Quale esito per le statuizioni civili scaturenti dalla condanna nel caso di abrogazione del reato?

Nel caso di declaratoria di non doversi procedere perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato in relazione ad una sentenza di condanna avente ad oggetto un reato successivamente abrogato e qualificato come illecito civile ai sensi del d.lgs. n. 7/2016, il giudice dell’impugnazione deve revocare anche i capi della sentenza concernenti gli interessi civili, con conseguente caducazione delle statuizioni civilistiche per effetto dell’abrogazione del reato oggetto del procedimento.

Così si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 50056/16 depositata il 24 novembre. Il caso. Il Tribunale Monocratico di Palermo condannava l’imputato alla pena ritenuta di giustizia per il reato di ricettazione di cui all’art. 648, comma 2, c.p. la Corte d’appello di Palermo, in parziale riforma della statuizione di prime cure, riqualificava giuridicamente la fattispecie oggetto di originaria imputazione in quella ex art. 485 c.p., ovvero falsità in scrittura privata. Avverso la decisione della Corte di merito l’imputato ricorreva per cassazione, deducendo violazione di legge e vizio motivazionale della sentenza. La Suprema Corte, in via del tutto preliminare, annullava senza rinvio la sentenza poiché il fatto non è previsto dalla legge come reato, in quanto il legislatore, con il d.lgs. n. 7/2016 ha abrogato il reato de quo . Il contrasto giurisprudenziale sulla fine delle statuizioni civili nel caso di abrogazione del reato. Secondo un primo orientamento di legittimità, la revoca della sentenza di condanna per abolitio criminis ai sensi dell’art. 2, comma 2, c.p. non comporta il venir meno della natura di illecito civile del medesimo fatto, con la conseguenza che la sentenza non deve essere revocata relativamente alle statuizioni civili derivanti dal reato, le quali continuano a costituire fonte di obbligazioni efficaci nei confronti della parte danneggiata. Tuttavia, altro e contrapposto indirizzo della Corte Regolatrice sosteneva, invece, come tali principi trovassero necessariamente un limite applicativo nel precipuo caso in cui la suddetta abolitio criminis fosse intervenuta prima del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, in quanto nel giudizio di impugnazione, venendo meno la possibilità di una pronunzia definitiva di condanna agli effetti penali perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, viene meno anche il primo presupposto dell’obbligazione per cui è concesso l’esercizio dell’azione civile nel processo penale, con la conseguenza che nel giudizio di legittimità dovrebbero essere revocate le statuizioni civili adottate in sede di merito. I chiarimenti della giurisprudenza costituzionale. La Corte Costituzionale ha più volte chiarito come l’inserimento dell’azione civile nel processo penale pone in essere una situazione in linea di principio differente rispetto a quella determinata dall’esercizio dell’azione civile nel processo civile, in quanto tale azione assume carattere accessorio e subordinato rispetto all’azione penale, sicché è destinata a subire tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e dalla struttura del processo penale, cioè alle esigenze, di interesse pubblico, connesse all’accertamento dei reati e alla rapida definizione dei processi. Inoltre, statuisce ancora il Giudice delle Leggi, è assolutamente legittima la scelta di non mantenere la competenza del giudice penale a pronunciare sulle pretese civilistiche anche quando l’affermazione della responsabilità non abbia luogo, giacché tale esito è ben noto al danneggiato nel momento in cui sceglie se esercitare l’azione di danno nella sede sua propria, o inserirla nel processo penale. Donde, l’impossibilità di ottenere una decisione sulla domanda risarcitoria laddove il processo penale si concluda con una sentenza di proscioglimento per qualunque causa costituisce uno degli elementi dei quali il danneggiato deve tenere conto nel quadro della valutazione comparativa dei vantaggi e degli svantaggi delle due alternative che gli sono offerte. L’intervento delle Sezioni Unite. La Quinta Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione ha avuto modo, nel caso di specie, attraverso la disamina del ricorso presentato dall’imputato, di riprendere e riaffermare il recente principio di diritto statuito dalle Sezioni Unite del Supremo Consesso, sulla cui scorta il giudice dell’impugnazione deve necessariamente revocare anche i capi della sentenza concernenti gli interessi civili nel caso di declaratoria di non doversi procedere perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato in relazione ad una sentenza di condanna avente ad oggetto un reato successivamente abrogato e qualificato come illecito civile ai sensi del d.lgs. 15 gennaio 2016 n. 7.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 12 ottobre – 24 novembre 2016, n. 50056 Presidente Sabeone – Relatore Catena Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del impugnata la Corte di Appello di Palermo in parziale riforma della sentenza emessa in data 22/01/2014 dal Tribunale di Palermo in composizione monocratica, con cui il D.R. era stato condannato a pena di giustizia, oltre che al risarcimento dei danni nei confronti della costituita parte civile, in relazione ai reati di cui agli artt. 648, comma 2, cod. pen., riqualificava la fattispecie ascritta al ricorrente ai sensi dell’articolo 485 cod. pen., rideterminando la pena. 2. Con ricorso depositato il 17/11/2015 D.R. , a mezzo del difensore di fiducia Avv.to Gaetano Vito Vivona, ricorre per violazione di legge e vizio di motivazione, ex articolo 606 lett. b ed e , cod. proc. pen., rilevando come la fattispecie concreta integri un’ipotesi di falso innocuo, con conseguente ricorrenza di un caso di reato impossibile ai sensi dell’articolo 49 cod. pen Considerato in diritto 1. La sentenza impugnata va annullata senza rinvio, in quanto con il decreto n. 7/2016 è stata disposta, all’articolo 1, lett. a e b, l’abrogazione dei delitti codicistici di falsità in scrittura privata, di cui all’articolo 485, e di falsità di foglio firmato in bianco, di cui all’articolo 486. Nel caso in esame, inoltre, la problematica relativa all’incidenza sulle statuizioni civili scaturenti dalla sentenza di condanna pronunciata in entrambi i gradi di merito risulta, a seguito di contrasto insorto nella giurisprudenza di questa Corte, risolto dalle Sezioni Unite che, con sentenza n. 28051 del 29/09/2016, hanno dato soluzione affermativa al quesito circa la necessità, per il giudice dell’impugnazione, di revocare anche i capi della sentenza concernenti gli interessi civili, in caso di declaratoria di non doversi procedere perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, in relazione a sentenza di condanna avente ad oggetto un reato successivamente abrogato e qualificato come illecito civile, ai sensi del d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7. La questione, come noto, era stata posta in considerazione del fatto che la revoca della sentenza di condanna per abolitio criminis ai sensi dell’articolo 2, comma secondo, cod. pen., non comporta il venir meno della natura di illecito civile del medesimo fatto, con la conseguenza che la sentenza non deve essere revocata relativamente alle statuizioni civili derivanti da reato, le quali continuano a costituire fonte di obbligazioni efficaci nei confronti della parte danneggiata. Ed infatti la Corte Costituzionale, con ordinanza n. 273 del 2002 aveva affermato che la formula assolutoria adottata a seguito della sopravvenuta abrogazione della norma incriminatrice non è fra quelle alle quali l’articolo 652 cod. proc. pen. attribuisce efficacia nel giudizio civile sulla scia di detta pronuncia si è poi posta la giurisprudenza di legittimità Sez. 5, sentenza n. 4266 del 20/12/2005, Colacito, Rv. 233598 Sez. 5, sentenza n. 28701 del 24/05/2005, P.G. in proc. Romiti ed altri, Rv. 231866 Sez. 6, sentenza n. 2521 del 21/01/1992, Dalla Bona, Rv. 190006 . A fondamento dell’illustrato principio si era osservato che l’abrogazione della norma penale in presenza di una condanna irrevocabile comporta la revoca della sentenza da parte del giudice dell’esecuzione limitatamente ai capi penali e non anche a quelli civili, la cui esecuzione ha comunque luogo secondo le norme del codice di procedura civile sicché se vi è stata costituzione di parte civile, con conseguente condanna al risarcimento dei danni a carico dell’imputato o del responsabile civile, questa statuizione resta ferma. Infatti, se l’articolo 2 cod. pen. disciplina espressamente la sola cessazione dell’esecuzione e degli effetti penali della condanna, ne deriva, attraverso un’argomentazione a contrario, che le obbligazioni civili derivanti dal reato abrogato non cessano, in quanto per il diritto del danneggiato al risarcimento dei danni trovano applicazione i principi generali sulla successione delle leggi stabiliti dall’articolo 11 preleggi, piuttosto che quelli contenuti nel citato articolo 2 cod. pen Tuttavia, si era rilevato da parte di un orientamento di questa Corte,condiviso dal Collegio, che detti principi trovassero un limite applicativo nei casi in cui l’ abolitio criminis sia intervenuta prima del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, in ragione del combinato disposto degli artt. 185 cod. pen., 74 e 538 cod. proc. pen., considerato che nel giudizio di impugnazione, venendo meno la possibilità di una pronunzia definitiva di condanna agli effetti penali perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, viene meno anche il primo presupposto dell’obbligazione restitutoria o risarcitoria per cui è concesso l’esercizio nel processo penale dell’azione civile, con la conseguenza che, nel giudizio di legittimità, dovrebbero essere revocate le statuizioni civili adottate in quelli di merito. Dette conclusioni non apparivano contraddette dal fatto che al giudice dell’appello e a quello di legittimità sia attribuito il potere di decidere l’impugnazione ai soli fini civili in caso di estinzione del reato per amnistia o prescrizione, come previsto dagli artt. 576 e 578 cod. proc. pen., trattandosi di norme che costituiscono una vera e propria eccezione alla regola, per cui la carenza di analoga previsione anche per il caso dell’ abrogatio cum abolitio sembra confermare proprio il principio generale secondo cui in tal caso viene meno anche il primo presupposto dell’obbligazione restitutoria o risarcitoria per cui è concesso l’esercizio nel processo penale dell’azione civile, con la conseguenza che al giudice di legittimità non è consentito esaminare il ricorso ai limitati fini di una loro eventuale conferma. Sotto altro aspetto dette conclusioni si ritenevano rafforzate dalla circostanza che il citato d.lgs. n. 7/2016 non si sia limitato all’abolizione di alcuni titoli di reato, ma - in esecuzione di quanto imposto dalla legge delega - abbia contestualmente provveduto a creare l’inedita figura sanzionatoria delle sanzioni pecuniarie civili cui ha contestualmente assoggettato una serie di fatti specificamente tipizzati e che corrispondono a quelli già previsti dalle norme incriminatrici abrogate. L’irrogazione delle suddette sanzioni consegue, ai sensi dell’articolo 8 del decreto, all’accoglimento della domanda risarcitoria proposta da colui che è stato danneggiato dalle condotte tipizzate dal precedente articolo 4 e dunque è inevitabilmente subordinata all’iniziativa di quest’ultima, ma, soprattutto, è evidente che il fatto illecito punito con la sanzione è il medesimo che genera l’obbligazione risarcitoria peraltro non più ai sensi dell’articolo 2043 c.c. bensì delle speciali disposizioni di nuovo conio , salva la precisazione - contenuta nell’articolo 3 - che la reazione punitiva è ammessa esclusivamente nell’ipotesi in cui l’autore abbia commesso le condotte tipizzate con dolo. I proventi delle menzionate sanzioni non sono però destinate al danneggiato, ma è invece previsto dall’articolo 10 del decreto che vengano devoluto alla Cassa della Ammende. Ad un primo approccio era apparsa evidente la problematica connessa all’inquadramento di detta innovativa tipologia sanzionatoria, soprattutto considerato che la destinazione dei proventi delle sanzioni ne accentua il carattere esclusivamente afflittivo e la venatura pubblicistica. Tuttavia ai fini che in questa sede rilevano specificamente, era apparso necessario considerare comparativamente la disciplina transitoria contenuta rispettivamente nell’articolo 12 del d.lgs. n. 7/2016 e nell’articolo 8 del d.lgs. n. 8/2016. Ed infatti, al di là del tratto comune - costituito dall’applicabilità tanto delle sanzioni amministrative relative agli illeciti depenalizzati, quanto di quelle pecuniarie civili, anche ai fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore dei due decreti, salvo che non sia già intervenuta una pronunzia definitiva, caso nel quale in entrambi i testi normativi è prevista la revoca a cura del giudice dell’esecuzione attraverso la procedura semplificata di cui al quarto comma dell’articolo 667 cod. proc. pen. - ciò che era apparso rilevante è la circostanza che mentre l’articolo 9 del d.lgs. n. 8/2016 contiene ulteriori disposizioni transitorie al fine di disciplinare, nell’ipotesi che la depenalizzazione sia sopravvenuta nel corso del procedimento penale, la trasmissione degli atti all’autorità amministrativa competente per l’irrogazione delle sanzioni amministrative e la sorte delle statuizioni civili già adottate - prevedendo che se l’azione penale è stata esercitata, il giudice pronuncia, ai sensi dell’articolo 129 del codice di procedura penale, sentenza inappellabile perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, disponendo la trasmissione degli atti a norma del comma 1. Quando è stata pronunciata sentenza di condanna, il giudice dell’impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è previsto dalla legge come reato, decide sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili - evocando una modalità procedimentale analoga a quella di cui all’articolo 578 cod. proc. pen., detta disposizione non è stata riprodotta anche nel d.lgs. n. 7/2016. Si era, quindi, ritenuto che il significato di tale scelta non potesse che essere interpretato alla luce del canone dell’ ubi voluit dixit , apparendo del tutto non sostenibile la tesi opposta di una lacuna involontaria da parte del legislatore delegato, attesa la contestualità nell’adozione dei testi normativi. Né, infine, le dette conclusioni erano apparse in contrasto con i principi di cui agli artt. 3, 24 e 111 Cost., atteso che la Corte Costituzionale ha ripetutamente sottolineato come l’inserimento dell’azione civile nel processo penale pone in essere una situazione in linea di principio differente rispetto a quella determinata dall’esercizio dell’azione civile nel processo civile . e ciò in quanto tale azione assume carattere accessorio e subordinato rispetto all’azione penale, sicché è destinata a subire tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e dalla struttura del processo penale, cioè dalle esigenze, di interesse pubblico, connesse all’accertamento dei reati e alla rapida definizione dei processi sentenza n. 353 del 1994 in senso analogo, sentenze n. 217 del 2009 e n. 443 del 1990 ordinanze n. 424 del 1998 e n. 185 del 1994 . Ne derivava, quindi, che nelle diverse soluzioni adottate dal legislatore delegato non poteva scorgersi alcun profilo di irrazionalità, stante la preminenza delle predette esigenze rispetto a quelle collegate alla risoluzione delle liti civili ordinanza n. 115 del 1992 e considerato che si discute di condizionamenti giustificati dal fatto che oggetto dell’azione penale è l’accertamento della responsabilità dell’imputato sentenza n. 532 del 1995 . Di conseguenza, una volta che il danneggiato, previa valutazione comparativa dei vantaggi e degli svantaggi insiti nella opzione concessagli , scelga di esercitare l’azione civile nel processo penale, anziché nella sede propria, non è dato sfuggire agli effetti che da tale inserimento conseguono , nei termini dianzi evidenziati sentenza n. 94 del 1996, ordinanza n. 424 del 1998 . D’altra parte è reiterato, nella giurisprudenza costituzionale, il rilievo per cui l’assetto generale del nuovo processo penale è ispirato all’idea della separazione dei giudizi, penale e civile , essendo prevalente, nel disegno del codice, l’esigenza di speditezza e di sollecita definizione del processo penale, rispetto all’interesse dei soggetto danneggiato di esperire la propria azione nel processo medesimo sentenza n. 168 del 2006 in senso analogo, sentenza n. 23 del 2015 . In questa cornice, l’eventuale impossibilità, per il danneggiato, di partecipare al processo penale non era stato considerato come incidente in modo apprezzabile sul suo diritto di difesa e, prima ancora, sul suo diritto di agire in giudizio, poiché resta intatta la possibilità di esercitare l’azione di risarcimento del danno nella sede civile, di modo che ogni separazione dell’azione civile dall’ambito del processo penale non può essere considerata una menomazione o una esclusione del diritto alla tutela giurisdizionale, giacché la configurazione di quest’ultima, in vista delle esigenze proprie del processo penale, è affidata al legislatore sentenze n. 168 del 2006, n. 433 del 1997 e n. 192 del 1991 ordinanza n. 124 del 1999 . Sulla scorta di tali consolidate affermazioni di principio, si era ricordato anche come il giudice delle leggi avesse ribadito Corte Cost. n. 12 del 2016 la legittimità della scelta di non mantenere la competenza del giudice penale a pronunciare sulle pretese civilistiche anche quando l’affermazione della responsabilità non abbia luogo, giacché tale esito è ben noto al danneggiato nel momento in cui sceglie se esercitare l’azione di danno nella sede sua propria, o inserirla nel processo penale scelta che il vigente sistema processuale gli consente senza limitazioni di sorta e, in particolare, senza la remora legata alla sospensione obbligatoria del processo civile in pendenza del processo penale sul medesimo fatto, già stabilita dal codice di procedura penale abrogato. Secondo la Corte, pertanto, l’impossibilità di ottenere una decisione sulla domanda risarcitoria laddove il processo penale si concluda con una sentenza di proscioglimento per qualunque causa salvo che nei limitati casi previsti dall’articolo 578 cod. proc. pen. costituisce, dunque, uno degli elementi dei quali il danneggiato deve tener conto nel quadro della valutazione comparativa dei vantaggi e degli svantaggi delle due alternative che gli sono offerte . Si era, quindi, conclusivamente ritenuto che l’assenza di una disposizione transitoria analoga a quella indicata dall’articolo 9, comma 3, del decreto legislativo n. 8 del 2016 dovesse far propendere per la soluzione secondo cui costituisce onere della parte offesa quello di promuovere eventuale azione davanti al giudice civile, competente anche per l’irrogazione delle sanzioni pecuniarie civili la parallela regola individuata per la depenalizzazione pertanto, dovesse essere ritenuta un’eccezione, nominativamente prevista, come nel caso dell’articolo 578 cod. proc. pen., alla disciplina generale di cui all’articolo 538 cod. proc. pen., secondo cui il giudice penale decide anche sulla responsabilità civile solo quando pronuncia sentenza di condanna, e come tale non suscettibile di applicazione analogica. Sotto altro profilo, era stato, infine, considerato che l’articolo 12, comma 1 del d.lgs. n. 7 prevede il potere - dovere del giudice di applicare le cd. sanzioni pecuniarie civili ai fatti commessi anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto, con la conseguenza che l’applicazione analogica dell’articolo 9, comma 3, del d.lgs. n. 8 del 2016 anche nei procedimenti aventi ad oggetto reati abrogati dal d.lgs. n. 7, imporrebbe alla Corte di Cassazione, quale giudice dell’impugnazione, di compiere valutazioni di merito, alla stregua dei criteri di cui all’articolo 5 del d.lgs. n. 7, ovvero di provvedere alla irrogazione delle sanzioni pecuniarie il che, evidentemente, non appariva affatto in linea con la struttura del giudizio di legittimità. Ne derivava, conclusivamente, che la soluzione da adottare, considerato il silenzio del legislatore, apparisse quella della generale caducazione delle statuizioni civilistiche per effetto dell’abrogazione del reato oggetto del procedimento. Come risulta dalla motivazione delle Sezioni Unite, le argomentazioni espresse risultano confermate, essendo stata ribadita la regola generale del collegamento in via esclusiva della decisione sulla domanda della parte civile alla formale condanna dell’imputato, come espressamente richiesta dall’articolo 538 cod. proc. pen., in base alla lettura di detta norma in combinato con quelle di cui agli artt. 74 del codice di rito e 185 del codice penale. Ne consegue l’annullamento della sentenza impugnata senza rinvio, ai sensi dell’articolo 620, lett. a , cod. proc. pen., perché il fatto di cui all’articolo 485 cod. pen. non è più previsto dalla legge come reato, con revoca delle relative statuizioni civili. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.