Solo il carcere può troncare i rapporti tra indiziato e associazione mafiosa

In tema di misure cautelari, il tratto nodale che giustifica la presunzione di cui all’art. 275, comma 3, c.p.p., per i delitti di criminalità mafiosa, deve essere identificato nell’appartenenza dell’indiziato all’associazione mafiosa, intesa come adesione permanente ad un sodalizio criminoso fortemente radicato nel territorio.

Così ha deciso la Suprema Corte con sentenza n. 31618/17 depositata il 27 giugno. Il caso. Rigettato dal Tribunale l’appello proposto contro l’ordinanza che non accoglieva la richiesta di sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari, la ricorrente, condannata per il reato di cui all’art. 416- bis c.p. recante Associazioni di tipo mafioso anche straniere , adisce la Cassazione per mezzo del suo difensore di fiducia. In particolare, quest’ultimo denuncia vizio di violazione di legge in relazione all’art. 275, comma 3, c.p.p., nella parte in cui il provvedimento non ha previsto per l’imputata, quale concorrente nel reato sopra citato, la sostituzione della misura custodiale massima con altra misura, diversa da quella carceraria, in ordine anche alle precisazioni formulate sul punto dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 48/2015. Le parole della Corte Costituzionale. Il Collegio di legittimità rileva quanto affermato dalla Consulta relativamente al tratto nodale che giustifica la presunzione di cui all’art. 275, comma 3, c.p.p. per i delitti di criminalità mafiosa. In particolare, la Corte Costituzionale ha ribadito che tale tratto deve essere identificato nell’appartenenza dell’indiziato all’associazione mafiosa, appartenenza che implica un’adesione permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice . Sul punto, anche la CEDU ha evocato, nella sentenza 6 novembre 2003, Pantano contro Italia, la condivisa regola d’esperienza secondo la quale solo la custodia carceraria può ritenersi in grado di troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosità . Concorrente esterno. In virtù di questi principi, la deduzione difensiva contenuta nel ricorso non può ritenersi fondata, poiché anche il concorrente esterno, pur se non inserito, sotto il profilo soggettivo, nella struttura criminale, offre comunque un apporto causalmente rilevante alla sua conservazione o al suo rafforzamento. La Cassazione, dunque, rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 19 aprile – 27 giugno 2017, n. 31618 Presidente Conti – Relatore Giordano Ritenuto in fatto 1. B.M.A. impugna l’ordinanza con la quale il Tribunale di Reggio Calabria ha respinto l’appello proposto contro l’ordinanza della locale Corte di appello che aveva rigettato la richiesta di sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari. Il Tribunale, dato atto che si procede nei confronti di B.M.A. per il reato di cui all’art. 416 bis cod. pen., in relazione al quale la B. ha riportato condanna in primo grado alla pena di anni dieci e mesi otto di reclusione, ha ritenuto che il mero decorso del tempo dal momento di applicazione della misura non è idoneo, in mancanza di ulteriori elementi idonei a comprovare il venire meno dell’appartenenza al sodalizio criminoso, il superamento della presunzione di pericolosità sociale che, a mente dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. comporta l’applicazione della più grave misura custodiale. Il Tribunale ha respinto, altresì, la richiesta della difesa di applicare all’imputata, madre di una bambina dell’età di anni otto, affidata ai nonni paterni, il beneficio degli arresti domiciliari richiesta motivata con la possibilità di applicare, in fase cautelare, in via analogica, il disposto di cui all’art. 4 bis legge n. 354/1954, e, comunque, mutuando dalla fase esecutiva, che consente l’accesso ai benefici penitenziari per genitori di prole minori di anni dieci, il panorama normativo di riferimento. Il Tribunale ha ritenuto che la eterogeneità delle situazioni che vengono in rilievo ai fini dell’applicazione della detenzione domiciliare, ex art. 47 quinquies Ord. Pen., per madre di prole di età non superiore a dieci anni, rispetto alla fattispecie regolata dall’art. 275 comma 4 cod. proc. pen. secondo cui non può essere disposta la custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, quando imputati siano donna incinta o madre di prole di età inferiore a sei anni con lei convivente non consente l’applicazione alla fattispecie che regola la fase cautelare del limite previsto in materia di esecuzione. Ha infine dichiarato manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale con riferimento agli artt. 3, 30 e 31 Cost. dell’art. 275, comma 3 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede che per le detenute madri di prole di età inferiore agli anni dieci il giudice non possa valutare discrezionalmente la tutela delle esigenze cautelari con una misura diversa da quella carceraria, salvaguardando così il valore di difesa sociale legato alla previsione della sussistenza delle esigenze cautelari con quello costituzionale di protezione dell’infanzia. 2. Con i motivi di ricorso, di seguito sintetizzati ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen., il difensore della ricorrente denuncia vizio di violazione di legge 2.1 in relazione all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede per l’imputato concorrente nel reato di cui all’art. 416 bis cod. pen., nel caso in cui siano acquisiti elementi specifici in relazione al caso concreto dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con misure diverse da quella custodiale massima, di ottenere la sostituzione con altra misura estendendo la portata delle precisazioni formulate dalla Corte Costituzionale in relazione al concorrente esterno con la sentenza n. 48/2015, attesa la posizione della B. 2.2 in relazione all’art. 275, comma 3, ultima parte cod. proc. pen., per violazione degli artt. 3, 29, 30 e 31 Cost., valutata in comparazione con la previsione di cui all’art. 47 quinquies Ord. Pen., nella parte in cui prevede per le imputate condannate per il reato di cui all’art. 416 bis cod. pen., di ottenere la detenzione domiciliare quando siano madre di prole di età inferiore a dieci anni, e limitata alle madri di prole di età inferiore a sei anni dalla richiamata previsione di cui all’art. 275, comma 3, ultima parte cod. proc. pen., attesa la posizione della B. madre di prole di età superiore a sei anni e inferiore a dieci 2.3 violazione di legge e vizio di motivazione per la ritenuta sussistenza di esigenze cautelari trascurando lo stato di incensuratezza della B. , madre di figli in tenera età e tenuto conto che il ruolo ascrittole con il reato associativo fa capo ad attività conseguenti ai colloqui in carcere intrattenuti con la madre che nel frattempo ha scontato la pena e con il padre con il quale, se collocata agli arresti domiciliari, non potrebbe comunque avere colloqui. Da ciò la valutazione astratta della permanenza delle esigenze cautelari di prevenzione ritenuta dal Tribunale del riesame. Considerato in diritto 1. Il ricorso deve essere rigettato per la infondatezza dei proposti motivi. 2. Manifestamente infondato è il terzo motivo di ricorso non essendo acquisiti, alla stregua della diffusa motivazione svolta sul punto nell’ordinanza impugnata, elementi per ritenere che l’imputata abbia stabilmente rescisso i suoi legami con l’organizzazione criminosa di riferimento ovvero che siano acquisiti elementi concreti e specifici di un significativo allontanamento dell’affiliata dall’associazione. Correttamente nell’ordinanza impugnata si è affermato che non rileva in tal senso né lo stato di incensuratezza della B. smentito, nella sua valenza di indice di mancanza di pericolosità, dalla condanna inflittale in primo grado ad una pena consistente – né la corretta osservanza delle prescrizioni inerenti alla misura degli arresti domiciliari, nel periodo durante il quale la B. era stata sottoposta a tale misura, né la scelta di definire la propria posizione con il rito abbreviato, elementi che, in una al tempo trascorso dall’applicazione della misura, sono stati, del tutto ragionevolmente, ritenuti inidonei ad una rivisitazione del giudizio di pericolosità sociale perché non espressivi dell’allontanamento dell’imputata dall’associazione contestata e, quindi, del vincolo di solidarietà che ancora ne cementa in uno a quello familiare i rapporti con il gruppo associativo di riferimento al prescindere dallo status di detenzione nel quale versa il padre dell’imputata e dalla conseguente impossibilità di avere colloqui con il predetto trovandosi in stato di arresti domiciliari. 3. Le conclusioni alle quali è pervenuto il Tribunale non denunciano illogicità evidenti e sono in linea con il dictum dell’art. 275, comma 3 cod. proc. pen., come interpretato dalla costante giurisprudenza di questa Corte e dalla ricostruzione del giudice delle Leggi sul presupposto e sulla portata applicativa della presunzione di pericolosità recata dalla disposizione ora richiamata. Ritiene, in particolare, il Collegio che non sono acquisiti elementi per dubitare della correttezza, in riferimento ai parametri costituzionali rivenienti dagli artt. 3, 13 e 27 Cost., della presunzione relativa che informa il sistema cautelare con riguardo agli imputati o indiziati di appartenenza alle associazioni mafiose, correttezza che, in occasione della sentenza della Corte Costituzionale il 26 marzo 2015, richiamata in ricorso, il giudice delle Leggi ha ribadito individuando, a fondamento del discernimento, rispetto alla posizione del concorrente esterno, del partecipe del reato associativo ai fini dell’applicazione della misura di massimo rigore, ove ritenute sussistenti esigenze cautelari. La motivazione sviluppata nella richiamata sentenza ha, invero, riaffermato che sono strutturalmente diverse le posizioni dell’appartenente all’associazione mafiosa e del concorrente esterno nella stessa soggetto, quest’ultimo, estraneo al sodalizio criminoso e rispetto al quale, l’originaria previsione normativa di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, è stata ritenuta assunta in violazione delle previsioni di cui all’art. 3 Cost. nonché l’art. 13, primo comma, Cost., quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari limitative della libertà personale, ispirato ai principi di proporzionalità, adeguatezza e del minimo sacrificio necessario nonché l’art. 27, secondo comma, Cost., venendo attribuiti alla coercizione personale cautelare tratti funzionali tipici della pena, in contrasto con la presunzione di non colpevolezza. La Consulta non ha mancato di ribadire come il tratto nodale, che giustifica la presunzione di cui all’art. 275, comma 3 cod. proc. pen. per i delitti di criminalità mafiosa, deve essere identificato nell’appartenenza dell’indiziato all’associazione mafiosa, appartenenza che implica un’adesione permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice donde la condivisa regola d’esperienza evocata anche dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo nella sentenza 6 novembre 2003, Pantano contro Italia per cui solo la custodia carceraria può ritenersi in grado di troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosità sentenza n. 265 del 2010 . Il delitto di associazione di tipo mafioso è normativamente connotato di riflesso ad un dato empirico sociologico come quello in cui il vincolo associativo esprime una forza di intimidazione e condizioni di assoggettamento e di omertà, che da quella derivano, per conseguire determinati fini illeciti e, caratteristica essenziale è proprio tale specificità del vincolo, che, sul piano concreto, implica ed è suscettibile di produrre, da un lato, una solida e permanente adesione tra gli associati, una rigida organizzazione gerarchica, una rete di collegamenti e un radicamento territoriale e, dall’altro, una diffusività dei risultati illeciti, a sua volta produttiva di accrescimento della forza intimidatrice del sodalizio criminoso. Sono, dunque, tali peculiari connotazioni a fornire una congrua base statistica alla presunzione di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., rendendo ragionevole la convinzione che, nella generalità dei casi, le esigenze cautelari derivanti dal delitto in questione non possano venire adeguatamente fronteggiate se non con la misura carceraria, in quanto idonea per valersi delle parole della Corte Europea dei diritti dell’uomo a tagliare i legami esistenti tra le persone interessate e il loro ambito criminale di origine, minimizzando il rischio che esse mantengano contatti personali con le strutture delle organizzazioni criminali e possano commettere nel frattempo delitti sentenza 6 novembre 2003, Pantano contro Italia sentenza n. 231 del 2011 . Conclusivamente deve affermarsi la infondatezza della deduzione difensiva avuto riguardo alla circostanza che il concorrente esterno, a differenza dell’ intraneus all’associazione, non è, sotto il profilo oggettivo, inserito nella struttura criminale, pur offrendo un apporto causalmente rilevante alla sua conservazione o al suo rafforzamento, e, sotto il profilo soggettivo, è privo dell’ affectio societatis , laddove invece l’ intraneus è animato dalla coscienza e volontà di contribuire attivamente alla realizzazione dell’accordo e del programma criminoso in modo stabile e permanente, qualità del rapporto associativo e dell’apporto psicologico che giustificano il diverso regime presuntivo, con riguardo al concorrente esterno e che non è suscettibile di estensione all’appartenente all’associazione mafiosa. 4. Né può trovare accoglimento il secondo motivo di censura non essendo acquisiti elementi significativi, alla stregua delle motivazioni illustrate in ricorso, per discostarsi dalle conclusioni alle quali sono pervenuti i giudici del merito sulla inapplicabilità alla fattispecie concreta, per analogia, del disposto di cui all’art. 4 bis della legge n. 354/1975 e della proposta questione di illegittimità costituzionale, in relazione all’art. 3 Cost., dell’art. 275 comma 4 cod. proc. pen. nella parte in cui non consente, contrariamente al disposto dell’art. 4 bis cit. alla madre di figlio minore che abbia compiuto i sei anni di età ma non ancora i dieci anni, di usufruire della misura degli arresti domiciliari. Tale soluzione è, vieppiù, imposta a stregua del giudizio di infondatezza della dedotta violazione del principio di eguaglianza, rispetto alle varie disposizioni dell’ordinamento penitenziario che assicurano tutela al preminente interesse dei minori, figli di soggetti già condannati in via definitiva, sino al compimento dei dieci anni, e non già solo fino al compimento del sesto anno d’età, come invece prevede l’art. 275, comma 4, cod. proc. pen., giudizio pronunciato dalla Corte Costituzionale, investita della medesima questione, decisa con sentenza n. 17 del 24 gennaio 2017. 5. Rileva il Collegio che la disposizione di cui all’art. 275, comma 4, cod. pen. contiene un divieto di carattere generale, riferibile a tutti i reati di applicazione della custodia cautelare in carcere, riferito ad alcune categorie di imputati tra i quali la madre di figli minori infraseienni con lei conviventi , deroga sia pur soggetta a condizioni e limiti ai criteri che i commi precedenti del medesimo articolo dettano in tema di applicazione delle misure cautelari e, quindi, anche alla presunzione legale stabilita al comma precedente. La ratio del divieto legislativo di applicazione della misura cautelare carceraria, in presenza di minori di età inferiore ai sei anni, secondo i caratteri delineati nella giurisprudenza di questa Corte, risiede nella necessità di salvaguardare la loro integrità psicofisica, dando prevalenza alle esigenze genitoriali ed educative su quelle cautelari entro i limiti precisati , garantendo così ai figli l’assistenza della madre, in un momento particolarmente significativo e qualificante della loro crescita e formazione ex multis Sez. 6, n. 35806 del 23/6/2015, Pepe, Rv. 264725 . Il divieto in questione è, pertanto, frutto del giudizio di valore operato dal legislatore, il quale stabilisce che, nei termini e nei limiti ricordati, sulla esigenza processuale e sociale della coercizione intramuraria deve prevalere la tutela di un altro interesse di rango costituzionale, quello correlato alla protezione costituzionale dell’infanzia, garantita dall’art. 31 Cost Orbene la sentenza della Corte Costituzionale, richiamate tali premesse e precedenti statuizioni in materia, ha rilevato che le disposizioni in materia cautelare finalizzate alla tutela dell’interesse dei minori figli di genitori imputati non costituiscono idonei tertia comparationis rispetto a quelle analoghe dettate dall’ordinamento penitenziario per i genitori ristretti a seguito di condanna, e, ha, anzi sottolineato, più in generale, la non assimilabilità, ai fini di uno scrutinio di eguaglianza, di status fra loro eterogenei, quello dell’imputato sottoposto ad una misura cautelare personale, da una parte, e quello del condannato in fase di esecuzione della pena, dall’altra poiché le misure cautelari sono volte a presidiare i pericula libertatis , cioè ad evitare la fuga, l’inquinamento delle prove e la commissione di reati. Se le rispettive esigenze di difesa sociale sono di natura profondamente diversa, ne consegue che il principio da porre in bilanciamento con l’interesse del minore è, nei due casi, differente con la conseguenza che la disposizione di cui all’art. 275, comma 4 cod. proc. pen. non attinge il livello della denunciata irragionevolezza. 6. Consegue al rigetto del ricorso la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali. La Cancelleria va incaricata degli incombenti di cui all’art. 94, comma 1 ter disp. att. cod. proc. pen P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1 ter disp. att. cod. proc. pen