Cosparge di benzina la moglie, la insegue e le dà a fuoco: omicidio premeditato e niente incapacità di intendere e di volere

Il disturbo dell’adattamento non è una vera e propria malattia mentale e, pertanto, l’inesistenza di precedenti psichiatrici è del tutto coerente con l’assenza di una malattia psichica. È presente la premeditazione quando l’individuazione del momento di insorgenza del proposito criminoso risale ad epoca assai precedente all’omicidio e che la risoluzione rimane ferma nel tempo, fino a giungere alla lucida realizzazione del delitto.

Questi i due principi di diritto acclarati dalla I Sezione Penale sentenza n. 53323/17, depositata il 23 novembre , che confermano la sentenza di condanna a trent’anni della Corte di Appello di un uomo per omicidio premeditato e aggravato alla moglie che, dopo essere stata vittima di maltrattamenti in famiglia, veniva uccisa al termine di una sequenza orribile, laddove il marito, dopo averla seguita con la propria autovettura, l’aveva investita facendola cadere sul suolo, fatta salire a bordo, cosparsa di benzina e, mentre ella si dava alla fuga, inseguita e dato fuoco con un accendino e della carta. Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Il deposito delle motivazioni della sentenza l’udienza pubblica si era celebrata il 4 luglio 2017 non è casuale avviene infatti a ridosso della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne ricorrenza istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, tramite la risoluzione numero 54/134 del 17 dicembre 1999 del 25 novembre, quasi a voler anch’essa sensibilizzare l’opinione pubblica su una delle piaghe più dolorose dell’Italia ma non solo, in quanto quello della violenza di genere è un problema che travalica i confini sovrannazionali . Proprio in questi giorni, peraltro, nell’aula Magna della Suprema Corte la struttura di formazione decentrata della Corte di Cassazione, si sta tenendo un importante incontro di aggiornamento e di confronto, intitolato La violenza contro le donne”, iniziato il 22 novembre e che si chiude oggi. Femminicidio. Pur essendo consapevoli dell’improprietà tecnica del termine femminicidio” tale espressione non viene mai riportata all’interno del d.l. n. 93/2013, convertito nella legge n. 119/2013, che invece parla di contrasto alla violenza di genere , lo si utilizza perché meglio evocativo – come avvenuto in occasione del fatto portato all’attenzione della Suprema Corte – dell’uccisione di una donna in quanto donna”. Il che figlio di una cultura, sociale e giuridica, nella quale la disparità di genere ha comportato soprattutto in ambito familiare l’occultamento della violenza. Basti pensare che la riforma del diritto di famiglia ha visto la luce solo nel 1975 che fino al 1981 vi era il delitto d’onore e che lo ius corrigendi verso moglie e figli, anche attraverso l’uso della violenza è stato eliminato dalla Suprema Corte solo a partire dal 1963 precisando che l’abuso deve avere ad oggetto un mezzo di correzione lecito”, quale non è certamente la violenza . Niente incapacità di intendere e di volere. Tornando al caso deciso dalla Suprema Corte, due sono stati i binari difensivi percorsi dell’imputato. Il primo traeva spunto dalle due perizie, disposte nei due gradi di giudizio di merito, per le quali l’imputato è risultato affetto da un disturbo dell’adattamento, condizione sufficiente per negare l’incapacità di intendere e di volere inoltre, in passato non aveva manifestato sintomi psicopatologici della sfera psicotica. I medicinali somministratigli in carcere non erano in stretta correlazione con una patologia psichiatrica, avendo azione esclusivamente sintomatologica. Ebbene, per la difesa dell’imputato l’errore in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale è pur partendo dal presupposto che l’imputato è affetto da disturbo dell’adattamento con sintomatologia ansiosa-depressiva reattiva di grado medio, non l’aveva considerata come malattia mentale. Di diverso avviso la Suprema Corte la quale, nel dichiarare inammissibile il ricorso, ritiene che il ricorrente definisce erroneamente il disturbo dell’adattamento come vera e propria malattia mentale, mentre si tratta di una condizione psicologica. Ciò in quanto, come precisato dalle Sezioni Unite nella sentenza Raso n. 9163/2005, che i disturbi della personalità possono rientrare nel concetto di infermità solo laddove presentino una consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere e di volere. Per gli Ermellini, il ricorrente, partendo da una errata classificazione del disturbo di adattamento, ravvisa una insussistente contraddizione nel passaggio in cui si da atti dell’inesistenza di recedenti psichiatrici al contrario, l’inesistenza di tali precedenti è del tutto coerente con l’assenza di una malattia psichica. Sulla premeditazione. La difesa dell’imputato deduce la violazione di legge per la mancata esclusione della premeditazione in quanto l’azione dell’imputato era stata compiuta in conseguenza di una estemporanea risoluzione criminosa determinata da pensieri ossessivi di una persona disturbata nella sua personalità, del tutto incompatibili con la premeditazione. Invece, afferma la Suprema Corte, dalla gravata sentenza tale elemento emergeva dalle stesse dichiarazioni dell’imputato che aveva riferito come nel corso del tempo i rapporti con la moglie erano peggiorati e che era cresciuta la sua rabbia e da alcuni giorni aveva deciso il suo gesto e della figlia che aveva visto il padre minacciare di morte e mettere le mani al collo alla madre quasi a strangolarla e che la madre le aveva confidato che l’aveva seguita con l’autovettura. Inoltre, l’accurata predisposizione dei mezzi usati per eseguire il delitto, dimostrava, anch’essa che l’azione non era il frutto di un impulso momentaneo, ma il punto di arrivo del crescendo della determinazione omicidiaria che covava e che si rafforzava da tempo nell’animo dell’imputato. De iure contendo la valutazione del rischio. In questi giorni in cui sono molteplici le iniziative e attività volte a sensibilizzare l'opinione pubblica contro la violenza sulle donne, si pensa a quali strumenti possano servire per risolvere il problema del femminicidio, riducendo nell’immediato il numero preoccupante di donne uccise ad opera di partner. Ebbene, il sottoscritto ha appena partecipato al Seminario Travaw all’interno dell’omonimo progetto Training of Lawyers on the Law relating to Violence against Women , finanziato con il supporto del programma Daphne dell’Unione Europea , organizzato a Roma dal CNF. Tra i tanti spunti offerti dagli illustri relatori, piace prendere due proposte del Dott. Fabio Roia presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano . Il primo parte dalla constatazione che la singola valutazione del rischio di recidiva da parte del magistrato diventa un’operazione estremamente difficile e a volte casuale perché si adottano i normali parametri di valutazione non potendo il giudice ricorrere a consulenti esterni. Pertanto, sarebbe auspicabile la modifica dell’art. 220 c.p.p. attraverso l’estensione della perizia alla valutazione dei rischio delle vittime di violenza di genere per fornire al giudice un ausilio criminologico che rende la valutazione del rischio più adeguata anche perché gli autori di femminicidio sono spesso individui incensurati a comunque dai quali è difficile prevedere il covare del proposito omicidiario . Il trattamento dell’autore del reato. Anche se l’attenzione è sempre sul piano della vittima, per evitare la recidiva è necessario che il maltrattante o lo stalker prima che la sua escalation di violenza culmini con il femminicidio segua un trattamento. Il legislatore del 2013 lo ha soltanto accennato prevedendo, ai fini dell’attenuazione delle esigenze cautelari, che Quando l’imputato si sottopone positivamente ad un programma di prevenzione della violenza organizzato dai servizi del territorio il responsabile del servizio ne dà comunicazione al PM e al Giudice ai fini della valutazione ai sensi dell’art. 299 comma 2 c.p.p. . Questo diventa fondamentale per evitare casi recidiva e pertanto l’auspicio è che una disposizione di tal fatta venga estesa anche in fase processuale e non rimanere confinata in ambito cautelare. Ed invece, la messa alla prova – che potrebbe, se basata su un serio programma trattamentale, ridurre il pericolo di recidiva – non si applica visto il tetto massimo di pena previsto dall’art. 168- bis c.p. proprio alle fattispecie incriminatrici di maltrattamenti e stalking. In assenza di tali trattamenti, il carcere rischia di servire in taluni casi a premeditare il femminicidio.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 4 luglio – 23 novembre 2017, n. 53323 Presidente Bonito – Relatore Rocchi Ritenuto in fatto 1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di assise di appello di Napoli, in parziale riforma di quella del G.U.P. del Tribunale di Napoli appellata da C.V., escludeva l’aggravante del mezzo insidioso di cui all’art. 577, comma 1, n. 2 cod. pen. e rideterminava la pena nei confronti dell’imputato in anni trenta di reclusione. C. è imputato dell’omicidio premeditato ed aggravato della moglie D.F.G Secondo l’imputazione, egli aveva seguito la moglie con la propria autovettura, l’aveva investita facendola cadere al suolo, l’aveva fatta salire a bordo, cosparsa di benzina e, mentre ella si dava alla fuga, l’aveva inseguita e le aveva dato fuoco con un accendino e della carta C. è imputato anche del delitto di maltrattamenti in danno della moglie che quotidianamente percuoteva, umiliava e ingiuriava anche di fronte alla figlia minore. Poiché i motivi di ricorso hanno per oggetto esclusivamente il mancato riconoscimento dell’incapacità di intendere e di volere e la sussistenza dell’aggravante della premeditazione, l’esposizione si limita ai dati rilevanti. La Corte aveva disposto la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale conferendo incarico per una perizia psichiatrica sull’imputato, anche se il Giudice di primo grado aveva già disposto C.T.U. al fine di accertarne la capacità di intendere e di volere al momento del fatto e la capacità di partecipare al processo. La sentenza impugnata dava atto che il C.T.U. nominato dal Giudice dell’udienza preliminare aveva concluso per la sussistenza della piena capacità di intendere e di volere dell’imputato anche i risultati della nuova perizia non si discostavano dalla precedente, avendo il perito concluso per la capacità di intendere e di volere al momento della commissione del fatto. C. è risultato affetto soltanto da un disturbo dell’adattamento, condizione insufficiente per negare la capacità di intendere e di volere inoltre, in passato, non aveva manifestato sintomi psicopatologici della sfera psicotica. I medicinali somministrati all’imputato in carcere non erano in stretta correlazione con una patologia psichiatrica, avendo azione esclusivamente sintomatologica. Non emergeva alcuna compromissione della capacità di intendere e di volere. La Corte ricordava che le stesse parole dell’imputato dimostravano la premeditazione del delitto egli aveva riferito che, in conseguenza del peggioramento dei rapporti con la moglie, nel corso del tempo era cresciuta la sua rabbia e da alcuni giorni egli aveva deciso il suo gesto. Risultava palese la presenza di una perdurante determinazione criminosa nell’agente senza soluzione di continuità e senza ripensamenti dal momento del concepimento dell’azione antigiuridica fino alla sua realizzazione. Per di più, emergeva un’accurata predisposizione dei mezzi usati per eseguire il delitto. In definitiva, l’azione non era frutto di un impulso momentaneo, ma il punto di arrivo del crescendo della determinazione omicidiaria che covava e si rafforzava da tempo nell’animo dell’imputato. Due settimane prima la figlia aveva visto il padre nel gesto di mettere le mani al collo alla madre, quasi a strangolarla e solo le urla della donna l’avevano dissuaso a proseguire inoltre - come confidato dalla vittima alla figlia - già in precedenza C. l’aveva seguita con l’autovettura. La figlia aveva affermato che il padre mostrava odio e cattiveria nei confronti della moglie e la minacciava di morte, seppure in maniera strana, con frasi del tipo devo trovare il modo di farti fuori . 2. Ricorre per cassazione il difensore di C.V. , deducendo in un primo motivo, violazione di legge e vizio di motivazione per il mancato riconoscimento del vizio parziale di mente incidente sulla capacità di intendere e di volere dell’imputato al momento del fatto. La Corte territoriale, pur partendo dal presupposto che l’imputato è affetto da disturbo dell’adattamento con sintomatologia ansioso-depressiva reattiva di grado medio - grave in soggetto con tratti di personalità mista, non l’aveva considerata una vera e propria malattia mentale e si era adagiata sull’assenza di pregressi contatti dell’uomo con strutture deputate alla cura di tale patologia, senza tenere conto della condizione socio - economica del soggetto e dell’anamnesi carceraria. La direzione del carcere di OMISSIS aveva sottoposto C. a molti controlli psichiatrici, somministrando continuativamente farmaci psicoterapici. La Corte si era appiattita sulle conclusioni del perito, senza tenere conto della storia pregressa di C. che fin dalla giovane età aveva manifestato fenomeni antisociali. Gli accertamenti sulla persona dell’imputato, comunque, erano stati effettuati quando egli era ormai in stato di sedazione farmacologica conseguente alla somministrazione di farmaci. Nel recepire i risultati della perizia, la Corte non aveva tenuto conto del comportamento di C. successivo al delitto, il quale dimostrava di non avere compreso il significato e il disvalore della propria azione, nonché delle informazioni rese dai vicini di casa. In un secondo motivo, il ricorrente deduce violazione di legge penale per la mancata esclusione della premeditazione, oggetto di specifico motivo di appello. L’azione - cosciente o meno - era stata compiuta dall’imputato in conseguenza di una estemporanea risoluzione criminosa determinata da pensieri deliranti ed ossessivi di una persona malata o grandemente disturbata nelle sue capacità psichiche cognitive, del tutto incompatibili con la premeditazione. La sentenza non aveva individuato il momento dell’insorgenza del proposito criminoso e, quindi, era mancante di motivazione sul tema della premeditazione. Il ricorrente conclude per l’annullamento della sentenza impugnata. Considerato in diritto Il ricorso è inammissibile. In effetti, il ricorrente non fa che avanzare considerazioni in fatto riproponendo quelle già esposte ai giudici di merito - senza affatto dimostrare la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata, motivazione che viene, in sostanza, ignorata. Quanto alla asserita parziale incapacità di intendere e di volere dell’imputato, oggetto del primo motivo di ricorso, la Corte territoriale aveva come punto di riferimento ben due perizie d’ufficio - la prima disposta dal giudice di primo grado, la seconda dalla stessa Corte territoriale in sede di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale - che concludevano per la piena capacità dell’imputato. Ciò nonostante, la motivazione sul punto è ampia mentre quella della sentenza di primo grado era scarna e ha toccato tutti i punti rilevanti della valutazione l’assenza di qualsiasi precedente anamnestico indicativo di una malattia psichiatrica, l’esistenza di un mero disturbo dell’adattamento con sintomatologia ansioso-depressiva, l’irrilevanza dei sintomi percepiti dall’imputato fenomeni parestesici, comuni negli stati d’ansia e in quelli depressivi , il distacco emotivo mostrato, la non significatività dei medicinali somministrati al soggetto per dimostrare l’esistenza di una patologia psichiatrica, l’inesistenza di una schizofrenia paranoidea, che si sarebbe manifestata nella giovane età, l’esito dei test psicologici, la mancanza di valenza dimostrativa di dichiarazioni di testi non esperti nel campo psichiatrico. Il ricorrente definisce erroneamente il disturbo dell’adattamento come vera e propria malattia mentale , mentre si tratta di condizione psicologica. Il punto di riferimento è la sentenza delle Sezioni Unite Raso, secondo cui, ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i disturbi della personalità , che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di infermità , purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale i fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale. Ne consegue che nessun rilievo, ai fini dell’imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di infermità Sez. U, n. 9163 del 25/01/2005 - dep. 08/03/2005, Raso, Rv. 23031701 . Il ricorrente, partendo da tale erronea classificazione del disturbo di adattamento, ravvisa un’insussistente contraddizione nel passaggio della motivazione in cui si dà atto dell’inesistenza di precedenti psichiatrici al contrario, l’inesistenza di tali precedenti è del tutto coerente con l’assenza di una malattia psichiatrica. In realtà, il tentativo è di convincere questa Corte che la mancanza di contatti con strutture psichiatriche nel passato era attribuibile alle condizioni economiche precarie di C. - argomentazione del tutto generica - e che la condotta antisociale, di cui la sentenza dà atto, era sintomo di una patologia psichiatrica nascosta viene riproposto il tema dei medicinali somministrati in carcere all’imputato e richiamate - del tutto genericamente e senza relativa allegazione - le dichiarazioni di terze persone ritenute ininfluenti dalla sentenza. In definitiva, il motivo di ricorso non rientra affatto nella denuncia del vizio di motivazione contemplato dall’art. 606, comma 1, lett. e cod. proc. pen Analoga considerazione deve essere fatta con riferimento al secondo motivo di ricorso, avente ad oggetto l’aggravante della premeditazione. In effetti, il ricorrente tralascia del tutto la motivazione della sentenza impugnata, in base alla quale la premeditazione del delitto poteva essere facilmente dedotta dalle dichiarazioni dello stesso imputato e dalle condotte precedenti tenute nei confronti della moglie, riferite dalla figlia della coppia, sostenendo che dalla sua lettura non emergerebbe l’individuazione del momento di insorgenza del proposito criminoso ma, appunto, la sentenza dimostra ampiamente che esso risaliva ad epoca assai precedente e che la risoluzione era rimasta ferma nel tempo, fino a giungere alla lucida realizzazione dell’orribile delitto. Alla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione consegue ex lege, in forza del disposto dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento della somma, tale ritenuta congrua, di Euro 2.000 duemila in favore delle Cassa delle Ammende, non esulando profili di colpa nel ricorso palesemente infondato v. sentenza Corte Cost. n. 186 del 2000 consegue, altresì, la condanna al rimborso delle spese sostenute dalle parti civili nel presente giudizio. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 2.000 alla Cassa delle Ammende condanna, altresì, il ricorrente alla rifusione delle spese sopportate nel grado dalle parti civile costituite D.F.E. e C.F. nonché Di.Fr.El. , che liquida in favore dell’avv. Alessandro Motta in Euro 4.000 ed in favore dell’avv. Alfredo Nello in Euro 3.500 oltre, per entrambi i difensori, spese generali, IVA e CAP come per legge, con distrazione in favore dei difensori antistatari.