aveva aggredito la vittima ne attestava la non pericolosità. La permanenza – quindi la non pericolosità – della donna ricoverata non era di competenza degli imputati ma atteneva ad una valutazione di competenza del medico curante. Al contrario, all’amministratore competeva l’amministrazione della struttura e non la diagnosi sullo stato morboso dei pazienti e gli infermieri erano chiamati ad eseguire eventuali disposizioni dei medici e non certo ad effettuare diagnosi o a programmare cure o a disporre trasferimenti. Il ricorso è rigettato e l’assoluzione confermata.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 30 ottobre – 30 novembre 2017, n. 53992 Presidente Palla – Relatore Stanislao Ritenuto in fatto 1 - Con sentenza del 5 luglio 2016, la Corte di assise di appello di Catania, in riforma della sentenza della Corte di assise di Catania, assolveva L.S. , P.V. ed Sa.Ig. dai delitti loro rispettivamente ascritti perché il fatto non costituisce reato. L.S. era accusato del delitto previsto dall’art. 591 cod. pen., perché, quale amministratore unico della srl, aveva abbandonato gli anziani ivi ospitati, incapaci di provvedere a loro stessi, non assumendo il personale medico e specialistico necessario, consentendo che gli addetti all’assistenza svolgessero attività di operatori socio sanitari per la quale non erano abilitati, garantendo la presenza in orario notturno di soli due infermieri professionali. La Corte di assise di Catania l’aveva ritenuto però colpevole del delitto di abbandono di incapaci non per le carenze del personale della struttura ma perché L. non aveva dato disposizioni al personale di assicurarsi che il ricoverato Pi.Se. non corresse pericoli a causa delle condotte a suo danno di un’altra ricoverata, M.G. . Una condotta contestatagli in fatto nel corso del dibattimento. P.V. e Sa.Ig. erano accusati del delitto previsto dall’art. 591 cod. pen. così modificata l’originaria imputazione di omicidio colposo , perchP, quali infermieri professionali in servizio presso la medesima la notte dei fatti, abbandonavano il ricoverato Pi.Se. , incapace di provvedere a se stesso, determinando così una situazione di pericolo tale per cui il medesimo veniva colpito in varie parti del corpo da un’altra ricoverata, M.G. , anch’essa incapace, riportando lesioni che ne causavano la morte. La Corte territoriale perveniva all’assoluzione degli imputati sulla base delle seguenti considerazioni - si era potuto accertare, in particolare dalla deposizione della persona ricoverata nella medesima stanza del Pi. , F.M. , che M.G. , nelle prime ore del mattino ma ancora in orario notturno, era entrata nella stanza ove dimoravano Pi. e F. e, schernita dal primo, aveva reagito colpendolo più volte con una scarpa il personale medico si era accorto delle lesioni patite dal Pi. solo al mattino e le cure prestate non ne avevano impedito il decesso, dodici giorni più tardi - Pi. , F. e M. erano tutti pazienti ricoverati nella non per l’avanzata età ma per i loro problemi psichiatrici - quanto all’accusa mossa al L. , l’amministratore della struttura, non poteva affermarsi che la presenza di un terzo infermiere nel turno di notte avrebbe potuto evitare l’accaduto né si era provato che L. fosse stato messo al corrente della problematica intercorrente fra Pi. e M. e fosse il diretto responsabile delle cure e della sorveglianza che dovevano prestarsi ai due pazienti - quanto all’accusa mossa a P. e S. , i due infermieri professionali di turno quella notte, ai quali si era rimproverato di non avere apprestato adeguate cure e sorveglianza al Pi. , così abbandonandolo ed esponendolo ad una situazione di pericolo, non si era raggiunta la prova che costoro fossero stati adeguatamente informati dei ricorrenti litigi fra Pi. e M. e dei pericoli che ne potevano derivare , né che i due avessero abbandonato Pi. solo perché non avevano rilevato che quella notte non aveva urinato nel catetere denunciando così uno stato di malessere , né che costoro avessero il potere di trasferire il Pi. in altra stanza per poterlo meglio sorvegliare. Occorreva poi considerare, aggiungeva la Corte, che la poteva ricoverare pazienti psichici solo se stabilizzati, non essendo autorizzata ad ospitare pazienti problematici anche perché non disponeva del personale medico specializzato. Qualora un paziente non si fosse dimostrato stabile si sarebbe imposto il suo trasferimento in una struttura idonea. Una valutazione che non competeva ad alcuno dei tre imputati. Non vi era pertanto prova dell’elemento soggettivo del delitto contestato a L. , S. e P. , non essendosi accertato che i predetti fossero consapevoli che l’abbandono del paziente avrebbe potuto causargli il danno che gliene era derivato non potendosi applicare nel giudizio penale la presunzione dettata dall’art. 2047 cod. civ. . 2 - Propongono ricorso le costituite parti civili, S.L. , L.R. e M. , con unico atto ed a mezzo del comune difensore, articolando le proprie censure in due motivi. 2 - 1 - Con il primo motivo deducono il vizio di motivazione in ordine alla assoluzione dell’imputato L.S. . La Corte territoriale, nel riformare integralmente la sentenza di prime cure, non aveva assolto all’obbligo di esaminare con la dovuta accuratezza le argomentazioni spese dal primo giudice. Era contraddittorio affermare, come aveva fatto la Corte, che la soffriva di precise carenze, non disponendo di personale sufficiente a garantire l’adeguata cura e sorveglianza dei pazienti, in particolare di coloro che soffrivano di patologie psichiatriche, e non ritenerne poi responsabile l’imputato che ne era l’amministratore. L. , infatti, rivestiva una posizione di garanzia rispetto alla incolumità di tutti i degenti. E, in causa, si era provato che la carenza di personale aveva cagionato l’abbandono che aveva determinato il pericolo che si era poi concretizzato a danno del Pi. . Doveva poi ricordarsi che lo stesso Pi. era stato inopinatamente trasferito all’ultimo piano, il meno prossimo a quello in cui si trovavano gli infermieri del turno di notte, in una stanza vicina a quella della M. , pur essendo noto l’atteggiamento aggressivo di quest’ultima nei suoi confronti. Tanto più che la stessa Corte aveva rilevato come i testimoni avessero ricordato che la M. aveva già mostrato, in precedenti occasioni, di voler reagire alle continue provocazioni del Pi. . La mancata stabilizzazione della quale non era stata oggetto dei dovuti approfondimenti. 2 - 2 - Con il secondo motivo lamentano il vizio di motivazione in ordine alla assoluzione degli imputati P.V. e Sa.Ig. . Anche in questo caso la motivazione della Corte di appello era contraddittoria perché si era affermato che i due non avevano esposto a pericolo il Pi. per poi rilevare come questi si fosse trovato in tale stato di abbandono da consentire alla M. una prolungata aggressione a suo danno e da non accorgersi delle richieste di aiuto del F. , nel silenzio delle ore notturne. Tanto più che la situazione di disagio del Pi. era chiaramente denunciata dal fatto che costui non aveva urinato nella notte e che era nota la conflittualità fra questi e la M. . 3 - Il difensore di L.S. ha depositato una memoria con la quale chiede che il ricorso delle parti civili sia dichiarato inammissibile o sia rigettato. Si riteneva il ricorso inammissibile perché difettava di specificità e non affrontava in modo adeguato le argomentazioni spese dalla Corte di assise di appello. Se ne chiedeva, comunque, il rigetto, non essendo stata individuata e provata alcuna condotta del L. con la quale avrebbe potuto impedire l’evento. Considerato in diritto 1 - All’udienza davanti a questa Corte, S.L.G. ha rinunciato al ricorso che deve essere, conseguentemente, dichiarato inammissibile e la medesima condannata al pagamento delle spese processuali e, versando in colpa, anche della somma di Euro 2.000 in favore della Cassa delle ammende. 2 - La valutazione dei motivi di censura delle ricorrenti S.L.R. e M. necessita di alcune preliminari puntualizzazioni. Erroneamente si è affermato che la Corte territoriale, nel riformare la sentenza di condanna del primo giudice, non ha assolto all’onere di motivare, con argomentazione rafforzata, le ragioni del diverso giudizio, posto che, al contrario, ha puntualmente analizzato le ragioni per le quali, data per provata la materialità dei delitti di abbandono di incapace contestati agli imputati, era andata di contrario avviso rispetto alla decisione di prime cure, ritenendo non sussistesse la prova dell’elemento soggettivo dei delitti contestati agli imputati. Deve, inoltre, rilevarsi che, se l’elemento oggettivo del reato di abbandono di persone minori o incapaci è integrato da qualsiasi condotta, attiva od omissiva, contrastante con il dovere giuridico di cura o di custodia , gravante sul soggetto agente, da cui derivi uno stato di pericolo, anche meramente potenziale, per la vita o l’incolumità del soggetto passivo Sez. 1, n. 35814 del 30/04/2015, Rv. 264566 , l’elemento soggettivo si configura solo quando l’agente abbia la consapevolezza che l’incapace sia esposto a tale stato di pericolo. 3 - Ed è proprio sul diverso giudizio che si è formato in primo ed in secondo grado su tale consapevolezza che i giudici del merito hanno deciso, il primo per la condanna, il secondo per l’assoluzione. La Corte di assise di prime cure si era limitata ad affermare che i tre imputati, venuti, comunque, a conoscenza dei litigi fra M. e Pi. , avevano abbandonato il secondo, esponendolo a quello stato di pericolo di cui avevano avuto contezza. La Corte di assise di appello, invece, ha, innanzitutto, contestato il fatto che gli alterchi trascorsi fra i due fossero diversi e più gravi di quelli intercorsi fra altri pazienti psichiatrici ricoverati nella un dato che nel ricorso non si affronta . Ha, poi, rilevato come la struttura non potesse ricoverare pazienti pischiatrici non compensati, non avendo la specifica e necessaria autorizzazione a farlo e non avendo personale specializzato. Così che, quando i pazienti ricoverati mostravano segni di squilibrio, l’unica soluzione possibile adottata per la M. dopo i fatti era quella di trasferirli in un’altra struttura, idonea a prestare quelle particolari cure. La Corte ha rilevato, poi, come agli imputati - il legale rappresentante della competente sulla amministrazione della stessa ma non certo sulla diagnosi degli stati morbosi dei pazienti ed i due infermieri del turno di notte chiamati ad eseguire le eventuali disposizioni dei medici ma non certo ad effettuare diagnosi o a programmare cure o a disporre trasferimenti - potevano, al più, essere venuti a conoscenza degli alterchi fra M. e Pi. come voci correnti nella struttura una voce fra le tante e non come una situazione che necessitava del loro intervento o della loro sorveglianza. Non potevano così essere consapevoli dello stato di pericolo reale o potenziale che il Pi. correva, perché il permanente ricovero nella della M. , che non dipendeva da una loro valutazione ma atteneva alla responsabilità del medico curante, ne attestava, appunto, la non pericolosità. Un’argomentazione che, nel ricorso, ancora una volta, non si affronta e che costituisce invece l’asse portante del percorso motivazionale della Corte di assise di appello che non può certo ritenersi né illogico né contraddittorio neppure quando segnala che la responsabilità per la morte del Pi. per mano della M. debba essere qui valutata con i criteri propri del processo penale, anche se si tratta di decidere solo sulle statuizioni civili, e non possano pertanto trovare applicazione le disposizioni stabilite in tema di responsabilità per fatto dell’incapace dall’art. 2047 del codice civile, solo in altra sede azionabili . I ricorso della parti civili S.L.R. e M. vanno, pertanto, rigettati, perché privi di fondamento. 4 - Al rigetto dei ricorsi segue la condanna di ciascuna ricorrente al pagamento delle spese processuali del grado. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso di S.L.G. che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende. Rigetta i ricorsi di S.L.R. e S.M. e condanna ciascuna al pagamento delle spese processuali