Espulso per 10 anni, rientra dopo 5: è reato nonostante lo ius superveniens comunitario

La direttiva comunitaria 2008/115/CE, introdotta con d.l. n. 89/2011, prevedeva che la durata del divieto di reingresso fosse compresa tra i tre e i cinque anni dal momento dell’espulsione. Cosa avviene nel caso in cui un soggetto è stato intimato, nel decreto prefettizio di espulsione, ad un allontanamento coattivo di dieci anni?

A questa domanda risponde la Corte di Cassazione con la sentenza n. 16412/17 depositata il 31 marzo. Il caso. Un cittadino albanese rientrava illegalmente in Italia, in violazione dell’art. 13, comma 13, d.lgs. n. 286/1998, dopo esser stato destinatario di un provvedimento di espulsione. Il divieto di reingresso aveva una durata di 10 anni, ma egli lo aveva violato dopo cinque, motivo per il quale era stato condannato cinque mesi e dieci giorni di reclusione. Avverso questa condanna il soggetto ricorreva in Cassazione, ritenendo che il divieto di reingresso andasse reinterpretato alla luce della nuova disciplina della direttiva comunitaria 2008/115/CE, introdotta con d.l. n. 89/2011, che prevedeva che la durata fosse compresa tra i tre e i cinque anni dal momento dell’espulsione. Il ragionamento della Corte d’appello era stato il seguente il provvedimento che vietava il reingresso, benché contrastante con la direttiva, circa la durata, non superiore a 5 anni, del divieto di reingresso, doveva essere ritenuto efficace entro tale minore limite temporale . Il divieto di rientro nel territorio italiano a seguito di decreto di espulsione. Secondo la Corte di Cassazione deve escludersi che la successiva entrata in vigore della direttiva comunitaria e/o le modifiche legislative sopravvenute abbiano comportato iure superveniente la radicale invalidazione del provvedimento amministrativo di espulsione, colle conseguenze dell’obbligo di disapplicazione da parte del giudice penale dell’epilogo assolutorio del trasgressore . Il decreto, infatti, è stato emesso dall’autorità amministrativa in piena conformità alla legge allora vigente e ha avuto regolare esecuzione, rimanendo insensibile alle sopravvenute modifiche normative. Lo ius superveniens assume incidenza esclusivamente sugli effetti ancora in essere del provvedimento, cioè, in relazione alla durata del divieto non ancora cessato, la quale deve essere contenuta ex lege entro il limite ordinario stabilito dalla direttiva [] così da non superare, fatti salvi i casi particolari previsti, i cinque anni . In conclusione, nel rigettare il ricorso, la Suprema Corte afferma il seguente principio di diritto il reato di cui all’art. 13, comma 13, d.lgs. n. 286/1998, è integrato quando lo straniero extracomunitario, espulso con divieto di rientrare nel territorio italiano, trasgredisca facendo rientro in Italia, senza autorizzazione, prima che dalla esecuzione dell’espulsione sia decorso un periodo di cinque anni, pari al massimo del termine ordinario del divieto di rientro previsto dalla norma vigente .

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 10 giugno 2016 – 31 marzo 2017, n. 16412 Presidente Vecchio – Relatore Tardio Ritenuto in fatto 1. Con sentenza emessa in data 11 maggio 2015 la Corte di appello di Firenze ha confermato la sentenza del 6 giugno 2013 del Tribunale di Prato, che, all’esito del giudizio abbreviato, aveva dichiarato S.V. colpevole del reato previsto dall’art. 13, comma 13, d.lgs. n. 286 del 1998 per essere rientrato illegalmente in Italia senza la prescritta autorizzazione, come accertato in omissis in data omissis , successivamente alla sua espulsione, disposta dal Prefetto di Caserta con decreto del 26 maggio 2009 ed eseguita il 28 maggio 2009, e lo aveva condannato, concesse le attenuanti generiche prevalenti sulla contestata recidiva e applicata la diminuente del rito, alla pena di mesi cinque e giorni dieci di reclusione. 1.1. Secondo la ricostruzione del fatto, operata dal Tribunale e sintetizzata dalla Corte di appello, l’imputato, controllato mentre viaggiava a bordo di un’autovettura nel territorio di omissis , era risultato già espulso in esecuzione dell’indicato decreto prefettizio, con il quale gli era stato intimato il divieto di reingresso in Italia per dieci anni, ed era rientrato, pertanto, in Italia entro cinque anni dal suo allontanamento coattivo. Il Tribunale aveva ritenuto che tale circostanza fattuale consentisse di ritenere rispettato il periodo di tempo dichiarato di fatto legittimo, quale durata del divieto di reingresso, dalla direttiva comunitaria 2008/115/CE e integrato il reato ascritto. 1.2. La Corte di appello condivideva e confermava tale decisione, rappresentando che il provvedimento che vietava il reingresso, benché contrastante con la previsione della indicata direttiva circa la durata, non superiore a cinque anni, del divieto di reingresso, doveva essere ritenuto efficace entro tale minore limite temporale, in coerenza con quanto disposto dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea con sentenza del 28 aprile 2011 e con i principi fissati da questa Corte, alla cui stregua la fattispecie di cui trattasi va disapplicata solo nella parte in cui prevede che il divieto di reingresso sia superiore ad anni cinque . Era infondata, nel giudizio della Corte di appello, la tesi difensiva che - ritenendo che il divieto di reingresso andasse apprezzato alla luce della nuova normativa, introdotta con d.l. n. 89 del 2011, che prevedeva che tale divieto poteva avere una durata compresa tra i tre e i cinque anni dalla espulsione - indicava in tre anni, secondo una interpretazione in senso favorevole, la durata del divieto, poiché il provvedimento del Prefetto, da disapplicare solo nelle parti contrastanti con il diritto comunitario e la nuova normativa, e quindi con riguardo al suo limite massimo, era operante nelle restanti parti. Peraltro, già all’epoca della emissione del decreto di espulsione era consentita per legge una graduazione della durata del divieto, che l’Autorità amministrativa aveva fissato nella misura massima di dieci anni, valutando la condotta complessiva dell’interessato. 2. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione, per mezzo del suo difensore di fiducia avv. Emilio Martino, l’imputato, che ne chiede l’annullamento sulla base di unico motivo con il quale denuncia, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b , c ed e , cod. proc. pen., inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 2 cod. pen., 530, comma 1 e/o 2, cod. proc. pen., 13, commi 13 e 14, d.lgs. n. 286 del 1998, modificato dal d.l. n. 89 del 2011, e illogicità e contraddittorietà della motivazione in ordine alla sua ritenuta responsabilità. Secondo il ricorrente, la Corte, pur ritenendo applicabile nella specie l’attuale formulazione dell’art. 13, comma 13, d.lgs. n. 286 del 1998, è incorsa in evidente errore di diritto, affermando che il decreto prefettizio di espulsione deve essere interpretato nel senso della operatività del divieto di reingresso a suo carico nello Stato italiano per la misura massima consentita dalla legge di cinque anni, poiché la durata può essere stabilita in un periodo compreso fra tre e cinque anni, mentre la precedente normativa ne prevedeva l’operatività per un periodo di dieci anni. In tal modo, la Corte si è illegittimamente sostituita all’Autorità amministrativa interpretando in malam partem le motivazioni del Prefetto al momento della emissione del decreto di espulsione, mentre avrebbe dovuto applicare, ai sensi dell’art. 2, comma quarto, cod. pen., le disposizioni più favorevoli al reo. Considerato in diritto 1. Il ricorso è infondato. 2. Questa Corte ha già chiarito che la condotta di reingresso, senza autorizzazione, nel territorio dello Stato del cittadino extracomunitario, già destinatario di un provvedimento di rimpatrio, ha conservato rilevanza penale pur dopo l’emissione della direttiva 2008/115/CE del Parlamento e del Consiglio dell’Unione Europea del 16 dicembre 2008 e la conseguente pronuncia della Corte di giustizia del 28 aprile 2011 nel caso El Dridi, perché i principi affermati con riguardo alle modalità di rimpatrio non possono assumere rilievo ai fini della valutazione della condotta di reingresso in violazione del divieto, per il quale la indicata direttiva prevede all’art. 11, paragrafo 2, l’unico limite della durata non superiore ai cinque anni tra le altre, Sez. 1, n. 35871 del 25/05/2012, Mejdi, Rv. 253353 Sez. 1, n. 7912 del 04/02/2013, Hidri, n.m. sul punto . Nel precisarsi che, ai fini della integrazione del reato previsto dall’art. 13, comma 13, d.lgs. n. 286 del 1998, n. 286, la condizione del cittadino straniero in precedenza rimpatriato che faccia nuovamente ingresso nel territorio dello Stato, senza la prescritta autorizzazione e prima del termine stabilito nell’ordine di rimpatrio, non può essere equiparata a quella dello straniero che permanga nel territorio dello Stato in violazione dell’ordine di allontanamento Sez. 1, n. 16634 del 26/03/2013, Kajmaku, Rv. 255685 , si è, in particolare rimarcata la conformità all’art. 11, par. 1, comma 1, e par. 2, della suddetta direttiva, in relazione alle definizioni contenute nell’art. 3 della stessa direttiva, del detto reato consistente nel rientro nel territorio dello Stato, senza la speciale autorizzazione del Ministro dell’interno, dello straniero già rimpatriato sulla base di provvedimento della competente autorità corredato di divieto d’ingresso, quando il reingresso avvenga entro il quinquennio dall’allontanamento forzato o dalla partenza volontaria, ancorché sia stata illegittimamente disposta nel provvedimento di rimpatrio una durata del divieto superiore a cinque anni Sez. 1, n. 5878 del 23/10/2013, dep. 2014, Doku, Rv. 259155 . 2.1. Tali principi sono coerenti anche con l’assetto normativo conseguito alle modifiche introdotte dal d.l. n. 241 del 2011, convertito con modificazioni dalla legge n. 129 del 2011, che, recependo la direttiva, ha fissato in un lasso di tempo compreso tra i tre e i cinque anni la durata del divieto di reingresso - di cui all’art. 13, comma 13, d.lgs. n. 286 del 1998, sostanzialmente confermato nella sua precedente formulazione - da determinarsi, secondo il novellato comma 14 dello stesso articolo, tenendo conto di tutte le circostanze pertinenti il singolo caso , mentre, nella versione antecedente alla novella legislativa, il divieto di reingresso operava, alla stregua dello stesso comma 14, per un periodo massimo di dieci anni, riducibile nel decreto di espulsione fino a un termine non inferiore a cinque anni, tenuto conto della complessiva condotta tenuta dallo straniero nel periodo di permanenza in Italia . 2.2. Alla luce degli indicati condivisi principi deve, pertanto, nettamente escludersi che la successiva entrata in vigore della direttiva comunitaria e/o le modifiche legislative sopravvenute abbiano comportato iure superveniente la radicale invalidazione del provvedimento amministrativo di espulsione, colle conseguenze dell’obbligo di disapplicazione da parte del giudice penale e dell’epilogo assolutorio del trasgressore. Infatti il decreto atto complesso, contenente la decisione di rimpatrio dello straniero extracomunitario e la imposizione all’espulso del divieto di reingresso nel territorio dello Stato è stato emesso dalla autorità amministrativa in conformità della legge vigente all’epoca della emissione e ha, quindi, avuto regolare esecuzione. Sicché resta insensibile alle sopravvenute modifiche normative. Mentre lo ius superveniens - senza, peraltro, porsi in rapporto di assoluta inconciliabilità con quello previgente - assume incidenza esclusivamente sugli effetti ancora in essere del provvedimento, cioè, in relazione alla durata del divieto non ancora cessato , la quale deve essere contenuta ex lege entro il limite ordinario stabilito dalla direttiva e, ora, dalla novella che l’ha recepita, così da non superare, fatti salvi i casi particolari previsti, i cinque anni. Si deve, in conclusione, affermare il seguente principio di diritto integra il reato di cui all’art. 13, comma 13, d.lgs. n. 286 del 1998 la condotta dello straniero extracomunitario il quale, espulso col divieto di rientrare nel territorio dello Stato, senza speciale autorizzazione, per la durata di dieci anni, in base alla legge precedente la entrata in vigore dell’art. 11 par. 2 della direttiva 2008/115/CE del Parlamento Europeo e dell’art. 13, comma 14, d.lgs. n. 286 del 1998, come sostituito da ultimo dall’art. 3, comma 1, lett. c , n. 9 , del d.l. 23 giugno 2011, n. 89, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 agosto 2011, n. 129 , trasgredisca facendo rientro in Italia, senza autorizzazione, prima che dalla esecuzione della espulsione sia decorso un periodo di cinque anni, pari al massimo del termine ordinario del divieto di rientro previsto dalla normativa vigente . 3. La Corte di appello - dando conto in fatto, secondo la condivisa lettura delle evidenze disponibili operata dal Tribunale, che l’imputato, imbarcato il 28 maggio 2009 su una motonave diretta in Albania, in esecuzione del provvedimento prefettizio del 26 maggio 2009, era stato controllato dai Carabinieri in data 11 maggio 2013 in omissis , entro cinque anni dal suo allontanamento coattivo - ha evidenziato, esattamente interpretando le norme applicate, alla stregua del principio di diritto testé enunciato, che sussisteva il delitto previsto dalla norma incriminatrice, oggetto di contestazione, per essere l’imputato rientrato in Italia nel quinquennio dalla sua espulsione. Il Giudice a quo ha esattamente rimarcato che in tale minore limite temporale dovevano ritenersi contenuti gli effetti del divieto di reingresso, stabilito alla stregua del provvedimento amministrativo trasgredito in relazione al maggior termine di dieci anni, senza, peraltro, prescindere dal considerare con logiche ed esaustive annotazioni - in risposta alle doglianze difensive, riproposte con il ricorso, afferenti alla graduabilità della durata del divieto, secondo l’attuale normativa, in un periodo compreso tra tre e cinque anni e alla sua interpretabilità in senso favorevole con applicazione del limite temporale minimo - che il provvedimento impositivo del divieto è da ritenere operante in tutte le sue parti ad eccezione della durata massima , riguardo alla quale, che attiene non all’atto ma ai suoi effetti, deve essere disapplicato, riducendosi la durata del divieto a cinque anni, e che, in ogni caso, il riferimento alla durata più breve di tre anni sarebbe in contrasto con il contenuto dell’atto amministrativo, che, in presenza di una normativa che pur consentiva, come già rilevato, una graduazione della durata del divieto, ha applicato il divieto nella misura massima di dieci anni. 4. Il ricorso deve essere, conclusivamente, rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.