Rapporti subiti passivamente dalla consorte: condannato il marito

Gli episodi si collocano in un clima familiare di sopraffazione ai danni della donna. Irrilevante la sua scelta di non opporsi alle pretese del coniuge, che era consapevole del rifiuto implicito da parte della moglie.

Irrilevante il rapporto coniugale. Irrilevante il silenzio e l’atteggiamento passivo della donna. I rapporti carnali imposti dal coniuge sono catalogabili come violenza sessuale. Legittima, quindi, la condanna del marito Cassazione, sentenza n. 51074/17, sezione III Penale, depositata oggi . Abusi. Dalla ricostruzione della vicenda è emersa, secondo gli inquirenti, una vita da incubo per la donna, sottoposta dal marito a sopraffazioni e umiliazioni . In quel contesto sono consequenziali, sempre secondo l’accusa, anche gli abusi sessuali compiuti dall’uomo, che ha obbligato la moglie a rapporti da lei non voluti. Per i giudici, prima in Tribunale e poi in Corte d’Appello, non ci sono dubbi sulla colpevolezza dell’uomo, alla luce dei racconti fatti dalla coniuge. E questa decisione è confermata ora dalla Cassazione, nonostante il legale del marito abbia sottolineato il comportamento passivo tenuto dalla donna, che aveva evitato di raccontare le violenze subite ai parenti e ai figli. Su questo fronte i Giudici del Palazzaccio considerando giusta l’ottica adottata in Appello. In sostanza, l’atteggiamento passivo di non opposizione della donna in occasione dei rapporti sessuali è connesso al complessivo clima familiare, connotato da sopraffazione e disprezzo nei suoi confronti ad opera del marito. Allo stesso tempo, però, i magistrati tengono a sottolineare la gravità del comportamento tenuto dall’uomo. I rapporti carnali da lui imposti alla consorte sono catalogabili come violenza sessuale in piena regola. Ciò perché non può avere valore scriminante il fatto che la donna non si opponga palesemente e li subisca , soprattutto quando, come in questo caso, l’autore, per le violenze e le minacce ripetutamente poste in essere nei confronti della vittima, abbia la consapevolezza del rifiuto implicito della donna .

Corte di Cassazione, sez III Penale, sentenza 26 settembre – 9 novembre 2017, n. 51074 Presidente Di Nicola – Relatore Cerrone Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 12 ottobre 2015 la Corte di Appello di Catania ha confermato la sentenza del 2 dicembre 2014 del Tribunale di Ragusa, in forza della quale Ca. Ca. era stato condannato, ritenuta la continuazione tra i reati e concesse le attenuanti generiche da ritenersi equivalenti all'aggravante di cui all'art. 609-ter, n. 5 cod. pen., alla pena di anni quattro e mesi quattro di reclusione per i reati di cui agli artt. 61, n. 11-quinquies, 81 capoverso, 572 e 610 cod. pen. 81 capoverso, 61, n. 2, 635, commi 1 e 2, n. 1, 582, 585, 576, n. 1 e n. 5 cod. pen. 81 capoverso, 609-bis, 609-ter, n. 5-quater, 56, 609-bis e 609-ter n. 5-quater cod. pen. in danno del coniuge Rosalba Arena. 2. Avverso la predetta decisione l'imputato ha proposto ricorso per cassazione con un articolato motivo di impugnazione. 2.1. In particolare, il ricorrente ha dedotto mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, dal momento che, quanto al contestato reato di cui all'art. 609-bis cod. pen., non era stato tenuto conto della lamentata non credibilità della persona offesa, altresì in relazione all'interesse della medesima ed al rancore che l'animava, si che sussisteva la necessità di un controllo più rigoroso di attendibilità sulle dichiarazioni siccome da costei rilasciate. Né era stata spesa parola in ordine alle contraddizioni evidenziate dalla difesa, visto che la parte offesa sarebbe stata costretta a subire violenza senza chiedere aiuto alle figlie presenti nell'abitazione ovvero ai vicini, e che prima della denuncia la stessa Arena non aveva mai parlato con alcuno delle presunte violenze sessuali perpetrate a suo danno nel corso del tempo, neppure con la cognata Carmela Scifo con la quale era pure solita confidarsi . Né, infine, alcunché era stato riferito alle figlie, mentre non sussistevano referti medici attestanti la pretesa violenza. 3. Il Procuratore generale ha concluso nel senso dell'inammissibilità del ricorso. Considerato in diritto 4. Il ricorso è complessivamente inammissibile. 4.1. Osserva preliminarmente la Corte che l'esame del complesso motivo di ricorso può essere effettuato prendendo in considerazione la motivazione di entrambe le sentenze di merito, e ciò in quanto i giudici territoriali hanno adottato decisioni e percorsi motivazionali comuni che possono essere valutati congiuntamente, ai fini di una efficace ricostruzione della vicenda processuale e di una migliore comprensione delle censure del ricorrente. E' infatti appena il caso di ricordare che qualora il giudice d'appello abbia accertato e valutato, come in specie, il materiale probatorio con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado, le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscono una sola entità logico-giuridica, alla quale occorre far riferimento per giudicare della congruità della motivazione, integrando e completando quella adottata dal primo giudice le eventuali carenze di quella d'appello Sez. 1, n. 1309 del 22/11/1993, dep. 1994, Sc., Rv. 197250 . Invero, allorché le sentenze di primo e secondo grado concordino nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complesso corpo argomentativo ex plurimis, Sez. 1, n. 8868 del 26/06/2000, Sangiorgi, Rv. 216906 . 4.2. Ciò posto, l'odierno ricorrente ha impugnato il provvedimento della Corte territoriale solamente nella parte in cui è stata pronunciata condanna a norma dell'art. 609-bis cod. pen In altre parole, non vi è così più questione in ordine alla responsabilità del Ca. in ordine ai fatti, parimenti ascrittigli, di maltrattamenti in famiglia, di danneggiamento e di lesioni personali. 4.3. Al riguardo, il ricorrente ha censurato la valutazione di attendibilità conferita alla parte civile, in particolare osservando che il coniuge, che comunque aveva un evidente interesse personale anche di natura economica ed un manifesto rancore nei riguardi del marito, non aveva fatto menzione delle pretese violenze subite né con la figlia né con la cognata, che pure le sarebbero state vicine in occasione delle vicissitudini familiari. 4.4. Il rilievo è manifestamente infondato. Da un lato infatti, come è stato parimenti osservato v. anche infra , l'ormai irrevocabile accertamento di responsabilità circa gli altri due titoli di reato ascritti al ricorrente comporta già di per sé una valutazione di credibilità della parte civile, che i fatti posti a base della restante condanna aveva parimenti denunciato. D'altro canto la stessa Corte territoriale ha non illogicamente spiegato altresì quali fossero le ragioni alla base tanto della condotta meramente passiva assunta dalla donna in occasione delle iniziative sessuali del coniuge, quanto dei silenzi mantenuti con le parenti che pure le erano state di aiuto e conforto nelle difficoltà, stante il naturale pudore di trattare argomenti del genere soprattutto con la prole, che pure aveva assistito a ripetuti episodi di violenza domestica. Al riguardo, poi, anche recentemente questa Corte ha osservato come, ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo del reato di violenza sessuale, è sufficiente che l'agente abbia la consapevolezza del fatto che non sia stato chiaramente manifestato il consenso da parte del soggetto passivo al compimento degli atti sessuali a suo carico cfr. Sez. 3, n. 49597 del 09/03/2016, S., Rv. 268186 . Ancor più precisamente, è stato così ripetutamente ribadito che, ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale, è sufficiente qualsiasi forma di costringimento psico-fisico idoneo ad incidere sull'altrui libertà di autodeterminazione, senza che rilevi in contrario né l'esistenza di un rapporto di coppia coniugale o para-coniugale tra le parti, né la circostanza che la donna non si opponga palesemente ai rapporti sessuali, subendoli, laddove risulti la prova che l'agente, per le violenze e minacce poste in essere nei riguardi della vittima in un contesto di sopraffazione ed umiliazione, abbia la consapevolezza di un rifiuto implicito da parte di quest'ultima al compimento di atti sessuali Sez. 3, n. 39865 del 17/02/2015, S., Rv. 264788 . Infatti, ed in proposito va condiviso lo specifico richiamo operato dal Tribunale ragusano, nel reato di violenza sessuale non ha valore scriminante il fatto che la donna non si opponga palesemente ai rapporti sessuali e li subisca, quando è provato che l'autore, per le violenze e le minacce ripetutamente poste in essere nei confronti della vittima, abbia la consapevolezza del rifiuto implicito ai congiungimenti carnali era stato così ritenuto sussistente il reato per avere l'imputato, legato da una relazione sentimentale con la vittima, fatto uso di violenza fisica più volte in precedenza e anche nei momenti immediatamente antecedenti il rapporto sessuale, rendendo, di conseguenza, irrilevante l'atteggiamento passivo di non opposizione della donna al momento del congiungimento carnale Sez. 3, n. 29725 del 23/05/2013, M., Rv. 256823 . Alla stregua dei rilievi che precedono, quindi, i riferiti episodi di violenza passivamente subita trovano adeguata conferma e sufficiente riscontro proprio nel complessivo clima familiare, ormai non più revocabile in dubbio e connotato da inesausta sopraffazione e da proclamato disprezzo nei confronti della parte civile. D'altronde, quanto alle dichiarazioni della figlia Ma. Ma. Ca., rese ai Carabinieri di Acate e prodotte dal ricorrente, la stessa ebbe a riferire di non saper dire se mio padre abbia mai abusato sessualmente di mia madre, non mi è stato mai parlato di ciò, ma non lo escludo . 4.5. Alcuna censura può quindi soffrire il provvedimento impugnato, laddove semmai è il ricorrente a non confrontarsi adeguatamente con le emergenze processuali e con i principi giurisprudenziali che i giudici di merito hanno correttamente applicato. 5. La manifesta infondatezza del motivo di ricorso conduce senz'altro all'inammissibilità dell'impugnazione. Tenuto infine conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità , alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 2.000,00. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.