La detenuta madre di una ragazza disabile non può accedere ai domiciliari

La possibilità per le detenute madri di accedere a misure cautelari diverse dal carcere in virtù del requisito dell’età del figlio, inferiore al limite anagrafico di sei anni, rientra nell’ambito di discrezionalità non irragionevole consentito al legislatore e non è suscettibile di applicazione analogica ad altre situazioni.

Così ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 48371/17, depositata il 20 ottobre. La vicenda. Una detenuta, imputata per la presunta partecipazione ad una cosca della ‘ndrangheta, ricorre avverso l’ordinanza di diniego dell’istanza di sostituzione della misura cautelare in atto con quella degli arresti domiciliari, richiesta fondata sulla necessità di dover accudire la figlia maggiorenne invalida al 100%. Il giudice riteneva esclusa l’applicazione analogica dell’art. 275, comma 4, c.p.p. Criteri di scelta delle misure oltre i casi tassativamente previsti. Ricorrendo in Cassazione, l’imputata solleva la questione di legittimità costituzionale della norma citata nella parte in cui prevede una disciplina più favorevole per la madre di prole di età inferiore a 6 anni rispetto a quella applicabile alla madre di figli di età maggiore ma portatori di gravi handicap, tema peraltro già portato all’attenzione della Suprema Corte e della Consulta. Norma eccezionale. La Corte, ritenendo inammissibile il ricorso, richiama la sentenza n. 49522/12 con la quale un’identica istanza era stata rigettata in virtù della natura eccezionale dell’art. 275, comma 4, c.p.p. e della deroga, ivi prevista, alla regola generale secondo cui il giudice, a fronte della sussistenza delle diverse condizioni previste dalla legge, può scegliere quale sia la misura più adeguata a fronteggiare le esigenze cautelari del caso di specie. Tale eccezionalità impedisce l’applicazione della norma a situazioni diverse da quelle espressamente previste. Il legislatore ha infatti risposto alla ratio di riconoscere una disciplina più favorevole ai genitori di figli di età inferiore ai sei anni per garantire agli stessi l’assistenza familiare indispensabile in un momento particolarmente delicato e significativo della loro formazione fisica e psichica. Oltre a tale limite di età, il legislatore ha ritenuto concluso il primo percorso esistenziale, con la possibilità di accadimento e cura della prole da parte di altri soggetti. Legittimità costituzionale. In riferimento ai dubbi di legittimità costituzionale, il precedente richiamato dalla Corte precisa che l’art. 275 c.p.p. risponde a finalità di contrasto di fenomeni criminosi talmente gravi ed allarmanti, oltre che potenzialmente lesivi di beni primari quali l’ordine e la sicurezza pubblici, per cui le istanze di libertà personale di chi sia in qualunque modo indiziato di tali reati sono destinate a cedere a fronte delle preminenti esigenze di tutela della collettività. Con il comma 4 il legislatore ha comunque voluto raggiungere un contemperamento degli interessi coinvolti e configgenti, sulla base di situazioni concrete di particolare debolezza del soggetto indagato, quali la gravidanza, la necessità di assistenza della prole in tenera età, le condizioni di salute e l’età, interessi connessi a diritti inviolabili della persona tutelati dall’art. 2 Cost. che consentono l’accesso a misure diverse dalla custodia in carcere. Non sussiste dunque alcun contrasto con la norma costituzionale, come supposto dalla ricorrente, dal momento che l’assistenza del figlio affetto da gravi patologie non rientra in tale contesto in quanto, pur rappresentando un dovere genitoriale a norma dell’art. 144 c.c., non può costituire un diritto individuale da espletare dal genitore quale propria inalienabile prerogativa . È insussistente, inoltre, anche la prospettata violazione del principio di uguaglianza posto che, afferma la sentenza, un soggetto adulto, pur affetto da invalidità totale e con età mentale inferiore a quella anagrafica, non è equiparabile ad un bambino di età inferiore a sei anni. Non può dirsi violato nemmeno l’art. 32 Cost., perché la salute psico-fisica del disabile è comunque garantita dall’ordinamento mediante forme di assistenza domiciliare o presso apposite strutture, né dell’art. 30 o 31 Cost. in quanto all’assenza del genitore suppliscono altre figure come il tutore o strutture assistenziali. In conclusione, la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 20 giugno – 20 ottobre 2017, n. 48371 Presidente Palla – Relatore Micheli Ritenuto in fatto F.A. ricorre personalmente avverso l’ordinanza indicata in epigrafe, recante il rigetto di un atto di appello presentato nell’interesse della medesima ricorrente avverso il diniego di un’istanza di sostituzione della misura cautelare in atto a suo carico. Il giudice procedente la Corte di appello di Reggio Calabria aveva ritenuto infondate le tesi difensive, secondo cui l’imputata - ristretta in carcere quale presunta partecipe della cosca della ‘ndrangheta facente capo alla famiglia P. - avrebbe potuto comunque ottenere la meno afflittiva misura degli arresti domiciliari, dovendo accudire una figlia maggiorenne ma invalida al 100% identiche determinazioni risulta avere assunto il Tribunale della libertà, richiamando la costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui - a fronte della presunzione assoluta di adeguatezza della misura restrittiva di maggior rigore, ove ricorrano esigenze cautelari, per i soggetti gravati da indizi di colpevolezza in ordine a reati ex art. 416-bis cod. pen. - la norma eccezionale prevista dall’art. 275, comma 4, del codice di rito non è suscettibile di applicazione analogica oltre i casi ivi tassativamente contemplati. L’imputata, come già prospettato dinanzi ai giudici di merito, insta affinché venga ritenuta rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del citato art. 275, comma 4, cod. proc. pen., nella parte in cui sottopone a diversa disciplina il caso della madre di prole di età inferiore a sei anni la quale può ottenere un più favorevole trattamento de libertate rispetto a quello della madre di una ragazza più grande ma portatrice di grave handicap la figlia della F. è 19enne, ma le sono state diagnosticate patologie invalidanti che ne indicano una età mentale di sette anni, tali da comprometterne importanti funzioni della vita quotidiana e da richiedere la continua necessità di cure ed assistenza . Come si legge nel ricorso, dove la F. si duole delle carenze motivazionali del provvedimento impugnato sulle specifiche richieste di valutazione del caso concreto che erano state avanzate al Tribunale, le esigenze di cura di figli gravemente ammalati e affetti da patologie invalidanti non possono identificarsi né essere paragonate a quelle, di gran lunga meno impegnative, che competono ai genitori di figli di età inferiore ai sei anni, versanti in normali condizioni di salute solo nelle prime situazioni, infatti, si richiede al genitore una pressoché totale dedizione all’ammalato, che non può essere in alcun modo garantita da figure alternative. La ricorrente rappresenta che la questione era stata già sottoposta alla Consulta, rimanendo non esaminata solo perché - in un primo caso - l’addebito ostativo ad una misura meno afflittiva della custodia in carcere era quello di partecipazione ad un’associazione per delinquere finalizzata al commercio di stupefacenti, non più rientrante fra quelli di operatività dell’anzidetta presunzione assoluta, mentre in una seconda e più recente occasione il giudice delle leggi aveva segnalato come l’ordinanza di rimessione non fornisse adeguate informazioni circa l’effettiva impossibilità che il soggetto da assistere provvedesse autonomamente alle proprie esigenze. Nella fattispecie concreta, invece, il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. rende ancora imprescindibile il ricorso alla custodia in carcere, senza tollerare eccezioni, ed il carteggio del procedimento contiene plurimi riferimenti da cui ricavare il quadro delle condizioni in cui versa la figlia della F. . Considerato in diritto 1. Il ricorso deve ritenersi inammissibile, costituendo mera ed acritica iterazione di richieste precedentemente avanzate, su cui è già intervenuta anche in sede di legittimità - una diffusa e completa disamina delle questioni prospettate, senza peraltro che l’odierno ricorso si curi di confutare gli argomenti già sviluppati per evidenziare l’insostenibilità delle tesi qui nuovamente ribadite. 2. Con la sentenza n. 49522 del 10/10/2012, puntualmente richiamata nell’ordinanza oggetto dell’odierna impugnazione, la Prima Sezione di questa Corte così motivava il rigetto di un’identica istanza dell’imputata Con ordinanza del 20/03/2012 il Tribunale del riesame di Reggio Calabria, costituito ai sensi dell’art. 310 cod. proc. pen., rigettava l’appello proposto da F.A. - sottoposta alla misura coercitiva della custodia in carcere perché gravemente indiziata del delitto di partecipazione ad associazione di stampo mafioso -, avverso l’ordinanza del 06/12/2011, con la quale il Tribunale di Palmi aveva respinto la sua richiesta di sostituzione della misura in esecuzione con quella degli arresti domiciliari. Il Tribunale riteneva inapplicabile al caso la disposizione di cui all’art. 275, comma 4, cod. proc. pen. , in quanto, trattandosi di norma eccezionale, non poteva farsene applicazione analogica quando l’imputato fosse convivente con figlio di età superiore al limite anagrafico indicato dalla norma, ancorché portatore di grave handicap fisico e psichico . Avverso tale provvedimento propone ricorso per cassazione l’imputata personalmente per lamentare violazione di legge in relazione agli artt. 125 e 546 n. 1 lett. e cod. proc. pen. ed agli artt. 416-bis cod. pen., 299, 275, commi 3 e 4, 284 cod. proc. pen. per avere il Tribunale del riesame respinto la propria istanza con motivazione apparente, che non aveva preso in esame la totalità delle censure contenute nell’atto di appello laddove si era rappresentato che la condizione personale della propria figlia M.R. , invalida al 100% e dell’età mentale pari ad anni sette, affetta da gravissime patologie anche psichiatriche e da seria depressione, rimasta priva di qualsiasi presenza familiare per l’avvenuta carcerazione dei genitori, dei fratelli e degli zii paterni e materni e quindi affidata ad un tutore legale, necessitava dell’assistenza continuativa della madre, pena la perdita di tutti i benefici conseguiti in anni di sottoposizione ad interventi chirurgici e trattamenti riabilitativi ed il regresso ad una condizione di fortissima limitazione funzionale nella motilità con compromissione totale della sua qualità della vita e delle aspettative di un inserimento nel contesto sociale e si era proposta la questione di legittimità costituzionale della norma di cui all’art. 275, comma 4 cod. proc. pen. per contrasto con gli artt. 2, 3, 29 primo comma, 30 primo e secondo comma, 31 secondo comma della Costituzione, nella parte in cui non stabilisce il divieto di applicazione della custodia in carcere nei confronti del genitore di un figlio minore convivente, invalido al 100%, che necessiti di costante assistenza e presenza del genitore stesso e si era richiamata la sentenza della Corte Costituzionale n. 239 del 22/07/2011 che ha dichiarato non rilevante la q.l.c. dell’art. 275, comma 4 cod. proc. pen. nella parte in cui non estende divieto di custodia cautelare in carcere nel caso di genitore convivente con figlio minore affetto da handicap ed invalidità al 100% per l’avvenuta dichiarazione di parziale incostituzionalità dell’art. 275, comma 3 che pone presunzione relativa di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere a fronte dell’essere indiziato il soggetto di reità in ordine al delitto di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309/90, di cui doveva rispondere l’indagata nel caso pervenuto all’esame della Consulta, senza fare salva la possibilità che in relazione al caso concreto siano acquisiti specifici elementi dai quali desumere che le esigenze cautelari potevano essere tutelate con altre misure . La ricorrente ripropone la questione dell’applicazione analogica del disposto dell’art. 275 cod. proc. pen., comma 4, il quale pone il divieto di applicazione e di mantenimento della custodia in carcere nei confronti dell’indagato, pure se debba rispondere di uno dei gravi delitti di cui all’art. 51 cod. proc. pen., comma 3-bis e 3-quater, quando si tratti di donna incinta o madre di prole convivente di età non superiore ai sei anni, oppure di padre quando la madre sia deceduta o assolutamente impedita dal prestare assistenza ai figli, fatto salvo il caso che ricorrano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. A tali situazioni dovrebbe essere equiparata quella in cui versa la propria figlia, affetta da sindrome di Down con un’età mentale di sette anni, da altre patologie totalmente invalidanti, richiedenti interventi chirurgici periodici e lunghi trattamenti riabilitativi, in assenza dei quali resterebbe compromessa la sua motilità e le altre funzioni essenziali, oltre che da sindrome depressiva e quindi, nonostante il raggiungimento della maggiore di età, bisognosa dell’assistenza continua della madre, stante l’assenza di altre figure familiari in grado di accudirla . Al riguardo, il provvedimento impugnato ha correttamente rilevato come la natura eccezionale della previsione normativa in esame e l’effetto derogatorio alla regola generale per cui il giudice a fronte della sussistenza delle condizioni pretese dalla legge può scegliere quale misura sia più adeguata a fronteggiare le esigenze cautelari del caso, non consentano la sua applicazione a situazioni diverse da quelle in essa contemplate la soluzione prescelta è coerente col costante insegnamento di questa Corte , affermatosi proprio in riferimento a situazioni concrete di indagati genitori di figli affetti da gravi problematiche di salute, ma non rientranti nei limiti di età considerati dall’art. 275 cod. proc. pen., comma 4. Si è rilevato, infatti, che la ratio di tale, più favorevole disciplina va ravvisata nell’esigenza di garantire ai figli l’assistenza familiare in un momento particolarmente significativo e delicato della loro formazione fisica e psichica, qual è il periodo di vita sino ai tre anni, oggi esteso a sei anni con il superamento di tale limite di età il legislatore ritiene concluso un primo percorso esistenziale, oltre il quale l’accudimento e la cura alla prole possono essere prestati da qualsiasi altro soggetto, ossia da un congiunto, oppure da figure professionali nel campo dell’assistenza pubblica. Va dunque confermata la correttezza della soluzione offerta dal Tribunale, rispetto alla quale il ricorso non offre considerazioni capaci di approdare ad esiti interpretativi differenti . Se dunque non può farsi luogo ad applicazione analogica della norma in esame, viene in rilievo l’eccezione d’incostituzionalità, sollevata dalla difesa, ma non presa in considerazione dai giudici del riesame, in relazione al disposto degli artt. 2, 3, 29 primo comma, 30 primo e secondo comma, 31 secondo comma della Costituzione, di cui va affermata la rilevanza nel presente procedimento, dal momento che il suo eventuale accoglimento consentirebbe di rimuovere l’ostacolo normativo alla concessione degli arresti domiciliari o comunque di altra misura in grado di consentire alla ricorrente di prestare l’assistenza richiesta dalla figlia . La questione sollevata è però inammissibile perché manifestamente infondata. Va premesso che la disposizione limitativa ed eccezionale, contenuta nel terzo comma dell’art. 275 cod. proc. pen., risponde a finalità di contrasto di fenomeni criminosi, ritenuti tra i più gravi ed allarmanti perché in grado di ledere beni primari, quali l’ordine e la sicurezza pubblici, sul presupposto della generalizzata pericolosità di quanti siano raggiunti da indizi circa la loro consumazione e le cui istanze di libertà personale devono cedere, alle condizioni previste dalla norma, a fronte delle preminenti esigenze di tutela della collettività. Soltanto nella ricorrenza di condizioni di particolare debolezza del soggetto indagato o imputato, legate alla gravidanza, alle necessità di assistenza di prole convivente di età non superiore ai sei anni, all’età, alla salute, quindi connesse a diritti inviolabili della persona, tutelati dall’art. 2 della Costituzione, gli interessi processuali e di prevenzione non impediscono l’accesso a misure diverse da quella custodiale, secondo quanto previsto dall’art. 275 cod. proc. pen., comma 4, sempre che non ricorrano esigenze di eccezionale rilevanza. Il legislatore ha dunque condotto una comparazione di valore tra gli interessi coinvolti e confliggenti, assegnando di volta in volta preminenza a quello generale rispetto a quelli individuali e viceversa sulla base delle situazioni concrete della persona e di un contemperamento, che tiene conto di profili criminologici legati alle fattispecie delittuose e dei differenti effetti limitativi della libertà personale delle misure, in grado di prevenire con diversa efficacia la protrazione di condotte antigiuridiche, il pericolo di fuga e di inquinamento probatorio. Gli esiti di tale contemperamento, ad avviso di questa Corte, non sono per nulla irrazionali ed incostituzionali. Già con la sentenza n. 450 del 24/10/1995 la Corte Costituzionale, nel valutare la conformità alla Costituzione della presunzione introdotta dall’art. 275 cod. proc. pen., comma 3, richiamando le proprie precedenti pronunce n. 1 del 1980 e n. 64 del 1970, rilevava che compete al legislatore l’individuazione del punto di equilibrio tra le diverse esigenze, della minore restrizione possibile della libertà personale e dell’effettiva garanzia degli interessi di rilievo costituzionale tutelati attraverso la previsione degli strumenti cautelari nel processo penale e che la previsione della necessità della cautela più rigorosa salvi, ovviamente, gli istituti specificamente disposti a salvaguardia di peculiari situazioni soggettive, quali l’età, la salute e così via non risulta in contrasto con il parametro dell’art. 3 della Costituzione, non potendosi ritenere soluzione costituzionalmente obbligata quella di affidare sempre e comunque al giudice la determinazione dell’accennato punto di equilibrio e contemperamento tra il sacrificio della libertà personale e gli antagonisti interessi collettivi, anch’essi di rilievo costituzionale . Ebbene, si ritiene che le medesime argomentazioni conservino validità anche con riferimento al tema qui dibattuto e che la restrizione della tutela degli interessi dei figli conviventi di soggetti sottoposti a misura coercitiva personale mediante la previsione del requisito della loro età, non superiore ad un preciso limite anagrafico, rientri nel margine di discrezionalità, non irragionevole, consentito al legislatore e non violi le norme costituzionali indicate nel ricorso. Non sussiste contrasto con la garanzia dei diritti inviolabili della persona, sancita dall’art. 2 Cost., dal momento che l’assistenza al figlio affetto da gravi patologie non rientra in tale contesto, in quanto, pur rappresentando un dovere genitoriale a norma dell’art. 144 cod. civ., non può costituire un diritto individuale da espletare dal genitore quale propria inalienabile prerogativa. Parimenti insussistente è la violazione del principio di eguaglianza, dal momento che il soggetto adulto, pur affetto da invalidità totale e con età mentale inferiore a quella anagrafica, non è perfettamente equiparabile nelle sue esigenze di vita ad un bambino di età non superiore a sei anni le due condizioni in raffronto presentano diversità legate al fatto che la persona adulta e maggiore di età, per quanto invalida ed affetta da patologie, ha comunque già raggiunto uno sviluppo fisico, ed una propria, seppur limitata autonomia, assente nel minore di pochi anni di vita, e può più agevolmente affrontare l’assenza del genitore e beneficiare dell’aiuto e delle cure prestate da soggetti diversi. Non si ravvisa nemmeno la violazione dell’art. 32 Cost., perché la salute psico-fisica del disabile è già garantita dall’ordinamento statuale da altre forme di assistenza domiciliare o presso apposite strutture, né dell’art. 29 Cost., primo comma, in quanto i diritti della famiglia ed alla coltivazione di relazioni affettive tra parenti sono tutelati mediante i colloqui personali e telefonici tra imputato in stato di restrizione cautelare ed i suoi congiunti, né dell’art. 30 o dell’art. 31 Cost. atteso che all’assenza forzata del genitore suppliscono con funzioni surrogatorie altre figure, quale il tutore, oppure strutture assistenziali pubbliche o private, il cui intervento, come nel caso in esame, è previsto e favorito dalle previsioni della legge quadro 5 febbraio 1992 n. 104 , che disciplina l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti dei portatori di handicap ed al suo art. 10 contempla prestazioni socio-assistenziali a favore di persone con handicap di particolare gravità, a fronte delle quali il pur importante ruolo del genitore assume un rilievo secondario. Né a risultati differenti può pervenirsi in ragione della sentenza n. 350 del 01/10/2003, con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 47-ter dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui non consente l’accesso alla detenzione domiciliare alle madri, ed ai padri, di figli conviventi, portatori di handicap grave, totalmente invalidante invero, con tale pronuncia la Consulta ha preso in esame lo specifico istituto e le sue caratteristiche per affermarne la perdurante natura di espiazione della pena con modalità meno afflittive rispetto alla carcerazione, quindi non eccezionale rispetto all’ordinaria forma di detenzione inframuraria e per riconoscerne la rispondenza alle molteplici finalità dell’esecuzione, della prevenzione e della rieducazione del condannato grazie al suo graduale passaggio verso il progressivo riacquisto della libertà col reinserimento nel nucleo familiare ed il ripristino del rapporto con i figli ed all’esigenza di socializzazione e di sviluppo psico-fisico della prole. Risulta però significativo che la Consulta abbia avvertito l’esigenza di precisare come la disciplina normativa vigente escluda un rigido automatismo nella concessione della misura, non dovendo il condannato essere stato giudicato responsabile per uno dei delitti indicati dall’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, consistenti nelle fattispecie più gravi, compresa quella di partecipazione ad associazione mafiosa, ed essendo previste altre condizioni ostative, oltre che la possibilità di revoca in un momento successivo all’ammissione. Oltre a ciò, deve rilevarsi la diversità di finalità e di disciplina tra esecuzione della pena e misura coercitiva cautelare per quanto attiene al rapporto esecutivo, le molteplici funzioni connesse - di retribuzione per la violazione della legge, di risocializzazione di chi abbia tenuto condotte devianti, di prevenzione di futuri illeciti - sono attuate mediante una regolamentazione che consente anche il differimento, la sospensione temporanea o modalità diverse dalla detenzione in carcere al contrario, l’imposizione della custodia cautelare è giustificata dai pericoli attuali e concreti insiti nel mantenimento in libertà del soggetto sottopostovi e dai differenti effetti preventivi che le singole misure sono in grado di produrre. Pertanto, la diversità delle situazioni considerate dalla Corte Costituzionale non consente di ricavarne spunti per pervenire ad un giudizio di fondatezza della questione di legittimità proposta . La motivazione della sentenza n. 49522/2012, in definitiva, prende già in esame tutti gli aspetti su cui la F. torna a sollecitare una pronuncia, senza trascurare neppure uno dei parametri costituzionali gli artt. 2, 29, 30 e 31 della Carta fondamentale che la ricorrente torna acriticamente ad invocare. 3. Questa stessa Sezione, come parimenti evidenziato dal Tribunale di Reggio Calabria, ha a sua volta negato la sussistenza di una sostanziale parificabilità dell’impossibilità di assistenza personale del genitore, nella prospettiva in cui la stessa è ritenuta rilevante dalla norma, nei confronti del figlio infraseienne rispetto a quella riferita al figlio disabile di età superiore a detto limite. Il legislatore mostra invero di preoccuparsi non di un’assistenza genericamente intesa, ma di quell’assistenza che, nella situazione concreta, può essere garantita esclusivamente dal genitore ed in effetti questa Corte ha in più occasioni ritenuto correttamente esclusa la ricorrenza di un’assoluta impossibilità di prestare assistenza ai figli infraseienni nella misura in cui la stessa possa essere offerta da altri familiari o da strutture pubbliche di sostegno . Determinante, nella prospettiva della norma in esame, è dunque una carenza che riguardi non l’assistenza per la quale il genitore è sostituibile, ma quella particolare e più ampia assistenza, nei suoi aspetti anche psicologici ed affettivi, propria del rapporto fra il genitore ed il figlio in tenera età, alla quale non può integralmente sopperirsi ad opera di altri soggetti . Corretta appare dunque l’argomentazione del Tribunale, per la quale le particolari problematiche relative all’assistenza materiale di un figlio disabile, che può normalmente provenire da soggetti esterni all’ambito genitoriale, non possono essere ritenute paragonabili, ai fini del trattamento normativo, a quelle riguardanti l’assistenza di un figlio in età evolutiva, che richiede la presenza di almeno uno dei genitori. Per le stesse ragioni è manifestante infondata la proposta questione di legittimità costituzionale a proposito della quale va aggiunto che le ordinanze della Corte Costituzionale nn. 239 e 250 del 2011 , dichiarative di inammissibilità di questioni di legittimità costituzionale del citato art. 275, comma quarto, cod. proc. pen., non contengono in motivazione riferimenti ad una prospettabile fondatezza delle questioni stesse Cass., Sez. V, n. 31226 del 13/03/2013, A. . 4. La F. evidenzia poi una questione nuova, che prende spunto dal recente approdo della Corte delle leggi , richiamando l’ordinanza n. 104 della Corte Costituzionale, emessa il 13/05/2015 in quella circostanza, il profilo di dedotta incostituzionalità dell’art. 275, comma 4, cod. proc. pen. rimase non analizzato in quanto il giudice rimettente non aveva offerto informazioni adeguate circa l’effettiva condizione di disabilità affliggente il soggetto bisognoso di cure. L’odierna ricorrente segnala che - al contrario - nel caso in esame tale compendio informativo vi sarebbe. Tuttavia, anche sotto l’aspetto de quo le censure mosse al provvedimento oggetto di ricorso con l’atto di impugnazione rimangono generiche, ove si consideri che il Tribunale di Reggio Calabria spiega - a pag. 7 della motivazione dell’ordinanza in epigrafe, subito dopo aver dato contezza della appena ricordata decisione della Consulta - che nel caso di specie, pur avendo la difesa ampiamente argomentato in merito alle patologie da cui è affetta la figlia dell’odierna istante, non risulta in ogni caso dimostrata la sussistenza di condizione psico-fisica incompatibile con un pur minimo grado di autonomia, idoneo all’assolvimento delle primarie necessità . A fronte di tale puntualizzazione, e del giudizio così formulato, la F. non obietta alcunché di specifico da cui, in ipotesi, arguire che la figlia non abbia - contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di merito - alcuna autonoma capacità di provvedere a se stessa, neppure di grado minimo né indica quale specifica risultanza documentale in atti avrebbe dovuto portare il Tribunale ad opposte conclusioni. La stessa descrizione delle condizioni in cui la giovane versa a seguito della perdita dell’assistenza materna dà apparente contezza di un regresso dei miglioramenti prima raggiunti, ma non di una chiara ed assoluta incapacità di assolvere ad esigenze primarie nella prima pagina del ricorso si legge solo che prima la ragazzina riusciva a stare in piedi, ora non tanto . 5. Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., segue la condanna dell’imputata al pagamento delle spese del procedimento, nonché - ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, in quanto riconducibile alla sua volontà v. Corte Cost., sent. n. 186 del 13/06/2000 - a versare in favore della Cassa delle Ammende della somma di Euro 2.000,00, così equitativamente stabilita in ragione dei motivi dedotti. Dal momento che alla presente decisione non consegue la rimessione in o libertà della ricorrente, dovranno essere curati dalla Cancelleria gli adempimenti di cui al dispositivo. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso, e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen