La distrazione post fallimentare si configura anche con il solo utilizzo dei bene del fallimento

La condotta di distrazione disciplinata all’art. 216 r.d. n. 267/42 ha natura residuale e ricomprende tutte le condotte tese a sviare i beni dell’impresa fallita dalla loro funzione che è la garanzia dei crediti vantati dal ceto creditorio

Così ha deciso la Suprema Corte con la sentenza n. 44398/17, depositata il 26 settembre. Il caso. La Corte d’Appello confermava la decisione di condanna degli imputati disposta dal Tribunale, per il reato di bancarotta post fallimentare. Gli imputati avevano infatti, utilizzato i beni del fallimento sottoposti a curatela fallimentare, senza alcuna autorizzazione. In concreto, infatti, i ricorrenti avevano per più di un anno utilizzato gli automezzi sottoposti a curatela fallimentare, prelevandoli la mattina, dal parcheggio in cui erano custoditi, e riportandoli la sera. Avvero tale pronuncia gli imputatati ricorrevano in Cassazione. La distrazione post fallimentare. I ricorrenti lamentavano la non applicabilità della distrazione alla condotta in esame, dal momento che la condotta dei ricorrenti aveva in ogni caso lasciato i beni nella titolarità dell’impresa fallita e nella disponibilità della curatela. La Cassazione afferma che come ricordato dalla Corte partenopea la condotta di distrazione disciplinata all’art. 216 r.d. n. 267/42 Bancarotta fraudolenta ha natura residuale e ricomprende tutte le condotte tese a sviare i beni dell’impresa fallita dalla loro funzione che è la garanzia dei crediti vantati dal ceto creditorio. In questa prospettiva ogni uso da parte del fallito del bene pertinente alla massa fallimentare configura una condotta di distrazione propria della bancarotta post fallimentare, dal momento che il bene utilizzato subisce l’usura dell’utilizzazione e rimane esposto al deperimento o al danneggiamento come conseguenza accidentale del suo uso abusivo. Per cui, la distrazione post fallimentare può considerarsi anche quando la custodia del bene è violata attraverso il suo materiale godimento da parte del soggetto fallito, senza che si necessiti di intervento di modifica del regime giuridico della titolarità del bene stesso. Nel caso di specie, la Corte ha rilevato che la condotta distruttiva contestata agli imputati ebbe a produrre apprezzabile depauperamento del patrimonio dell’impresa fallita. Sulla base di queste valutazioni la Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 19 giugno – 26 settembre 2017, n. 44398 Presidente Vessichelli – Relatore Gorjan Ritenuto in fatto La Corte d’Appello di Napoli con la sentenza impugnata, resa il 19.9 - 24.10.2016, ha confermato la decisione di condanna emessa dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere nei confronti del F. , del P. e del V. in ordine a delitto di bancarotta patrimoniale post fallimentare. Il Collegio partenopeo ebbe a confermare la statuizione di penale responsabilità degl’imputati poiché il compendio probatorio acquisito in causa adeguato a sostenere la decisione in relazione al delitto di bancarotta contestato, in quanto anche l’uso continuativo dei beni dell’impresa fallita configurava la chiesta condotta di distrazione. Avverso la sentenza resa dalla Corte campana hanno proposto separati ricorsi per cassazione il difensore fiduciario dell’imputato F.M. ed il difensore degli imputati P.V. e V.R. . I consorti P. -V. rilevavano violazione di legge, vizio motivazionale e travisamento della prova poiché il Collegio partenopeo non aveva esposto motivazione specifica rispetto ai loro motivi di gravame, limitandosi a ritenerli omologhi a quelli illustrati dal coimputato F. . Inoltre ritenevano la decisione manifestamente illogica con travisamento del fatto in relazione all’argomentazione dei Giudici d’appello circa la ritenuta distrazione configurata dal mero uso dei beni del fallimento, assegnando valenza decisiva alla circostanza, invero anodina, che detto uso s’era prolungato per un anno. Infine i consorti V. -P. lamentavano che la Corte ebbe a confermare, bensì, il riconoscimento delle attenuanti, ex art. 62 bis cod. pen., ma in misura inferiore al massimo della riduzione possibile senza adeguata risposta alle ragioni di gravame elaborate al riguardo. A sua volta, il F. deduceva violazione di legge in relazione al ritenuto configurarsi della condotta tipica del delitto di bancarotta post fallimentare nell’azione posta in effetto in essere dall’imputato, poiché in effetto l’uso fatto dei mezzi, acquisiti alla procedura fallimentare, non poteva configurare la richiesta condotta di distrazione poiché non modificata in concreto la garanzia assicurata ai creditori fallimentari, essendo i mezzi sempre rimasti a disposizione della procedura. In effetto non intercorse alcun negozio giuridico traslativo del diritto di proprietà sui veicoli dell’impresa fallita, siccome pare ritenere il Collegio d’appello nel suo argomentare con riferimento al pericolo rappresentato dalla possibilità che anche i creditori dell’impresa F. potessero rivalersi sui mezzi in questione. All’odierna udienza pubblica, compariva per l’imputato F. il difensore che chiedeva l’accoglimento del ricorso, mentre il P.G. concludeva per l’annullamento senza rinvio per gli estranei V. e P. e rigetto del ricorso proposto dal F. . Ritenuto in diritto Ambedue i ricorsi proposti dagli imputati s’appalesano siccome inammissibili. Esaminando il primo mezzo d’impugnazione mosso dai consorti V. -P. rileva questa Corte la sua genericità poiché viene lamentato omesso esame delle specifiche censure mosse con il gravame - ritenute erroneamente dalla Corte partenopea omologhe a quelle mosse ed esaminate del coimputato F. - ma non risultano anche illustrate dette censure, cui s’opera riferimento. Quindi i ricorrenti non hanno posto questa Corte in grado di valutare il merito della critica con conseguente genericità del motivo. Anche il mezzo d’impugnazione afferente la mancata motivazione circa la tassazione - non nel massimo possibile - della diminuente relativa alle concesse attenuanti generiche s’appalesa siccome generico. Difatti la Corte partenopea ha elaborato apposito argomento per ritenere congrua la quantificazione della pena, siccome operata dal Tribunale, in relazione alle emergenze processuali, mentre gl’impugnanti si limitano a ribadire la richiesta di riduzione nel massimo consentito dall’art. 62 bis cod. pen., senza addurre anche una qualsiasi ragione giustificativa a sostegno. In effetto il secondo motivo d’impugnazione illustrato dai consorti V. -P. appare omologo, quanto alla questione giuridica che pone, alla ragione unica sulla quale si fonda l’impugnazione mossa dal F. . Tutti gli impugnanti deducono violazione di legge poiché il mero uso dei beni - automezzi da trasporto - pertinenti alla massa fallimentare non configura la condotta tipica del delitto di bancarotta patrimoniale post fallimentare, nemmeno sotto il suo profilo residuale - Cass. 3207/1966 - della distrazione. In effetto la condotta configurante la bancarotta contestata al F. , quale amministratore di fatto e dell’impresa fallita - titolare degli automezzi - e della srl omissis - soggetto utilizzatore dei mezzi -, nonché agli extranei V. e P. , quali soci di comodo - schermo del F. - titolari delle quote della citata srl omissis , era individuata nell’uso fatto, per circa un anno, degli automezzi - compendio attivo della massa del fallimento della impresa individuale R.M. - per esercitare l’attività commerciale di autotrasporto con la citata società. In effetto i mezzi utilizzati dalla srl omissis erano stati appresi dalla curatela fallimentare - anche perché sequestrati prima del fallimento - della impresa individuale R. - amministrata di fatto dal F. - e quindi lasciati in sosta nel cortile pertinente alla sede dell’impresa individuale fallita. Il F. - quale amministratore di fatto e dell’impresa fallita e della srl omissis - ed il P. ed il V., quali soci della citata società, dopo il fallimento dell’impresa Maria R. ebbero ad usare dei veicoli della fallita per l’esercizio dell’impresa sociale durante i giorni lavorativi, riportandoli nel cortile di sosta alla fine della giornata, senza aver ottenuto alcuna autorizzazione al riguardo dal curatore del fallimento R., anzi a sua insaputa. Pertanto il F. sottolinea come non si possa configurare la condotta tipica della bancarotta poiché i mezzi, non già, furono distratti mediante la confezione di negozio giuridico che incideva sulla loro titolarità - sempre rimasta in capo al soggetto fallito - bensì solo di fatto utilizzati a proprio vantaggio. Con detta condotta non si poteva configurare la contestata distrazione poiché, nemmeno in potenza, lesiva della garanzia, rappresentata per il ceto creditorio, dai beni appresi dal fallimento, sempre rimasti in titolarità dell’impresa fallita e nella disponibilità della curatela. La tesi giuridica difensiva appare manifestamente infondata nonché generiche le doglianze in effetto mosse dagli imputati con i rispettivi ricorsi. Difatti - come ricorda la Corte partenopea in linea con l’insegnamento già ricordato di questa Suprema Corte - la condotta di distrazione prevista dall’art. 216 rd 267/1942 ha natura residuale rispetto alle altre condotte tipiche elencate nel citata disposizione normativa. Ed in detta ipotesi incriminatrice residuale rientrano tutte le condotte, comunque, tese a sviare i beni dell’impresa fallita dalla loro funzione che, a dichiarato fallimento è la garanzia dei crediti vantati dal ceto creditorio - Cass. 5637/1986, Cass. 12874/1989, Cass. 11498/1993 -, ossia dar soddisfazione ad esito del loro utilizzo o della loro vendita ai crediti insinuati. In tale prospettiva dunque anche l’uso, da parte del fallito, del bene pertinente alla massa fallimentare configura condotta di distrazione propria della bancarotta post fallimentare poiché il bene subisce l’usura dell’utilizzazione e rimane esposto concretamente a deperimento o danneggiamento in conseguenza di accidente durante il periodo di suo abusivo uso. Quindi concorre concreto pericolo per la funzione di garanzia, in favore del ceto creditorio, assunto dal bene, anche se giuridicamente lo stesso sempre rimasto in titolarità della procedura, poiché non più nella sua custodia. Quindi la distrazione post fallimentare può configurarsi anche quando la sola custodia del bene è violata con il materiale suo godimento da parte del soggetto fallito, anche effettuato con il concesso utilizzo a terzi, senza necessità d’intervento di modifica del regime giuridico circa la titolarità del bene stesso. Inoltre la procedura fallimentare dalla condotta imputata ai ricorrenti ha subito uno specifico detrimento, in quanto vi fu utilizzo dei beni, formanti il compendio attivo della massa fallimentare da parte di soggetti non abilitati da alcun titolo contrattuale stipulato con la curatela, senza che alcun utile economico questa avesse a ricavarne. Utile economico, pertinente alla procedura concorsuale, invece fatto proprio dall’amministratore di fatto dell’impresa fallita ed amministratore di fatto anche della società utilizzatrice abusiva dei mezzi in sodalizio in concorso con gli extranei. La Corte partenopea ha sottolineato come gli automezzi pertinenti alla massa fallimentare dell’impresa individuale di trasporti R. - gestita in effetto dal F. - erano utilizzati sistematicamente dalla srl OMISSIS - sempre amministrata di fatto da F. e con il V. e P. quali soci fittizi a schermo del F. - per l’esercizio dell’impresa di autotrasporti della srl OMISSIS per la durata di circa un anno. A ciò consegue come l’usura dei mezzi per l’utilizzo sia stata sensibile, siccome il rilevante fu il rischio corso per incidenti con loro distruzione o danneggiamento e l’ammontare del corrispettivo per il godimento non ricevuto, ovvero concreta fu la possibilità che i mezzi fossero ritenuti pertinenti alla società utilizzatrice e, così, sottoposti da creditori di questa ad azioni esecutive, siccome sottolineato dai Giudici di merito. Quindi - Cass. sez. 5 n. 32469/2013 rv 256225 - la condotta distrattiva contestata agli imputati ebbe a produrre apprezzabile depauperamento del patrimonio dell’impresa fallita. A nulla rileva che in effetto i beni non fossero intestati alla società utilizzante poiché gli imputati avevano avuto cura di creare l’apparenza di detta pertinenza apponendo sui mezzi adesivi con la ragione sociale e, quindi, la curatela - in presenza di atti esecutivi dei creditori della società sui mezzi - avrebbe dovuto sopportare le spese ed i tempi delle liti giudiziarie per chiarire la questione. Quanto poi alla dedotta inesistenza di atto negoziale incidente sul patrimonio dell’impresa fallita acquisito dalla procedura fallimentare, va osservato come - proprio per distinguere la presente condotta criminosa da altri delitti - in capo d’imputazione venne precisato che la dazione dei mezzi alla società per utilizzarli fu effettuata dal F. quale amministratore di fatto dell’impresa individuale fallita. Quindi l’uso non intervenne per mera apprensione materiale da parte di soggetti estranei alla sfera dell’impresa fallita, bensì mediante specifico negozio, riconducibile al contratto di comodato, confezionato dal soggetto, gestore di fatto dell’impresa fallita, con società a lui riconducibile e per amministrazione di fatto e per titolarità delle quote sociali fittiziamente intestate al V. ed al P. , cointeressati all’azione delittuosa. Difatti è insegnamento di questo Supremo Collegio - Cass. sez. 5 n. 15850/1990 - che la distrazione rimane configurata da qualsiasi atto negoziale di destinazione patrimoniale affetto da anomalie genetiche o funzionali afferente i beni dell’impresa e, non già, solo da negozi comportanti il trasferimento del diritto di proprietà sugli stessi, come pare opinare la difesa del F. . E nella specie il F. , quale gestore di fatto dell’impresa individuale fallita, ha disposto dei veicoli, ancora formalmente in proprietà del soggetto fallito, a favore della società a lui riconducibile comunque mediante atto negoziale, anche se patentemente affetto da anomalie e per l’assenza di assenso della curatela e per l’identità dei contraenti nella sua persona. Rettamente, poi, la Corte partenopea ha richiamato l’insegnamento di questa Corte Suprema circa l’irrilevanza della restituzione del bene distratto poiché ciò che assume rilievo è il pericolo concreto portato alla garanzia per il ceto creditorio, che nella specie appare evidente, come sopra illustrato. Così ricostruita la questione giuridica oggetto d’esame della Corte partenopea evidente appare come l’argomento critico mosso in ricorso per cassazione dai consorti V. -P. non si confronta con la motivazione esposta dalla Corte territoriale. Difatti detti impugnanti si limitano a ritenere che la Corte d’appello abbia assegnato valenza decisiva al periodo di durata dell’utilizzo, mentre tale argomento risulta utilizzato solamente per evidenziare il rilevante detrimento patito dalla procedura fallimentare. L’argomento critico sviluppato, invece, dal F. e fondato sull’assenza di incidenza della sua condotta circa la mantenuta disponibilità del bene per la procedura appare correlato a configurazione della condotta di distrazione siccome determinata dal definitivo distacco del bene dalla massa fallimentare, che motivatamente la Corte partenopea ha disatteso. Quindi in effetto con il ricorso per cassazione il F. ripropone la sua tesi giuridica senza confrontarsi con l’argomento illustrato in sentenza impugnata e centrato sull’insegnamento costante di questa Suprema Corte che la distrazione è configurata dallo sviamento del bene dell’impresa, mediante qualsiasi atto negoziale, rispetto alla sua destinazione che, ad esito del dichiarato fallimento, risulta essere l’utilizzo o la vendita per la soddisfazione dei crediti insinuati. Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi segue, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna di ciascuno dei ricorrenti al pagamento in favore dell’Erario delle spese di questo giudizio di legittimità ed a favore della Cassa delle ammende della somma di Euro 2.000,00. P.Q.M. Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.