Reato aggravato, anzi no. Ma i termini della custodia cautelare non mutano

I termini massimi di custodia cautelare per la fase delle indagini preliminari vanno commisurati in relazione alla qualificazione giuridica del fatto contenuta nell’ordinanza di applicazione della misura, a prescindere dall’eventuale riqualificazione del fatto in sede di giudizio di prime cure tramite l’esclusione di una circostanza aggravante.

Questo il principio affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 50213/17 depositata il 3 novembre. Il caso. L’imputato, condannato, a seguito di giudizio abbreviato, a sei anni di reclusione per produzione e traffico di sostanze stupefacenti chiedeva al giudice del riesame la scarcerazione per decorso del termine di durata massima della custodia cautelare, ma la richiesta veniva rigettata. Il difensore ricorre dunque dinanzi alla Corte di Cassazione affermando che l’esclusione dell’aggravante dell’ingente quantità art. 80, comma 2, d.P.R. n. 309/1990 decisa con la sentenza di primo grado avrebbe dovuto retroagire, ai fini del computo del termine di fase, a quella delle indagini. Riqualificazione del fatto e computo dei termini. La doglianza non viene condivisa dalla Suprema Corte che sottolinea come il mutamento della qualificazione giuridica del fatto, con l’esclusione dell’aggravante in parola, avvenuto con la sentenza di primo grado non sia idoneo ad influire sul termine di durata della custodia cautelare della fase precedente. Il consolidato orientamento giurisprudenziale sul tema afferma infatti che il mutamento della qualificazione giuridica del fatto non produce alcuna conseguenza sul computo dei termini di custodia cautelare delle fasi processuali ormai esaurite. In conclusione la Corte afferma il principio secondo cui qualora con la sentenza di primo grado venga esclusa l’esistenza di un’aggravante, rilevante ai fini della determinazione della pena agli effetti dell’applicazione della misura ai sensi dell’art. 278 c.p.p., i termini di custodia cautelare per la fase delle indagini preliminari vanno commisurati in relazione alla qualificazione giuridica del fatto contenuta nell’ordinanza di applicazione della misura medesima. Tornando al caso di specie, consegue che correttamente il giudice del riesame ha determinato i termini di custodia cautelare della fase delle indagini preliminari tenendo conto anche dell’aggravante di cui all’art. 80, comma 2, d.P.R. n. 309/1990, caducata solo in una fase processuale successiva. Per questi motivi, il ricorso viene dichiarato inammissibile e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 5 ottobre – 3 novembre 2017, n. 50213 Presidente Carcano – Relatore Giordano Ritenuto in fatto 1. È impugnata da G.D. l’ordinanza con la quale il Tribunale del Riesame di Ancona, adito in sede di appello, ha respinto la richiesta di scarcerazione per il decorso del termine di durata massima di custodia cautelare. Il ricorrente è stato condannato, con sentenza emessa all’esito del giudizio abbreviato, alla pena di anni sei di reclusione per il reato di cui all’art. 73 d.P.R. 309/1990, previa esclusione della contestata aggravante di cui all’art. 80 d.P.R. comma 2, d.P.R. citato, per avere detenuto, a fini di cessione a terzi, sostanza stupefacente tipo marijuana del peso di kg. 10,739. 2. Con motivi di seguito sintetizzati ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen., il difensore denuncia vizio di violazione di legge, in relazione all’art. 303, comma 1, lett. a , cod. proc. pen Assume che l’esclusione dell’aggravante della ingente quantità, decisa con la sentenza di primo grado deve retroagire, ai fini del computo del termine di fase, a quello di fase delle indagini, in applicazione del principio affermato nella sentenza della Corte di Cassazione, resa a Sezioni Unite, n. 26350 del 2002. Rileva che l’insussistenza dell’aggravante era stata acclarata, sulla scorta della consulenza tecnica che aveva accertato l’entità del principio attivo presente nello stupefacente sequestrato, durante le indagini e che già al momento della richiesta del decreto di giudizio immediato - avanzata dal Pubblico Ministero il 14 novembre 2016 - il termine di fase era ormai decorso, in relazione alla fattispecie semplice, alla data dell’8 novembre 2016. Erroneamente, pertanto, l’inquirente non aveva modificato il Capo di imputazione, che comprendeva l’aggravante di cui all’art. 80, comma 2, comma 2, d.P.R. 309/1990, esclusa solo in sede di condanna, con una decisione che non può andare a detrimento della libertà dell’imputato. Considerato in diritto 1. Il ricorso è manifestamente infondato e deve essere dichiarato inammissibile. 2. Ritiene il Collegio che il mutamento della qualificazione giuridica del fatto, operato con la sentenza di condanna di primo grado, non può influire, in applicazione del principio ora per allora, sul termine di durata della custodia cautelare della fase precedente. Le conclusioni alle quali è pervenuto il ricorrente sono, in vero, contrarie all’orientamento interpretativo nettamente prevalente ed oramai consolidato di questa Corte, secondo il quale il mutamento della qualificazione giuridica del fatto non può influire sui termini di custodia cautelare della fasi esaurite Sez. 6, n. 35681 del 14/05/2015 - dep. 26/08/2015, Bruzzise, Rv. 264268 Sez. 6, n. 3507 del 03/11/1999 - dep. 26/11/1999, Cottone, Rv. 214898 Sez. 5, n. 46835 del 04/12/2007 - dep. 17/12/2007, Di Lauro e altro, Rv. 238890 . Va, pertanto, affermato il principio che, qualora con la sentenza di primo grado venga esclusa l’esistenza di un’aggravante, rilevante ai fini della determinazione della pena agli effetti dell’applicazione della misura ai sensi dell’art. 278 cod. proc. pen., i termini di custodia cautelare per la fase delle indagini preliminari vanno commisurati in relazione alla qualificazione giuridica del fatto contenuta nell’ordinanza di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, conclusione che, nel caso in esame, è stata già affermata dal giudice del riesame, secondo il quale i termini di custodia cautelare della fase delle indagini preliminari nel procedimento a carico del G. , andavano computati tenuto conto dell’aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 80, comma 2, d.P.R. 309/1990, aggravante caducata solo a seguito della sentenza di primo grado. 3. Tale soluzione interpretativa appare quella più conforme alla lettera e alla ratio della disciplina codicistica dei termini di durata della custodia cautelare, nella quale sono indicati differenti presupposti per il computo dei termini di fase e che finisce per assegnare una tendenziale autonomia a ciascuno di essi. Ed invero il legislatore ha parametrato la durata dei termini della custodia nelle prime due fasi, quelle previste dalle lett. a e b e b bis del comma 1 dell’art. 303 che vanno dall’inizio dell’esecuzione della custodia all’emissione del decreto di rinvio a giudizio ovvero dell’ordinanza di ammissione del rito abbreviato, ed ancora, dalla emissione di tali provvedimenti, ovvero dalla sopravvenuta esecuzione della custodia, all’adozione della sentenza di condanna di primo grado , all’astratta gravità del reato oggetto del procedimento, dovendosi fare riferimento al limite edittale massimo della pena della reclusione prevista per il delitto oggetto dell’addebito mentre la durata dei termini, in relazione alle altre due successive fasi, regolate dalle lett. c e d dello stesso comma 1 dell’art. 303 cioè delle fasi che vanno, rispettivamente, dalla pronuncia della sentenza di condanna di primo grado, o dalla sopravvenuta esecuzione della custodia, alla sentenza di condanna di secondo grado e dalla pronuncia di tale seconda sentenza di condanna, o dalla sopra sopravvenuta esecuzione della custodia, alla pronuncia della sentenza irrevocabile di condanna , è rapportata alla gravità in concreto del reato per il quale è intervenuta la condanna e, dunque, all’entità della pena della reclusione inflitta. Risulta, dunque, contraddittorio con il tenore delle richiamate disposizioni riferire il contenuto decisionale della sentenza di condanna ad una fase precedente, ed oramai esaurita, nella quale il calcolo di quel termine era stato operato sulla base di un diverso criterio, quello della gravità astratta del reato contestato, e sulla base di un provvedimento, quello genetico della misura cautelare ovvero quello di instaurazione del giudizio ordinario o di quello abbreviato , che, in ciascuna di quelle fasi, aveva piena validità e giustificava, anche sotto l’aspetto della efficacia nel tempo, la limitazione provvisoria della libertà personale dell’indagato o dell’imputato. 4. Non conduce ad esito diverso il principio affermato nella pronuncia di questa Corte Sez. U., n. 26350 del 24/04/2002, Fiorenti, Rv. 221657 , richiamata nel ricorso. Tale decisione si riferisce a fattispecie in concreto diversa e, cioè, al caso in cui, il termine di fase è pacificamente decorso per uno dei reati oggetto del titolo cautelare, con la conseguenza che, la scarcerazione per decorrenza del termine, ha effetto retroattivo riflettendo una situazione verificatasi in passato e dovendo rimuovere la illegittimità della detenzione già realizzatasi. Nella stessa sentenza, tuttavia, è evidenziata la diversità di tale situazione rispetto a quella che si verifica in caso di mutamento della qualificazione giuridica del fatto compiuta con la sentenza sicché le due ipotesi non sono in alcun modo assimilabili, con riguardo agli effetti che si producono sulla posizione giuridica dell’imputato. Nella sentenza si legge che la scarcerazione in tal caso, e in contrario a quello precedente, non può avere effetti retroattivi riferendosi ad un momento in cui, non essendosi ancora verificata quella modifica della qualificazione giuridica del fatto, la privazione della libertà risultava legittima. La scarcerazione per decorrenza dei termini, infatti, tutela un diritto primario e, come già detto, costituzionalmente garantito ed essa, qualora non sia stata tempestivamente assicurata deve essere disposta, senza preclusioni di sorta, in ogni stato e grado del giudizio ora per allora mentre, nel caso di mutamento della qualificazione giuridica del fatto, non vi è alcuna illegittimità pregressa da rimuovere, alcun elemento patologico da eliminare, trattandosi di un mutamento successivo, del tutto fisiologico al processo penale. La scarcerazione in tal caso, e in contrario a quello precedente, non può avere effetti retroattivi riferendosi ad un momento in cui, non essendosi ancora verificata quella modifica della qualificazione giuridica del fatto, la privazione della libertà risultava legittima . Del resto, la esclusione dell’aggravante di cui all’art. 80, comma 2, d.P.R. 309/1990, pur essendo di norma ancorata al dato ponderale della quantità di principio attivo superiore a 2.000 volte il valore massimo, in milligrammi valore soglia , determinato per ogni sostanza nella tabella allegata al d.m. 11 aprile 2006, non consegue automaticamente alla sola verifica del contenuto di principio attivo contenuto nello stupefacente caduto in sequestro. 5. Dalla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente, ai sensi dell’ art. 616 cod. proc. pen., a sostenere le spese del procedimento e, considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità , al versamento della somma, determinata in via equitativa, di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende Corte Cost., n. 186 del 13 giugno 2000 . Alla cancelleria vanno demandati gli adempimenti previsti dall’ art. 94, comma 1-ter disp. att. cod. proc. pen P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della cassa delle ammende. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter disp. att. cod. proc. pen