Violenze e percosse a danno della convivente sono “maltrattamenti in famiglia”

La convivenza di fatto tra imputato e persona offesa può essere elemento sufficiente per riscontrare la sussistenza del reato di maltrattamento in famiglia.

Così la Corte di Cassazione con la sentenza 31595/17 depositata il 27 giugno. Il caso. La Corte d’appello di Bologna riformava la sentenza di primo grado che aveva assolto l’imputato dal reato di maltrattamenti in famiglia a danno della compagna. La difesa ricorre in Cassazione dolendosi, per quanto qui d’interesse, per la ritenuta sussistenza del reato in quanto, essendo cessata da anni la convivenza tra i due, era venuto a mancare uno degli elementi della fattispecie di cui all’art. 572 c.p Convivenza. La Suprema Corte coglie l’occasione per ribadire che elemento caratterizzante del delitto di maltrattamenti in famiglia è la sussistenza di una situazione giuridica derivante dal vincolo matrimoniale o di fatto nel caso della convivenza o della presenza di stabili relazioni affettive che provochino l’affidamento reciproco e la presenza di vincoli di assistenza, protezione e solidarietà per effetto del comune sviluppo personale psicologico che in tali comunità si verificano e che, proprio, per il vincolo di solidarietà reciproca che questo crea, può rendere difficile alla vittima cogliere lo specifico disvalore degli atti a cui è sottoposta, producendo l’ulteriore danno derivante dall’abitualità della sopraffazione . Ed è proprio in tale profilo che si realizza la lesione del suo interesse ad un’esistenza libera e dignitosa. Ed infatti la giurisprudenza ha già avuto modo di riconoscere nella convivenza protrattasi per lungo tempo, o pregressa nel caso di coniugi separati, l’elemento tipico del reato in parola per la persistenza del vincolo solidaristico che ne consegue. In conclusione, il delitto di maltrattamenti in famiglia sussiste anche se tra l’imputato e la vittima vi sia un rapporto familiare di mero fatto desumibile dalla messa in atto di un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà ed assistenza. Conclusione che peraltro trova conferma anche nell’intervento del Legislatore che con la l. n. 172/2012 ha sostituito la rubrica dell’art. 572 c.p. Maltrattamenti in famiglia in Maltrattamenti contro familiari e conviventi . La sentenza impugnata ha dunque fatto corretta applicazione dei principi summenzionati riscontrando nelle dichiarazioni la sussistenza di una stabile relazione e di un comune progetto di vita tra i due che, anche dopo la cessazione della convivenza, continuavano a frequentarsi nelle rispettive abitazioni e a lavorare insieme, circostanze che dimostrano come il rapporto fosse improntato alla reciproca solidarietà e assistenza morale e materiale. Per questi motivi, la Corte rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 19 aprile – 27 giugno 2017, n. 31595 Presidente Conti – Relatore Giordano Ritenuto in fatto 1. La Corte di appello di Bologna, in riforma della sentenza di primo grado che aveva mandato assolto G.M. perché il fatto non sussiste, su appello proposto dal Pubblico Ministero e dalla parte civile, ha condannato l’imputato a pena ritenuta di giustizia per il reato di maltrattamenti commesso in danno di P.M. dal omissis . 2. Con i motivi di ricorso, di seguito sintetizzati ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen. il difensore di G.M. denuncia vizio di violazione di legge per la ritenuta sussistenza del reato di maltrattamenti. Rileva che, essendo cessato a partire dall’anno 2009 il rapporto di convivenza tra imputato e persona offesa e sopravvivendo fra i due mere relazioni lavorative, manca uno degli elementi fondanti del contestato reato - cioè il rapporto di convivenza-vertendosi, peraltro, in presenza di accese discussioni fra il G. e la P. , discussioni che sfociavano in offese reciproche. Né sono sufficienti, a denotare l’abitualità del comportamento abusante, la pluralità delle denunce, talune sfociate in decisioni di altro giudice altre definite con remissione di querela, abitualità, che ha il suo necessario contraltare nello stato di vessazione della persona offesa. Con il secondo motivo denuncia vizio di carenza di motivazione sulla sussistenza dell’elemento psicologico del reato, vale a dire la volontà di sopraffazione sistematica della vittima al fine di renderle la vita intollerabile, conclusione apoditticamente motivata dalla Corte che, peraltro, ha riformato la sentenza di assoluzione di primo grado senza procedere alla rinnovazione dell’istruttoria, ex art. 603, comma 3, cod. proc. pen Considerato in diritto 1. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato non senza dare atto che dal dispositivo della sentenza di appello letto in udienza - contrariamente a quello riportato nella sentenza impugnata - risulta che l’imputato è stato condannato alla pena di anni uno e mesi otto di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali di entrambi i gradi di giudizio e al risarcimento dei danni, in favore della parte civile, liquidati in Euro diecimila ed al pagamento, a favore di costei, delle spese processuali. 2. Sono corrette le premesse giuridiche dalle quali muovono i motivi di ricorso. Per pacifica giurisprudenza di questa Corte condizione di fatto essenziale per la verificazione del delitto di maltrattamenti in famiglia è la sussistenza di una situazione giuridica, derivante dal vincolo matrimoniale, o di fatto, nell’ipotesi di una condizione di convivenza o della presenza di stabili relazioni affettive sul punto Sez. 5, Sentenza n. 24688 del 17/03/2010, B., Rv. 248312 , che provochino l’affidamento reciproco e la presenza di vincoli di assistenza, protezione e solidarietà, per effetto del comune sviluppo personale psicologico che in tali comunità si verificano e che, proprio, per il vincolo di solidarietà reciproca che questo crea, può rendere difficile alla vittima cogliere lo specifico disvalore degli atti cui è sottoposta, producendo l’ulteriore danno derivante dall’abitualità della sopraffazione. Ciò realizza una lesione del suo interesse ad un’esistenza libera e dignitosa, che si aggiunge a quelle derivanti dalle specifiche ipotesi delittuose che tale violazione fisiologicamente ingloba. Non a caso la norma in esame, pur collocata nel capo riguardante i reati contro la morale familiare, considera anche situazioni analoghe, quali l’affidamento del minore degli anni quattordici, per ciò stesso incapace di una difesa efficace, o di una persona per finalità di istruzione, cura, vigilanza e custodia, facendosi carico dei complessi rapporti psicologici che si formano in tali piccole comunità, e dell’affidamento che a livello personale consegue a tali diretti contatti personali. In precedenti pronunce di questa Corte, si è più volte riconosciuto che la situazione di convivenza, protratta per congruo periodo di tempo, o pregressa, nell’ipotesi di coniugi separati, è condizione idonea a giustificare l’accertamento del reato, per la persistenza dei vincoli di solidarietà che ne conseguono. Il delitto di maltrattamenti è configurabile anche se con la vittima degli abusi vi sia un rapporto familiare di mero fatto, desumibile, anche in assenza di una stabile convivenza, dalla messa in atto di un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà ed assistenza. Del resto, sulla scorta della consolidata giurisprudenza di legittimità, la novella del 1 ottobre 2012 n. 172, ha parzialmente riformato l’art. 572 cod. pen. cambiando la rubrica da maltrattamenti in famiglia in maltrattamenti contro familiari e conviventi , e precisando che soggetto passivo del reato non è soltanto una persona della famiglia , ma una persona della famiglia o comunque convivente e, dunque, riconoscendo il valore sociale della convivenza come modello idoneo a costituire una di quelle formazioni sociali che l’ordinamento costituzionale si impegna a riconoscere e garantire v. art. 2 Cost. ha inteso assicurare tutela penale non solo ai componenti della famiglia legale, ma anche ai membri delle unioni di fatto fondate sulla convivenza Sez. 6, n. 22915 del 07/05/2013, I., Rv. 255628 . 3. A tali linee interpretative si è uniformata la sentenza impugnata che, sulla scorta delle dichiarazioni rese da P.M. , ha ritenuto comprovato il rapporto di convivenza tra imputato e la persona offesa fino ad aprile 2011 evidenziando che i due, pur avendo cessato la coabitazione sotto lo stesso tetto a partire dalla fine dell’anno 2009, avevano continuato la loro relazione sentimentale, frequentandosi nel comune ambito di lavoro e presso le rispettive abitazioni poiché il G. si recava con frequenza a cena a casa della compagna, dove si fermava a dormire, mentre la P. si recava a casa del compagno per fare le pulizie. La Corte ha ritenuto, altresì, comprovata un’abituale condotta di maltrattamenti posta in essere dall’imputato evidenziando, sulla scorta dei numerosi referti medici prodotti dalla persona offesa, attestanti le lesioni da questa subite, che il comportamento aggressivo e violento dell’imputato, lungi dal risolversi in occasionali scatti d’ira, causati dalla gelosia, era improntato alla sopraffazione, offesa ed umiliazione della compagna che ne aveva riportato, oltre alle lesioni di volta in volta cagionatele, uno status psicologico caratterizzato da paura e terrore continui, ansia e senso di impotenza, stati psicologici tipici della vittima del reato in esame. 3. Le deduzioni difensive che, a giustificazione del rapporto di frequentazione fra l’imputato e la persona offesa, allegano la esistenza di un rapporto di lavoro ovvero di un mero rapporto sentimentale, sia pure protratto nel tempo e con fasi alterne, sono contrastate dalle dichiarazioni rese dalla persona offesa, che ha spiegato come, all’inizio del 2010, aveva rimesso le querele già presentate contro l’imputato ed aveva accettato di andare a lavorare presso l’azienda del G. mantenendo con questi, a meno che per la convivenza, un rapporto stabile e protrattosi nel tempo, e, correttamente, la Corte di merito ha ritenuto che tale rapporto, nella dinamica descritta dalla P. , risultasse improntato ad umana solidarietà e a doveri di assistenza morale e materiale, rivelati dalle quotidiane abitudini di vita che implicano, e sottintendono, la cura di una persona ed il reciproco affidamento, quali la comune consumazione dei pasti serali a casa della P. il trattenersi ivi a dormire e l’accudimento, da parte della P. , dell’abitazione dell’imputato. Abitudini vieppiù significative perché si innestavano sulla condivisione della giornata lavorativa, presso l’azienda dell’imputato, e, che apprezzate nel loro insieme, rivelano la messa in atto di un progetto di vita comune al quale manca solo la stabile coabitazione, mancanza che, secondo la P. , serviva a verificare se, così facendo, i rapporti con il compagno fossero improntati ad una maggiore serenità, verifica rivelatasi negativa tanto che la P. , a fronte della ingravescenza delle percosse e minacce subite - da ultimo, nell’aprile 2011 - si decideva a sporgere denuncia e a lasciare, insieme ai figli, l’abitazione dell’imputato, dopo avere chiamato in suo aiuto i genitori e i Carabinieri. 4. Come accennato, le percosse e lesioni subite in più occasioni dalla P. sono attestate dai referti acquisiti, a comprova della reiterazione degli episodi di violenza. Alla stregua di tali circostanze di fatto, risulta manifestamente infondato anche secondo motivo di ricorso che investe la sussistenza dell’elemento psicologico del reato, correttamente individuato nel carattere unitario del dolo che necessariamente sorregge il delitto di maltrattamenti in famiglia ex multis Sez. 6, n. 6541 del 11/12/2003, dep. 2004, Bonsignore, Rv. 228276 e che funge da elemento unificatore della pluralità di atti lesivi della personalità della vittima concretizzandosi nell’inclinazione della volontà ad una condotta oppressiva e prevaricatoria che, nella reiterazione dei maltrattamenti, si va via via realizzando e confermando, in modo che il colpevole accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persistere in una attività illecita, posta in essere già altre volte. L’elemento psicologico del reato, così descritto, non si identifica con un connotato psicologico - la deliberata malvagità - dell’agente né è incompatibile con la reattività di fronte a situazioni di disagio, nel caso la gelosia verso la compagna, essendo necessario e sufficiente che l’agente abbia la consapevole volontà delle proprie condotte e di determinare nella vittima uno stato di sofferenza, consapevolezza che, nel caso, è denunciata dall’abitualità del ricorso a comportamenti aggressivi, del tutto gratuiti e sproporzionati rispetto alle dinamiche della vita di relazione della coppia, tant’è che le reazioni del G. si manifestavano anche rispetto al modo in cui la P. educava i propri figli ed erano spesso deputate ad offenderla senza apparente motivo. Anche a tale riguardo le conclusioni alle quali è pervenuto il giudice di appello che ha disatteso la ricostruzione della sentenza di primo grado - secondo la quale il comportamento dell’imputato derivava da una reazione dovuta alla gelosia e normale in una coppia, trattandosi di meri litigi socialmente accettabili in un contesto familiare - non meritano censura. 4. Del tutto generico, infine, si appalesa l’ultimo motivo di ricorso sul punto delle prove delle quali era necessaria la riescussione in appello e la decisività delle stesse. La Corte di merito, in linea con la giurisprudenza di legittimità, è pervenuta alla conclusione, non contrastata in ricorso, della non indispensabilità della escussione della persona offesa le cui dichiarazioni sono state apprezzate alla luce di ulteriori elementi, trascurati dal primo giudice quali i referti medici e le dichiarazioni dei congiunti della persona offesa. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.