Massime di esperienza utili per ricavare la volontà omicidiaria dell’agente

Per integrare l’elemento psicologico del delitto di omicidio tentato è necessario che dall’analisi del comportamento complessivo dell’agente anteriore e successivo al compimento del gesto e degli altri elementi di fatto rilevanti nel caso concreto, sia desumibile con certezza l’intento di cagionare la morte della persona offesa.

L’uso delle massime di esperienza. Nessuna presunzione, dunque, secondo la Corte, per il riconoscimento della sussistenza dell’intento omicidiario. Non può prescindersi, infatti, in tali casi, dall’analisi del fatto e delle sue caratteristiche che, sebbene possano avere un elevato valore sintomatico, devono, comunque, confrontarsi con appropriate massime di esperienza. Il caso. L’imputato veniva condannato per tentato omicidio perché, dopo aver discusso animatamente con la vittima per questioni di restituzioni di denaro dato a mutuo, l’aveva spintonato e, successivamente, sferrando un colpo con un coltello nel tentativo di colpirlo al collo e alla testa, gli aveva procurato una profonda lesione al polso del braccio con cui lo stesso aveva tentato di coprirsi per difendersi. La Corte di appello aveva ritenuto sussistente il dolo diretto del delitto di tentato omicidio per avere il reo sferrato il colpo verso il collo che è parte del corpo priva di protezioni ed una coltellata vibrata in tale direzione ha una elevatissima probabilità di recidere importanti vasi sanguigni, cagionando la morte . Erronea valutazione degli elementi di fatto. Di non poco conto, tuttavia, le censure dell’imputato che criticava la motivazione della sentenza sotto il profilo della ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo. Stando ai motivi di parte, infatti, la Corte di merito non avrebbe tenuto in giusta considerazione una serie di regole di esperienza, necessarie per la corretta analisi della condotta, quali la mancata reiterazione dei colpi, o l’avere, dopo il fatto, chiamato i soccorsi per apprestare cure mediche alla vittima, o, ancora, il breve lasso di tempo intercorso tra l’inizio e la fine dell’azione violenta. Elementi utili per la valutazione giudiziale. La Corte riconosce che tali critiche colgono nel segno . Ed infatti, perché possa riconoscersi la sussistenza dell’elemento psicologico del dolo diretto di omicidio non può prescindersi dall’analisi di comuni regole di esperienza, dalle quali dedurre la volontà dell’agente di uccidere. In conformità a quanto ritenuto dalla giurisprudenza consolidata, in assenza di una confessione resa dall’imputato mancante nel caso di specie , il giudice non può prescindere dalla valutazione delle peculiarità estrinseche dell’azione criminosa , aventi valore sintomatico, come ad esempio il comportamento del reo, sia antecedente che successivo al reato, la natura del mezzo usato, le parti del corpo eventualmente colpite, la reiterazione dei colpi o la tempistica dell’azione, così come tutti quegli ulteriori elementi che possano avere un valore determinante nella valutazione del fatto. La valutazione dei fatti per la determinazione della sussistenza dell’elemento soggettivo. Nel caso di specie, l’elemento soggettivo del reato non può essere dedotto sic et simpliciter dall’utilizzo di un coltello quale quello usato che può, per ipotesi cagionare la morte , o ancora, l’aver diretto il colpo verso il viso o il collo. In assenza, infatti, di un puntuale apprezzamento, da parte del giudice di merito, circa tali regole, la Corte rinvia per un nuovo giudizio. Peraltro, come correttamente rilevato dal ricorrente, anche la tempistica del fatto ha un ruolo non trascurabile. La brevità dell’azione aggressiva dovrebbe essere, infatti, valorizzata, nel senso che l’agente, in quei pochi secondi, non avrebbe assolutamente potuto rappresentarsi la morte della vittima quale conseguenza della propria azione, con la conseguente assenza dell’intento di uccidere. Ma vi è di più. Secondo i giudici, anche la condotta susseguente al fatto, ossia quella di avere prontamente soccorso l’aggredito, unitamente a quella antecedente, avrebbe dovuto essere approfondita. Certezza della sussistenza del dolo diretto. Andando oltre il contenuto della sentenza, peraltro, deve ricordarsi che, essendo assodata l’incompatibilità del delitto tentato con il dolo eventuale, è assolutamente necessario che il giudice, nell’affermazione di responsabilità fondata sulla sussistenza del dolo diretto del tentato omicidio, evidenzi la certezza che l’azione sia diretta, in modo non equivoco, a cagionare la morte della persona offesa. Ciò che, però il giudice può fare, in casi analoghi al caso di specie, è valutare la possibilità della sussistenza del dolo alternativo di procurare lesioni o la morte della persona offesa, entrambi eventi causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria, che, comunque, al momento della realizzazione dell’elemento oggettivo del reato, devono essere entrambi previsti. Tale eventualità non pare essere stata presa in considerazione dalla Corte, giacchè, come visto, i giudici hanno considerato la sommarietà e/o l’assenza di un preciso apprezzamento di determinati elementi indiziari, la cui valutazione avrebbe potuto portare, con tutta probabilità, ad una riqualificazione giuridica del fatto.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 20 gennaio – 16 marzo 2017, n. 12813 Presidente Mazzei – Relatore Vannucci Ritenuto in fatto 1. Con sentenza emessa il 7 aprile 2016 la Corte di appello di Genova ha confermato la sentenza con la quale il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Savona, a definizione di procedimento svoltosi nelle forme del rito abbreviato, aveva, il 9 luglio 2015, condannato P.S. alla pena di tre anni, un mese e dieci giorni di reclusione, con interdizione per tre anni dai pubblici uffici, avendolo riconosciuto responsabile del delitto di tentato omicidio di R.P.L. commesso in omissis . La motivazione fondante tale decisione può essere, per quanto qui interessa, così sintetizzata la ricostruzione dei fatti si fonda sul contenuto delle dichiarazioni della persona offesa e degli accertamenti compiuti dalla polizia giudiziaria R. aveva dichiarato che, nelle prime ore del omissis , egli aveva avuto un diverbio con P. nella circostanza ubriaco che pretendeva la restituzione di danaro asseritamente dato a mutuo che, dopo avere opposto rifiuto, egli era stato spintonato e che, dopo essersi rialzato ed aver tentato di calmare l’interlocutore, P. aveva afferrato un coltello presente su di un tavolo e, con tale oggetto, aveva sferrato un colpo in direzione del suo volto o della sua gola la persona offesa aveva inoltre dichiarato di avere istintivamente alzato il braccio sinistro a protezione del viso e del collo, ricevendo così un colpo di coltello al polso sinistro dal colpo era derivata una profonda lesione da taglio il coltello, appuntito ed affilato, la cui lama era lunga 23 centimetri, era stato, dalla polizia giudiziaria intervenuta poco dopo il fatto, rinvenuto e sequestrato, sporco di sangue, sul tavolo indicato da R. tale oggetto era idoneo a cagionare la morte e la volontà omicida dolo diretto si desumeva dall’avere l’imputato vibrato il colpo di coltello in direzione del collo o del volto della persona offesa in particolare, il collo è parte del corpo priva di protezioni ed una coltellata vibrata in tale direzione ha una elevatissima probabilità di recidere importanti vasi sanguigni, cagionando la morte era irrilevante, in funzione dell’accertamento del dolo caratterizzante il delitto di omicidio tentato, che subito dopo il fatto l’imputato avesse chiesto per telefono l’intervento di personale sanitario per soccorrere la persona da lui ferita. 2. Per la cassazione della sentenza ricorre l’imputato atto sottoscritto dal difensore di fiducia, avvocato Luca Rinaldi deducendo vizi di cui all’art. 606, comma 1, lett. b ed e , cod.proc.pen In particolare, si sostiene che il giudice di appello avrebbe travisato all’evidenza le prove acquisite, avendo affermato, che la lama del coltello era sporca di sangue invero, nel verbale di arresto e nell’annotazione di polizia giudiziaria in copia allegate al ricorso non vi era cenno della presenza di tracce ematiche sulla lama dell’arma da tale travisamento deriverebbe compromissione della coerenza della motivazione la situazione di dubbio in ordine all’oggetto usato non poteva riverberarsi in danno dell’imputato non sarebbe ravvisabile alcuna volontà omicida, dal momento che era stato sferrato un solo colpo dalla ferita al polso, da cui era derivata lesione con prognosi di guarigione di sette giorni, non era dato desumere a quale parte del corpo di R. il colpo di coltello era diretto subito dopo il ferimento l’imputato aveva chiamato per telefono il pronto soccorso e tale fatto doveva essere tenuto presente per verificare la sussistenza della volontà omicida i fatti si erano svolti in pochi secondi, con la conseguenza che il ricorrente, pur avendo voluto colpire R. per cagionargli lesioni, non avrebbe potuto aver presente l’evento morte neppure come conseguenza anche solo eventuale della propria condotta. Considerato in diritto 1. Premesso che, come risulta dalla motivazione della sentenza impugnata, l’imputato P. non ha reso confessione in ordine alla propria volontà di uccidere R. con il colpo di coltello a costui sferrato, la Corte di appello di Genova esplicitamente richiamando i principi di diritto affermati, in tema di dolo nell’omicidio tentato, da Cass. S.U. n. 748 del 12 ottobre 1993, dep. 1994, Cassata, Rv. 195804 ha ritenuto tale azione caratterizzata da dolo diretto, costituito dall’essersi l’autore del fatto rappresentato in maniera altamente probabile l’evento morte della persona offesa quale conseguenza dell’azione da lui compiuta. In particolare, il giudice di merito ha sul punto specifico evidenziato che il coltello utilizzato nell’occasione dall’imputato che lo aveva preso da sopra un tavolo esistente nel locale aveva una lama, affilata ed appuntita, della lunghezza di ventitre centimetri P. era ubriaco e, secondo quanto dichiarato da R. , aveva sferrato con tale coltello un colpo in direzione del collo o del viso di tale persona quest’ultima aveva alzato il braccio sinistro per proteggersi dal colpo di coltello che aveva provocato una profonda lesione da taglio al polso sinistro della vittima la previsione altamente probabile della morte di tale persona come conseguenza del colpo di coltello era dunque desumibile tanto dalla micidialità dell’oggetto utilizzato derivante dalle relative caratteristiche estrinseche , quanto della direzione del colpo verso parti del corpo il viso e il collo sedi di organi vitali in particolare, il collo risulta privo di protezioni ed una coltellata vibrata in tale direzione ha una elevatissima possibilità di recidere importanti vasi sanguigni, cagionando la morte l’avere l’imputato, dopo la commissione del fatto, chiamato per telefono il pronto soccorso ed atteso l’arrivo dell’ambulanza costituiva un post factum scarsamente significativo in riferimento alla necessità di focalizzare l’attenzione esclusivamente sulla fase dell’accoltellamento . 2. Il ricorrente critica tale motivazione per avere la stessa, in funzione della qualificazione dell’azione siccome connotata da dolo diretto svalorizzato la non reiterazione dei colpi, costituente uno degli indici, di maggiore pregnanza, rivelatori della volontà di uccidere con l’uso di armi da taglio ritenuto irrilevante il fatto che, subito dopo il ferimento, esso ricorrente si era attivato affinché fossero garantite cure mediche alla persona offesa non considerato la brevità pochi secondi dell’azione aggressiva con l’uso del coltello, affatto insufficiente per ritenere maturata nella psiche di esso ricorrente la rappresentazione della morte della persona offesa quale conseguenza altamente probabile della sua azione. 3. Tali critiche colgono nel segno. La prova del dolo anche nella modalità definita come dolo alternativo, affatto compatibile con il dolo diretto cfr., fra le molte, Cass. Sez. 1, n. 385 del 19 novembre 1999, dep. 200, Denaro, Rv. 215251 Cass. Sez. 1, n. 27620 del 24 maggio 2007, Mastrovito, Rv. 237022 Cass. Sez. 1, n. 9663 del 3 ottobre 2013, dep. 2014, Nardelli, Rv. 259465 del delitto di omicidio e di tentato omicidio deve essere desunta attraverso un procedimento inferenziale, analogo a quello utilizzabile nel procedimento indiziario da fatti esterni certi, aventi un sicuro valore sintomatico, si inferisce l’esistenza del dolo con l’ausilio di appropriate massime di esperienza. Per stabilire dunque se il colpevole abbia effettivamente voluto la morte del soggetto passivo è necessario affidarsi ad una serie di regole di esperienza, la conformità alle quali - quando non sussistano circostanze di fatto che lascino ragionevolmente supporre che le cose sono andate diversamente da come vanno le umane cose - è sufficiente per dimostrare la volontà di uccidere cfr. Cass. Sez. 1, n. 1172 del 27 novembre 1991, dep. 1992, Terranova, Rv. 189074 . Così, in mancanza di attendibile confessione resa dall’autore del fatto, la prova del dolo omicida è normalmente e prevalentemente affidata alle peculiarità estrinseche dell’azione criminosa, aventi valore sintomatico in base alle comuni regole di esperienza, quali il comportamento antecedente e susseguente al reato, la natura del mezzo usato, le parti del corpo della vittima colpite, la reiterazione dei colpi, nonché tutti quei dati che, secondo l’id quod plerumque accidit, abbiano un valore sintomatico in questo senso, cfr. Cass. Sez. 1, n. 30466 del 7 luglio 2011, Metta e altro, Rv. 251014 in senso sostanzialmente conforme, cfr. Cass. Sez. 1, n. 35006 del 18 aprile 2013, Polisi, Rv. 257208 . Nel caso concreto, il giudice di appello non ha osservato tali regole di giudizio, dal momento che un solo colpo di coltello, avente le caratteristiche sopra descritte, venne dall’imputato sferrato all’indirizzo della persona offesa l’azione si svolse nell’arco di pochi secondi non è chiaro se il solo colpo sia stato sferrato con la punta ovvero con il taglio del coltello non è neppure evidenziata la dinamica del movimento del corpo dell’aggressore nello sferrare il colpo non vi è nessuna descrizione specifica della ferita derivata al polso sinistro di R. nel testo della sentenza si afferma solo che la stessa si sostanziò in profonda lesione da taglio l’indicazione, proveniente dalla persona offesa, della direzione del colpo verso il collo ovvero verso il volto è stata, contraddittoriamente, valorizzata nel senso dell’affermazione secondo cui era il collo della persona offesa il bersaglio del colpo medesimo il volto non presenta i medesimi organi vitali del collo il comportamento di P. subito dopo il ferimento richiesta di soccorso medico per la persona da lui ferita e attesa dell’ambulanza , così come quello immediatamente precedente tale accadimento, avrebbe dovuto essere preso in considerazione in funzione della qualificazione del dolo connotante l’azione dell’imputato. La sentenza impugnata è dunque da annullare con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Genova che dovrà adeguatamente approfondire la disamina dell’elemento psicologico della condotta, oggetto della imputazione del delitto di omicidio tentato, uniformandosi al seguente principio di diritto per integrare l’elemento psicologico del delitto di omicidio tentato è necessario che dalla analisi del comportamento complessivo dell’agente anteriore e successivo al compimento del gesto e degli altri elementi di fatto rilevanti nel caso concreto, sia desumibile con certezza l’intento di cagionare la morte della persona offesa. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Genova.