La certificazione ISEE non dimostra l’indigenza del condannato

La certificazione ISEE, prodotta in giudizio a sostegno dell’invocata indigenza economica causa del mancato versamento della cauzione di cui all’art. 3-bis l. n. 565/1965, non ha sufficiente valore probatorio.

Così la Corte di Cassazione con la sentenza n. 50434/17 depositata il 6 novembre. La vicenda. La Corte d’Appello di Napoli, confermando la condanna di primo grado, riconosceva l’imputato colpevole del reato di cui all’art. 3- bis l. n. 565/1965 perché, essendo sottoposto a misura di prevenzione, non aveva versato nei termini prescritti la cauzione di 1000,00€, rilevando inoltre come la certificazione ISEE prodotta in giudizio non costituisse prova adeguata dell’invocato stato di indigenza, anche in riferimento alle disponibilità derivante dalla commissione di diverse rapine. La pronuncia viene impugnata con ricorso per cassazione dalla difesa che lamenta la mancata valorizzazione della prova in ordine all’indisponibilità economica dell’imputato, come risultante dalla certificazione prodotta. Indigenza. La Corte rigetta la censura sottolineando che la certificazione ISEE, come peraltro affermato anche dalla Corte partenopea, non costituisce una prova rilevante ai fini della dimostrazione delle condizioni di assenza di reddito in quanto fondata su autodichiarazioni ed avente valore legale in contesti diversi da quello penale. La Corte di merito ha dunque correttamente motivato la propria decisione anche in riferimento alle condanne subite dal ricorrente per rapina dalle quali non è stata dedotta la prova diretta della disponibilità del relativo profitto ma un indice generale di dedizione dl delitto e, di conseguenza, della possibilità di disporre di reddito, anche se di provenienza illecita. Sulla base di tale argomentazione, è stata dedotta la non impossibilità di provvedere al versamento della cauzione e la volontà di non adempiere. In conclusione la Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 28 settembre – 6 novembre 2017, n. 50434 Presidente Ippolito – Relatore Di Stefano Motivi della decisione La Corte di Appello di Napoli con sentenza del 14/12/2015 ha confermato in punto di responsabilità, riducendo la pena, la condanna di A.S. per il reato di cui all’art. 3 bis della legge 575/1965 perché il predetto, sottoposto a misura di prevenzione, non versava nei termini previsti la cauzione di Euro 1000. In particolare, con riferimento alla difesa fondata essenzialmente sulla presunta indigenza del ricorrente, la Corte riteneva che la certificazione ISEE non fosse una prova adeguata e, comunque, valorizzava le informazioni relative alla commissione di rapine per ricostruire la disponibilità di reddito da parte dell’A. . A. ricorre con atto a propria firma contro tale sentenza deducendo con unico motivo il vizio di motivazione e la violazione di legge ritenendo che non sia stata valorizzata la chiara prova della indisponibilità economica, dimostrata in maniera inequivocabile e incontrovertibile dalla certificazione prodotta. Né è probante la sentenza di condanna per un delitto contro il patrimonio essendo egli stato detenuto nel periodo successivo a tale reato. Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza del motivo. La corte d’appello ha correttamente escluso che la certificazione ISEE rappresenti una prova rilevante per dimostrare le condizioni di assenza di reddito in quanto la stessa è fondata sulla autodichiarazione ed ha valore legale in contesti diversi dal processo penale. Quanto alla deduzione relativa all’epoca di commissione del reato per il quale vi è stata la condanna citata dalla sentenza, va considerato che la Corte di merito ha ritenuto tale fatto non quale prova diretta della disponibilità del relativo profitto ma, correttamente, quale indice generale di dedizione al delitto. In tale modo, quindi, ha inteso dimostrare la disponibilità di reddito, ancorché illecito, e la conseguente non impossibilità del versamento della cauzione e la volontà di non adempiere. Valutate le ragioni della inammissibilità, la sanzione pecuniaria va determinata nella misura, di cui in dispositivo. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della cassa delle ammende.