Non è offensivo oggi dare dell’omosessuale

Azzerate le accuse nei confronti di una persona che in una querela aveva identificato un uomo come omosessuale. Per i giudici il termine non ha più, in questa epoca, un carattere intrinsecamente negativo.

Identificare un soggetto come omosessuale” non rappresenta un’offesa sanzionabile dal codice penale. A sancirlo in modo chiaro i magistrati del ‘Palazzaccio’, che hanno di fatto cancellato le accuse nei confronti di una persona, che in una querela aveva utilizzato il termine omosessuale” per indicare la caratteristica peculiare di un uomo Cassazione, sentenza n. 50659, sezione quinta penale, depositata il 29 novembre . Significato. Ricostruita facilmente e nei dettagli la vicenda. L’uomo sotto accusa rischia una condanna per diffamazione , perché nell’ambito di una querela ha identificato una persona come omosessuale . E per il Giudice di pace l’utilizzo del termine è valutabile come una offesa in piena regola. Ecco spiegata la sanzione pecuniaria adottata a chiusura del primo grado del procedimento penale. A sorpresa, però, la decisione viene completamente ribaltata ora dalla Cassazione. Per i magistrati del ‘Palazzaccio’, difatti, non ci sono i presupposti per parlare di diffamazione . Ciò perché è da escludere che il termine omosessuale” abbia conservato, nel presente contesto storico, un significato intrinsecamente offensivo, come, forse, poteva ritenersi in un passato nemmeno tanto remoto . In sostanza, secondo i giudici a differenza di altri appellativi utilizzati con chiaro intento denigratorio , la parola omosessuale” assume un carattere di per sé neutro, limitandosi ad attribuire una qualità personale al soggetto ed è in tal senso entrata nell’uso comune . Di conseguenza, la mera attribuzione di preferenze omosessuali non può avere un carattere di per sé lesivo della reputazione . E questa visione non cambia neanche se il soggetto identificato come omosessuale” rivendica la propria eterosessualità .

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 18 ottobre – 29 novembre 2016, n. 50659 Presidente Zaza – Relatore Pistorelli Ritenuto in fatto 1. Con la sentenza impugnata il Giudice di Pace di Trieste ha condannato alla sola pena pecuniaria ed ai soli effetti penali C.C.A. per il reato di diffamazione commesso ai danni di C.U., identificandolo nell'ambito di una querela proposta nei confronti di altra persona come omosessuale . 2. Avverso la sentenza ha proposto appello, trasmesso dal Tribunale di Trieste a questa Corte ai sensi dell'art. 568 comma 5 c.p.p., l'imputato a mezzo del proprio difensore deducendo errata applicazione della legge penale e vizi della motivazione in merito alla configurabilità in concreto ed in astratto del reato contestato ed al mancato riconoscimento dell'esimente di cui all'art. 599 c.p. In tal senso, sotto il primo profilo, il ricorrente lamenta come il GdP non abbia valutato il contesto in cui è stato utilizzato il termine imputato, eccependo altresì il mancato riconoscimento della causa di non punibilità di cui all'art. 598 c.p. In relazione all'altro profilo viene invece contestata la stessa natura offensiva del termine omossessuale , sia evocando la perdita di qualsiasi carattere lesivo di tale espressione nell'evoluzione del linguaggio comune, sia evidenziando come il suo intrinseco significato non possa costituire un insulto. Infine il ricorrente eccepisce il difetto dell'elemento soggettivo del reato. 3. Con memoria depositata il 4 ottobre 2016 ha proposto motivi nuovi eccependo il difetto di querela, posto che quella presentata all'udienza del 17 ottobre 2014 dalla persona offesa insieme ad altra documentazione non sarebbe stata acquisita dal Giudice di Pace ed era comunque priva di firma, mentre quella acquisita su iniziativa del pubblico ministero all'udienza del 7 febbraio 2014 era priva di ratifica e del timbro di un ufficio preposto alla ricezione, nonché dell'autentica della sottoscrizione. 4. Con memoria trasmessa il 3 ottobre 2016 la persona offesa ha dedotto l'inammissibilità del ricorso perché versato in fatto, l'insussistenza dell'invocata esimente di cui all'art. 599 c.p.p. sottolineando la propria estraneità alla vertenza in corso tra l'imputato e la moglie, nonché la configurabilità del reato di diffamazione, attesa la potenzialità lesiva dell'integrità e della dignità personale del termine omosessuale dispiegato dal C. e la chiara intenzione denigratoria con il quale lo stesso è stato utilizzato. Considerato in diritto 1. Il ricorso è fondato nei limiti di seguito esposti. 2. Atteso il carattere potenzialmente pregiudiziale dei profili con essi prospettati, devono essere innanzi tutti esaminati i motivi nuovi proposti dal ricorrente, i quali sono peraltro inammissibili in quanto non hanno alcuna attinenza con quelli proposti con il ricorso principale. Deve infatti ribadirsi che i motivi nuovi di impugnazione debbono essere inerenti ai temi specificati nei capi e punti della decisione investiti dall'impugnazione principale già presentata essendo necessaria la sussistenza di una connessione funzionale tra i motivi nuovi e quelli originari ex multis Sez. 1, n. 5182 del 15 gennaio 2013, Vatavu Ionut, Rv. 254485 Sez. 3, n. 14776 del 22 gennaio 2004, Sbragi, Rv. 228525 . Non di meno deve osservarsi come gli stessi siano altresì manifestamente infondati, giacchè dalla documentazione allegata dallo stesso ricorrente rimanendo dunque ininfluente, a questo punto, che tale documentazione, ancorchè prodotta, non fosse stata formalmente acquisita dal Giudice di Pace emerge che la querela venne effettivamente presentata il 20 maggio 2013 presso l'ufficio denunce della Questura di Trieste, il cui personale procedette alla ratifica dell'atto ed all'identificazione della persona offesa querelante che l'aveva proposta, risultando dunque irrilevante che la stessa non l'avesse sottoscritta ex multis Sez. 2, n. 50958 del 03/12/2013 - dep. 17/12/2013, Vergari, Rv. 25997101 . 3. Sono invece fondati i rilievi del ricorrente in ordine alla ritenuta tipicità del fatto imputato ed il loro accoglimento comporta l'assorbimento di tutti gli altri motivi proposti con il ricorso. 3.1 Secondo l'elaborazione tradizionale di questa Corte e della dottrina, oggetto di tutela nel delitto di diffamazione è l'onore in senso oggettivo o esterno e cioè la reputazione del soggetto passivo del reato, da intendersi come il senso della dignità personale in conformità all'opinione del gruppo sociale, secondo il particolare contesto storico così tra le tante Sez. 5, n. 3247 del 28 febbraio 1995, Labertini Padovani ed altro, Rv. 20105401 . In definitiva, secondo quella che viene comunemente identificata come concezione fattuale dell'onore, ciò che viene tutelato attraverso l'incriminazione di cui si tratta è l'opinione sociale del valore della persona offesa dal reato. Come noto, soprattutto in dottrina si è affermata anche una diversa elaborazione del concetto di onore , da intendersi come attributo originario dell'individuo, costituendo esso un valore intrinseco della persona umana in forza della dignità che gli è propria e che non può essere negata dalla comunità sociale. Concezione questa ispirata al principio personalistico che pervade la carta costituzionale e che, superando, la dicotomia tra onore in senso soggettivo ed oggettivo propria della concezione fattuale, tende a ricondurre ad unità l'oggettività giuridica dei delitti previsti dagli artt. 594 e 595 c.p. 3.2 Le due concezioni trovano in ogni caso un punto di contatto nel distinguere la lesione della reputazione da quella dell'identità personale, che, secondo la definizione di autorevole dottrina, corrisponde al diritto dell'individuo alla rappresentazione della propria personalità agli altri senza alterazioni e travisamenti. Interesse che può essere violato anche attraverso rappresentazioni offensive dell'onore, ma che, al di fuori di tale ultimo caso, non ha autonoma rilevanza penale, integrando la sua lesione esclusivamente un illecito civile Sez. 5, n. 849/93 del 6 novembre 1992, Tabucchi, Rv. 19349401 . 3.3 La tipicità della condotta di diffamazione consiste nell'offesa della reputazione. E' dunque necessario, nel caso della comunicazione scritta od orale, che i termini dispiegati od il concetto veicolato attraverso di essi siano oggettivamente idonei a ledere la reputazione del soggetto passivo. 3.3.1 In tal senso, nel caso di specie, è innanzi tutto da escludere che il termine omosessuale utilizzato dall'imputato abbia conservato nel presente contesto storico un significato intrinsecamente offensivo come, forse, poteva ritenersi in un passato nemmeno tanto remoto. A differenza di altri appellativi che veicolano il medesimo concetto con chiaro intento denigratorio secondo i canoni del linguaggio corrente cfr. Sez. 5 n. 24513 del 22 giugno 2006, Merola non massimata , il termine in questione assume infatti un carattere di per sè neutro, limitandosi ad attribuire una qualità personale al soggetto evocato ed è in tal senso entrato nell'uso comune. 3.3.2 E' da escludere altresì che la mera attribuzione della suddetta qualità - attinente alle preferenze sessuali dell'individuo - abbia di per sé un carattere lesivo della reputazione del soggetto passivo e ciò tenendo conto dell'evoluzione della percezione della circostanza da parte della collettività, quale che sia la concezione dell'interesse tutelato che si ritenga di accogliere. 3.3.3 Infine il termine utilizzato non può ritenersi effettivamente offensivo nemmeno se valutato nel contesto in cui è stato concretamente dispiegato, evocativo, secondo la sentenza impugnata e la persona offesa, dell'intento denigratorio dell'imputato. Infatti l'inconferenza, rispetto all'oggetto della denuncia presentata dal C., della precisazione circa il presunto orientamento sessuale del querelante non è di per sé in grado di rendere tipica l'offesa, anche nel caso, come quello di specie, in cui il soggetto passivo rivendica la propria eterosessualità. Circostanza che semmai rivela come la condotta dell'imputato sia al più riconducibile ad una lesione dell'identità personale della persona offesa, che, per le ragioni già illustrate, non è autonomamente rilevante ai fini della configurabilità del reato contestato. 4. Conseguentemente la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.