Condannato per estorsione invoca l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni

A differenza dell’estorsione, il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni rientra tra i reati propri esclusivi o di mano propria, ed è dunque configurabile nei soli casi in cui la condotta tipica sia posta in essere da colui che ha la titolarità del preteso diritto.

Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 44234/17 depositata il 26 settembre. Il caso. La Corte d’Appello confermava la sentenza di prime cure che aveva condannato l’imputato per i reati di tentata estorsione e lesioni avendolo ritenuto il mandante di richieste di denaro e di un pestaggio eseguito ai danni della persona offesa da altre persone. La difesa ricorre per cassazione sostenendo che il mandante del pestaggio fosse in realtà la moglie dell’imputato che però, secondo la Corte territoriale, seguiva le indicazioni del marito. Viene inoltre sollevata censura in merito all’errata qualificazione giuridica del reato di tentata estorsione che avrebbe dovuto invece essere ricondotto all’ipotesi di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in virtù dei rapporti lavorativi intercorrenti tra le parti. Estorsione o esercizio arbitrario delle proprie ragioni? Il ricorso viene ritenuto infondato. Escludendo in primo luogo la fondatezza delle censure relative all’erronea valutazione del materiale probatorio, la Corte analizza la seconda doglianza affermando che il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni rientra tra i reati propri esclusivi o di mano propria, diversamente da quello di estorsione. La fattispecie è dunque configurabile laddove la condotta tipica sia posta in essere da colui che ha la titolarità del preteso diritto, mentre, nel caso di concorso di persona, solo ove la condotta tipica di violenza o minaccia sia posta in essere dal titolare del preteso diritto è configurabile il concorso del terzo estraneo. Laddove invece la condotta sia realizzata da un soggetto diverso dal creditore, l’unica fattispecie configurabile è quella dell’estorsione. Tornando al caso di specie e ripercorrendo gli elementi fattuali, la Corte dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 13 – 26 settembre 2017, n. 44234 Presidente Diotallevi – Relatore Coscioni Ritenuto in fatto 1. Il difensore di A.F. ricorre per cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello di Ancona del 21/06/2016 con la quale era stata confermata la sentenza di primo grado di condanna di A. per i reati di tentata estorsione e lesioni in particolare, A. era stato ritenuto essere il mandante di richieste di denaro e di un pestaggio, eseguito da altre persone, ai danni di Ab.Al. per ottenere somme di denaro. 1.1 Il difensore del ricorrente lamenta come la Corte di appello di Ancona sosteneva che mandante del pestaggio sarebbe stata anche la moglie di A. , V.A. che però non agiva autonomamente, ma seguendo le indicazioni del marito, ma ciò era in contrasto con alcuni atti del processo, quali la telefonata tra V.A. e F.A. , il pizzino mandato da A. ad Ab. una settimana dopo, il fatto che nel corso del pestaggio uno degli aggressori, U.B. , aveva detto ad Ab. devi dare i soldi ad A. , i contatti telefonici avvenuti prima e dopo il pestaggio tra U. e la V. e l’amicizia tra i due. 1.2 Il difensore eccepisce inoltre l’errata qualificazione giuridica del reato di tentata estorsione la Corte di appello aveva sbagliato nel ritenere A. e Ab. soci della Black Service s.r.l., in quanto lo stesso Ab. aveva riferito che A. era un dipendente e risultava che il primo era l’amministratore di fatto della società sia che si ritenesse A. dipendente, sia che lo si ritenesse socio, era comunque certo che lo stesso vantasse crediti nei confronti di Ab. e della società da lui gestita, per cui non poteva essere configurato il reato di tentata estorsione neppure era condivisibile l’assunto della Corte di appello secondo cui il pestaggio di Ab. , viste le modalità con cui era stato posto in essere, andava ben oltre i limiti del reato di cui all’art. 393 cod.pen., posto che la distinzione tra i due reati andava vista soltanto a seconda della giustizia o meno del profitto perseguito. 1.3 Il difensore lamenta infine che la Corte di appello di Ancona aveva erroneamente escluso il vincolo della continuazione tra i fatti di causa e la sentenza del giudice per l’udienza preliminare presso il Tribunale di Ancona, visto che vi erano gli stessi soggetti A. ed Ab. , i medesimi reati estorsione , la medesima area geografica, il medesimo arco temporale e le medesime modalità criminose. Considerato in diritto 2. Il ricorso proposto è manifestamente infondato. 2.1 Sul primo motivo di ricorso, si deve precisare che parte ricorrente, sotto il profilo del vizio di motivazione e dell’asseritamente connessa violazione di legge nella valutazione del materiale probatorio, tenta in realtà di sottoporre alla Corte di legittimità un nuovo giudizio di merito al Giudice di legittimità è infatti preclusa - in sede di controllo della motivazione - la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti e del relativo compendio probatorio, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Tale modo di procedere trasformerebbe, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del fatto, mentre questa Corte Suprema, anche nel quadro della nuova disciplina introdotta dalla legge 20 febbraio 2006 n. 46, è - e resta - giudice della motivazione. In sostanza, in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante , su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo per cui sono inammissibili tutte le doglianze che attaccano la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, Rv. 262965 . Al riguardo si è anche chiarito che in tema di ricorso per cassazione, sono inammissibili quei motivi che - come nel caso in esame - deducendo il vizio di manifesta illogicità o di contraddittorietà della motivazione, riportano meri stralci di singoli brani di prove dichiarative, estrapolati dal complessivo contenuto dell’atto processuale al fine di trarre rafforzamento dall’indebita frantumazione dei contenuti probatori. in tal senso Sez. 1, n. 23308 del 18/11/2014, dep. 2015, Savasta, Rv. 263601 . Nel caso di specie va, poi, ulteriormente ricordato che con riguardo alla decisione in ordine all’odierna parte ricorrente ci si trova dinanzi ad una c.d. doppia conforme e cioè doppia pronuncia di eguale segno per cui il vizio di travisamento della prova può essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti con specifica deduzione che l’argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione della motivazione del provvedimento di secondo grado. Il vizio di motivazione può infatti essere fatto valere solo nell’ipotesi in cui l’impugnata decisione ha riformato quella di primo grado nei punti che in questa sede ci occupano, non potendo, nel caso di c.d. doppia conforme , superarsi il limite del devolutum con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice d’appello, per rispondere alle critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice Sez. 4, n. 19/10/2009, Buraschi, Rv. 243636 Sez. 1, n. 24667 del 15/6/2007, Musumeci, Rv. 237207 Sez. 2, n. 5223 del 24/1/2007, Medina, Rv 236130 Sez. 4, n. 5615 del 13/11/2013, dep. 2014, Nicoli, Rv. 258432 . Nel caso in esame, invece, il giudice di appello ha esaminato lo stesso materiale probatorio già sottoposto al tribunale e, dopo aver preso atto delle censure dell’appellante, è giunto, con riguardo alla posizione dell’imputato, alla medesima conclusione della sentenza di primo grado la Corte ha infatti evidenziato come A. fosse solito dare direttive dal carcere per la riscossione di crediti, sia mediante pizzini , sia mediante disposizioni orali alla madre e alla moglie che la mattina dell’aggressione subita da Ab. , A. aveva avuto un colloquio con la madre che uno degli aggressori, U.B. , ha avuto contatti telefonici con la moglie di A. sia prima che dopo l’aggressione e che lo stesso U. viene citato da A. come soggetto da mandare per riscuotere soldi nel colloquio del 4 febbraio 2014. 2.2 Quanto al secondo motivo di ricorso, vi è un aspetto che risulta dirimente nel caso di specie il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, sia con violenza sulle cose che sulle persone, rientra, diversamente da quello di estorsione, tra i cosiddetti reati propri esclusivi o di mano propria, perciò configurabili solo se la condotta tipica è posta in essere da colui che ha la titolarità del preteso diritto. Ne deriva che, in caso di concorso di persone nel reato, solo ove la condotta tipica di violenza o minaccia sia posta in essere dal titolare del preteso diritto è configurabile il concorso di un terzo estraneo nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni per agevolazione, o anche morale , mentre, qualora la condotta sia realizzata da un soggetto diverso dal creditore, essa può assumere rilievo soltanto ai sensi dell’ art. 629 cod. pen. si vedano, in tal senso, Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Rv. 268360 e Sez. 2, n. 41433 del 27/04/2016, Rv. 268630 . Inoltre, si deve rilevare come nel caso in esame la Corte di appello abbia osservato come l’agguato posto in atto va, per le modalità esecutive, ben oltre i limiti della ragion fattasi, assumendo i contorni di una spedizione finalizzata anche a punire l’Ab. per il sospetto rivelatosi fondato di una possibile collaborazione con le Forze dell’Ordine pag. 23 sentenza impugnata . Il richiamato principio costituisce frutto della constatazione che nel paradigma dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone, la modalità strumentale, violenta o minacciosa, non può trasmodare in manifestazioni sproporzionate e gratuite, in intima contraddizione con l’elemento psicologico della fattispecie condensato nella convinzione dell’esercizio, sia pure solo preteso, di un diritto. Del resto, pare difficilmente contestabile come l’oggettività giuridica del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone di cui all’art. 393 cod. pen., anche per la sedes materiae, sia la tutela delle situazioni aventi apparenza di legalità contro le altrui violente manomissioni v., Sez. 5, n. 7507 del 18/05/1983, Coppola, Rv. 160227 . La pretesa arbitrariamente attuata dall’agente deve quindi corrispondere perfettamente all’oggetto della tutela apprestata in concreto dall’ordinamento giuridico, e ciò che caratterizza il reato è pertanto la sostituzione, operata dall’agente, dello strumento di tutela pubblico con quello privato ne consegue che nel delitto di cui all’art. 393 cod. pen., la condotta violenta o minacciosa non è mai fine a sé stessa, ma è strettamente connessa alla finalità dell’agente di far valere il preteso diritto, rispetto al cui conseguimento si pone come elemento accidentale, e pertanto non può mai consistere in manifestazioni del tutto incompatibili con il ragionevole intento di far valere un diritto. Quando la minaccia o violenza, invece, si estrinseca in forme di tale forza intimidatoria e di sistematica pervicacia che vanno al di là di ogni ragionevole intento di far valere un diritto, e la condotta finisce con l’essere fine a sé stessa, allora la coartazione dell’altrui volontà è finalizzata a conseguire un profitto che assume di per sé i caratteri dell’ingiustizia v., Sez. 6, n. 17785 del 25/03/2015, Pipitone, Rv. 263255 Sez. 2, n. 9759 del 10/02/2015, Gargiuolo e altro, Rv. 263298 Sez. 1, n. 32795 del 02/07/2014, Donato, Rv. 261291 . 2.3 Relativamente al mancato riconoscimento della continuazione tra i fatti per cui è processo e la sentenza del giudice per l’udienza preliminare presso il Tribunale di Ancona si deve innanzitutto rilevare la mancanza di specificità del motivo, in quanto la sentenza richiamata non è stata allegata al ricorso per cassazione sul punto appare comunque esaustiva la motivazione della Corte di appello secondo la quale appare inverosimile che A. , socio di Ab. nel commercio di cocaina e nell’estorcere somme ai cessionari, abbia potuto inizialmente deliberare di svolgere analoghe condotte estorsive proprio nei confronti di Ab. pag 24 sentenza impugnata . 3. Per le considerazioni esposte, dunque, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Ai sensi dell’art. 616 c.p.p, con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento nonché, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento a favore della cassa delle ammende della somma di Euro 1.500,00, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.500,00 a favore della Cassa delle ammende e delle spese processuali del grado in favore della parte civile Ab.Al. , che liquida in Euro 3.510,00, oltre accessori di legge nella misura del 15%, C.P.A ed IVA.