Quando il mancato pagamento del canone di affitto d’azienda diventa bancarotta

Il mancato pagamento del canone di affitto di azienda, nel caso di successivo fallimento della società concedente, può integrare bancarotta per distrazione del legale rappresentante della società cessionaria in presenza di elementi circostanziali, quali la coincidenza della compagine sociale, l’ingerenza dell’imputato nella attività della società cedente, gli stretti rapporti tra gli amministratori delle due società e, infine, la mancata adozione di procedure per il recupero del credito da parte della cedente a fronte dell’inadempimento al pagamento dei canoni della cessionaria.

Questo il principio affermato dalla Cassazione con la pronuncia n. 44901/17 depositata il 28 settembre, con cui ha affermato la responsabilità a titolo di concorso dell’ extraneus nel reato proprio. La vicenda sottostante. Il caso concreto oggetto della sentenza in commento riguarda le conseguenze derivanti da un contratto d’affitto d’azienda intercorso fra due società, aventi medesimo oggetto sociale e medesima sede, risoltosi con il fallimento della società concedente. Il curatore fallimentare aveva evidenziato l’anomalia del mancato pagamento da parte della cessionaria dei canoni di affitto di azienda e della mancata adozione da parte della cedente di ogni iniziativa volta al recupero del credito nascente da tale perdurante inadempimento. Ne era conseguito procedimento penale per bancarotta per distrazione, non solo a carico dell’amministratore della società fallita, ma anche a carico di quello della società cessionaria, quale concorrente extraneus nel reato proprio commesso dall’amministratore della società fallita. Affitto d’azienda e bancarotta. In caso di fallimento della società cedente, la possibile rilevanza di un contratto d’affitto d’azienda, al fine della integrazione del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione, è tematica ormai da tempo affrontata e sviscerata dalla giurisprudenza anche di legittimità. Anche di recente si è sostenuta la sussistenza del delitto de quo nel caso di società, oggetto di verifica tributaria, che si trovava in stato di insolvenza ed a suo danno erano state effettuate ulteriori operazioni depauperatorie, fra le quali l'affitto di azienda a favore di una terza società per una somma insignificante, quando la società beneficiaria era ascrivibile a congiunti dell'amministratore della società poi fallita Cass. Sez, V, n. 20370/2015 . La giurisprudenza si è occupata anche più nel dettaglio della possibile rilevanza del mancato pagamento dei canoni di locazione da parte della cessionaria, affermando che integra il reato di bancarotta fraudolenta impropria patrimoniale l'affitto di azienda al quale non consegua l'incasso dei canoni pattuiti da parte della società fallita, senza che sia addotta alcuna giustificazione in proposito Cass. Sez. V, n. 16989/2014 . Ormai consolidato è, infatti, in giurisprudenza il principio secondo cui integra il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale la cessione di un ramo di azienda senza corrispettivo o con corrispettivo inferiore al valore reale, non assumendo alcun rilievo, al riguardo, il dettato dell'art. 2560 c.c. in ordine alla responsabilità dell'acquirente dell'azienda. Sin da tempi risalenti, la Corte di Cassazione ha affermato che la bancarotta fraudolenta per distrazione si configura ogniqualvolta la condotta dell'imputato sia diretta ad impedire che un bene del fallito sia utilizzato per il soddisfacimento dei diritti della massa dei creditori e che, dunque, un tale effetto si può produrre sia quando il bene è venduto, sia quando viene temporaneamente ceduto e lo spostamento è suscettibile di recare pregiudizio ai creditori. La specificità del caso di specie il concorso dell’extraneus. La pronuncia in esame si inserisce, dunque, in un contesto ormai da tempo consolidato in seno alla giurisprudenza di legittimità. Il caso di specie si segnala in quanto oggetto di attenzione non è la posizione del legale rappresentante della società fallita, la cui responsabilità risultava già definita in separata sede, con sentenza di applicazione pena, bensì quella del titolare della società cessionaria chiamato a rispondere a titolo di concorso, quale extraneus . La Corte, nel rigettare il ricorso proposto dall’imputato, delinea una serie di indici in presenza dei quali ritiene provato il concorso nel reato proprio. Fra quelli di particolare rilevanza, osservano gli Ermellini, devono annoverarsi la coincidenza della compagine sociale, l’ingerenza dell’imputato nell’attività della società cedente, gli stretti rapporti tra gli amministratori delle due società e la mancata adozione di procedure per il recupero del credito da parte della cedente a fronte dell’inadempimento al pagamento dei canoni della cessionaria. Particolarmente significativa l’interpretazione che viene data dalla Cassazione del principale argomento difensivo utilizzato dall’imputato la circostanza che la cedente non avesse intrapreso alcuna azione per il recupero del credito derivante dai mancati pagamenti dei canoni. Tale condotta, osservano gli Ermellini, lungi dal legittimare il perdurante inadempimento, diviene la prova della fraudolenta collusione fra le due società e, dunque, il titolo sul quale fondare, in uno con gli altri indici, la responsabilità concorsuale dell’ extraneus nel reato proprio, commesso dall’amministratore della società fallita.

Corte di Cassazione, sez. V Penale , sentenza 13 settembre – 28 settembre 2017, n. 44901 Presidente Palla– Relatore Caputo Ritenuto in fatto 1. Con sentenza deliberata il 12/06/2015, la Corte di appello di Firenze, per quanto è qui di interesse, ha confermato la sentenza del 20/02/2013 con la quale il Tribunale di Firenze, sempre per quanto è qui di interesse, aveva dichiarato R.F. responsabile, quale amministratore di omissis s.r.l. e in relazione a omissis s.a.s. dichiarata fallita il omissis , di fatti di bancarotta fraudolenta patrimoniale, per avere sottratto, distratto o comunque disperso una somma non inferiore a 4 mila Euro mensili dovuti dalla società per l’affitto del ramo di azienda da parte di omissis s.a.s. capo a3 dell’imputazione , nonché un autocarro di proprietà della fallita capo a4 dell’imputazione , autocarro inventariato dalla curatela e affidato in custodia a R. quale legale rappresentante della s.r.l. che aveva sede negli stessi locali della fallita , ma, al momento della vendita, non rinvenuto. 2. Avverso l’indicata sentenza della Corte di appello di Firenze ha proposto ricorso per cassazione R.F. , attraverso il difensore avv. G. Marini, articolando due motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen Il primo motivo denuncia vizi di motivazione in relazione all’imputazione sub a3 . La Corte di appello ha omesso di motivare in ordine alle deduzioni proposte con il gravame in merito alla tempistica della vicenda omissis s.r.l. è stata costituita oltre cinque anni prima del fallimento della s.a.s. e il ricorrente ne divenne amministratore solo dal 2002 il teste Bi. pur avendo riferito che R. partecipava genericamente alle decisioni, aveva specificato che era poco più di un dipendente. La Corte di appello, inoltre, non aveva tenuto conto della cessazione del contratto di affitto del ramo di azienda datato 06/02/2006 recte, 06/02/2004 intervenuta nel 2005, laddove, avendo le due società identici attività e oggetto sociale, è normale la coincidenza dei locali delle sede sociali. La sentenza impugnata non ha tenuto conto che la s.a.s. non ha mai promosso azioni di recupero del credito e non ha fornito elementi tesi a provare eventuali accordi tra R. e la B. , richiamando la sola, suggestiva, circostanza del rapporto affettivo tra i due. Il secondo motivo denuncia erronea qualificazione del reato sub a4 e difetto della condizione di procedibilità della querela. L’autocarro della fallita era stato sottoposto a sequestro da parte della curatela e R. era stato nominato custode, pur non essendo stato in grado di fornire le chiavi e il libretto di circolazione l’autocarro, pur non rinvenuto, continuava a circolare probabilmente in quanto usato da un dipendente. La condotta deve essere riqualificata a norma dell’art. 388 bis cod. pen. e, non essendo stata presentata alcuna querela, deve dichiararsi, in relazione a tale reato, non doversi procedere. Considerato in diritto 1. Il ricorso deve essere rigettato. 2. Il primo motivo è infondato. La Corte di appello ha rilevato, richiamando la sentenza di primo grado, che R. risponde dell’imputazione sub a3 quale concorrente extraneus di B.P. socia accomandataria della fallita dal 15/10/2000 al fallimento e socia della s.r.l., nei confronti della quale si è proceduto separatamente con applicazione della pena su richiesta ex art. 444 cod. proc. pen. e che, nel febbraio del 2004, la fallita dal 1993 in grave esposizione debitoria aveva concesso in affitto alla s.r.l. l’intera azienda per il canone mensile di 4 mila Euro mensili, essendosi, in realtà, trattato di uno svuotamento della prima in favore della seconda, che non aveva mai corrisposto alcun canone. La stipula del contratto di affitto, sottolinea il giudice di appello, è stata, dunque, un mero espediente messo in opera dalla B. per consentire la prosecuzione dell’attività sociale da parte di una società diversa da quella che, ormai carica di debiti, era arrivata alle porte del fallimento, laddove il contributo di R. è reso evidente non solo in quanto rappresentante legale della società di nuova costituzione nella cui compagine sociale erano presenti gli stessi soci della s.a.s. , ma anche dalla circostanza, emersa nel corso del dibattimento, relativa al ruolo di R. in seno alla fallita, come evidenziato dalla testimonianza del geometra Bi.Mo. , dipendente della s.a.s. dal 2002, il quale ha riferito che R. era partecipe delle decisioni si vedeva che era uno che era un pochino più che un dipendente per entrambe le società. A fronte della diffusa motivazione delle conformi sentenze di merito, i rilievi del ricorrente circa l’epoca di costituzione della s.r.l. e di assunzione, da parte sua, della carica amministrativa, risultano, all’evidenza, inidonei ad inficiare, sul piano logico-argomentativo, le conclusioni della Corte distrettuale circa la funzionalità dell’affitto dell’azienda della fallita - risalente al 2004 e, dunque, in epoca prossima alla dichiarazione giudiziale di fallimento e nella quale, comunque, la pesante situazione debitoria della s.a.s. si era già largamente manifestata - alla prosecuzione dell’attività di impresa sotto le insegne della s.r.l., conclusioni fondate su vari elementi tra i quali proprio la mancanza di qualsiasi iniziativa giudiziaria volta al recupero dei crediti vantati dalla fallita mancanza, che, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, è univocamente conferente verso la ricostruzione della vicenda in termini di svuotamento della s.a.s. in favore della s.r.l. delineata dai giudici di merito. Lungi al far leva sui soli rapporti personali tra R. e la coimputata B. , i giudici di merito, come si è anticipato, hanno valorizzato plurimi elementi a sostegno della ricostruzione dei fatti accolta, tra i quali la già richiamata assenza di iniziative di recupero del credito da parte della fallita e, dunque, come rilevato dalla sentenza di primo grado, la mancanza di alcuna controprestazione rispetto all’affitto di azienda che priva di consistenza la deduzione difensiva circa la sopravvenuta rescissione del contratto , nonché la coincidente composizione della compagine sociale delle due società e il ruolo svolto da R. anche in seno alla fallita a quest’ultimo proposito, le doglianze del ricorrente incentrate sulla testimonianza di Bi.Mo. risultano del tutto disallineate rispetto al percorso argomentativo dei giudici di merito, posto che ad assumere rilievo, in tale percorso, non è la posizione - più o meno di vertice - rivestita dall’imputato, ma la circostanza che un ruolo decisorio era dallo stesso svolto anche in seno alla s.a.s., il che conferma il collegamento tra le due imprese e la ricostruzione della vicenda sostenuta dalle sentenze di merito, ossia lo svuotamento della fallita a poco più di un anno dalla declaratoria giudiziale di fallimento. Nel resto, le censure del ricorrente, nella parte in cui registrano l’identità di attività e di oggetto sociale della fallita e della s.r.l., nonché la coincidenza della sede sociale, non inficiano la tenuta logico-argomentativa della motivazione della sentenza impugnata. 3. Il secondo motivo è inammissibile. A proposito del reato di cui all’art. 388 cod. pen., questa Corte ha affermato che integra il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione, e non già il reato di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, la condotta di occultamento di un bene sottoposto a sequestro giudiziario da parte di soggetto fallito Sez. 6, n. 14405 del 26/02/2009 - dep. 01/04/2009, P.G. in proc. Caseti, Rv. 243265 conf. Sez. 5, n. 32604 del 15/05/2001 - dep. 23/08/2001, Torossi, Rv. 220168 . Ciò premesso, a fronte della motivazione delle conformi sentenze di merito, che, anche sul punto, hanno valorizzato la ricostruzione dei fatti in termini di concorso del ricorrente in quello che, come si è visto, è delineato quale svuotamento della s.a.s. in favore della s.r.l., il carattere colposo del fatto ascritto all’imputato è dallo stesso ricorrente dedotto in termini sostanzialmente assertivi, laddove del tutto generici risultano i riferimenti svolti in ordine alla disponibilità dell’autocarro in capo a un dipendente. 4. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.