Atti negoziali pregiudiziali per l’impresa e responsabilità penale dell’imprenditore

In tema di reati fallimentari, la condotta sanzionata dal reato di bancarotta non è quella di avere cagionato lo stato di insolvenza o di avere provocato il fallimento della società, bensì quella di avere depauperato l'impresa, consistente nella destinazione delle risorse ad impieghi estranei alla dinamica imprenditoriale, con la conseguenza che non è necessario che la rappresentazione e la volontà dell'agente investano il fallimento o il dissesto aziendale, essendo sufficiente che si riferiscano alla sua diminuzione patrimoniale.

Con la pronuncia della quinta sezione del 18 ottobre 2016, n. 44103, la Corte di Cassazione definisce la fattispecie del reato di bancarotta, evidenziandone le peculiarità rispetto all’ipotesi di cattiva gestione dell’impresa. Il caso. La vicenda decisa della Cassazione, che conferma in larga parte le decisioni dei giudici di merito, concerne la responsabilità degli amministratori della SSCN relativamente ad una serie di attività negoziali. In particolare, è stato contestato ai due presidenti che sono succeduti nell’incarico, di aver sottoscritto una serie di contratti e, soprattutto, di aver dato seguito ad un preliminare a condizioni diverse e maggiori rispetto a quelle originariamente pattuite, per l’acquisto di un centro sportivo, poi dato in locazione alla SSCN. I giudici, al riguardo, non hanno ravvisato in tali condotte alcuna utilità per la SSCN ed anzi un pregiudizio al patrimonio della stessa, con le rilevanti conseguenti penali addebitate agli amministratori. La responsabilità dell’amministratore la business judgment rule. Secondo quanto pacificamente riconosciuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza, all'amministratore di una società non può essere imputato a titolo di responsabilità – civile o penale - di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico in quanto una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può pertanto eventualmente rilevare come giusta causa di revoca dell'amministratore ma non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società. Di conseguenza, il giudizio sulla diligenza dell'amministratore nell'adempimento del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione o le modalità e le circostanze di tali scelte, anche se presentino profili di rilevante alea economica, ma solo la diligenza mostrata nell'apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all'operazione da intraprendere, come l'eventuale omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità. Bancarotta e responsabilità dal civile al penale. Diverso all’ipotesi di cui sopra è invece il caso del reato di bancarotta, dove al fallimento dell’impresa si aggiungono altre condotte rilevanti dell’imprenditore. La configurabilità del delitto di bancarotta semplice non richiede, nei suoi presupposti oggettivi, la impossibilità di ricostruzione del patrimonio sociale né, trattandosi di reato di pericolo che punisce anche le irregolarità formali, assume rilievo idoneo ad escludere la penale responsabilità dell'imprenditore, la circostanza che le scritture siano tenute in modo sostanzialmente completo. Il delitto in parola, invero, consiste nel mero inadempimento di un precetto formale il comportamento imposto all'imprenditore dall'art. 2214 c.c. , integrando un reato di mera condotta, che si realizza anche qualora in concreto non si verifichi danno per i creditori. La fattispecie di bancarotta fraudolenta per dissipazione, inoltre, si distingue da quella di bancarotta semplice per consumazione del patrimonio in operazioni aleatorie o imprudenti, sotto il profilo oggettivo, per l'incoerenza, nella prospettiva delle esigenze dell'impresa, delle operazioni poste in essere e, sotto il profilo soggettivo, per la consapevolezza dell'autore della condotta di diminuire il patrimonio della stessa per scopi del tutto estranei alla medesima Bancarotta fraudolenta e bancarotta preferenziale come e perché. Ulteriori condotte dell’imprenditore sono necessarie ai fini della configurabilità dei reati di bancarotta preferenziale e bancarotta preferenziale. Nel caso di bancarotta preferenziale, l'elemento soggettivo del reato è costituito dal dolo specifico, consistente nella volontà di recare un vantaggio al creditore soddisfatto, con l'accettazione della eventualità di un danno per gli altri secondo lo schema del dolo eventuale ne consegue che tale finalità non è ravvisabile allorché il pagamento sia volto, in via esclusiva o prevalente, alla salvaguardia della attività sociale o imprenditoriale ed il risultato di evitare il fallimento possa ritenersi più che ragionevolmente perseguibile. L'ipotesi di bancarotta fraudolenta per dissipazione, invece, si differenzia dalla fattispecie della consumazione di una notevole parte del patrimonio dell'imprenditore per effetto di operazioni manifestamente imprudenti, punita a titolo di bancarotta semplice, sia sul piano soggettivo, in quanto esige la coscienza e la volontà dell'agente di diminuire detto patrimonio per scopi del tutto estranei all'impresa, sia sul piano oggettivo, in quanto l'operazione fraudolenta è priva del pur minimo profilo di coerenza con le esigenze dell'impresa stessa. Contratti e pregiudizio per l’impresa. La liberta dell’attività di impresa dell’imprenditore trova dei limiti relativamente alla tutela del patrimonio dell’impresa stessa. Secondo la giurisprudenza, infatti, integra il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale la stipula, pena la direzione di fallimento, di atti negoziali - come la cessione o la locazione di rami aziendali - il cui contenuto economico si presenti assolutamente pregiudizievole per l'impresa, sicché possa ritenersi che la conclusione di tali negozi fosse finalizzata a depauperare il patrimonio dell'azienda. Nel caso di specie, come appurato nei precedenti gradi di giudizio, le operazioni compiute dagli imputati erano finalizzate ad addebitare, nei confronti della società SSCN poi fallita, importi di gran lunga superiori a quelli preventivati per l’acquisto di un centro sportivo, senza che la circostanza fosse giustificata da una maggiore o diversa utilità per l’impresa stessa. Gestione pregressa e risanamento dei debiti. Nell'ipotesi, infine, a conferma della limitata valenza penale della semplice situazione debitoria della società – se non contestuale a determinate condotte dell’imprenditore - in cui una società attui nel tempo una radicale trasformazione dell'attività imprenditoriale, previo risanamento della situazione contabile della fase antecedente e la totale soddisfazione dei creditori connessi a tale fase, sì che lo stato di decozione possa concretamente ricondursi agli esiti negativi dell'attività successivamente esercitata, appare in contrasto con i principi fondamentali del nostro sistema penale attribuire carattere di illiceità ad atti di disposizione posti in essere in epoca remota.

Corte di Cassazione, sez. V penale, sentenza 27 giugno – 18 ottobre 2016, n. 44103 Presidente Bruno – Relatore Pistorelli Fatto e diritto 1. Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Napoli ha confermato la condanna di F.C. e C.G. per i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e di cagionamento del fallimento per effetto di operazioni dolose commessi nelle loro rispettive qualità di amministratore delegato e di presidente del consiglio di amministrazione della omissis , dichiarata fallita nel corso del . L’imputazione cui si riferisce la condanna riguarda plurimi fatti lesivi dell’integrità patrimoniale della fallita commessi attraverso le operazioni ad oggetto il centro sportivo e funzionale dove peraltro aveva la sua sede , nonché il complesso immobiliare sito in località omissis nel quale era prevista la costruzione di un ulteriore centro sportivo. Nel primo caso viene contestato che, dopo due mesi dall’acquisto da parte di del complesso sportivo che la fallita aveva già in uso essendo stato acquisito in locazione finanziaria da , società del gruppo F. , lo stesso veniva rivenduto con patto di riscatto a omissis società invece riconducibile al C. , la quale lo prometteva in locazione alla stessa . Successivamente all’assunzione da parte dei due imputati della guida formale della fallita, rinunziava al patto di riscatto e, nello stipulare il contratto definitivo di locazione, accettava condizioni ritenute più onerose di quelle originariamente pattuite in ordine alla durata del rapporto, all’entità del canone e agli oneri accessori e contestualmente veniva redatta scrittura privata contenente la promessa da parte di omissis di cedere alla fallita il contratto di locazione finanziaria comprensivo del diritto di riscatto del complesso immobiliare che la società del C. in realtà concluse solo alcune settimane dopo nella forma del sale and lease back , con cessione dunque del bene alle società erogatrici. Quanto all’operazione relativa al centro omissis , oggetto di contestazione è la decisione di procedere all’acquisto definitivo del bene - che già era stato dato in locazione alla fallita - da che ne era la proprietaria, nonostante si fossero avverate le condizioni risolutive previste nel preliminare stipulato alcuni anni prima e sulla venditrice gravasse istanza di fallimento presentata da una delle banche creditrici, nonché la mancata realizzazione delle opere per cui era stata rilasciata concessione edilizia nei termini fissati dalla stessa, con conseguente depauperamento del valore del bene. 2. Avverso la sentenza ricorrono entrambi gli imputati a mezzo dei rispettivi difensori. 2.1 D ricorso proposto nell’interesse del F. articola tre motivi. 2.1.1 Con il primo vengono dedotti errata applicazione della legge penale e vizi della motivazione in merito alla ritenuta configurabilità del reato contestato in relazione alla vicenda del Centro . In proposito il ricorrente lamenta che la Corte territoriale, nel ricostruire l’operazione relativa al suddetto bene, avrebbe illogicamente trascurato come la sua cessione alla società del C. avesse generato una cospicua plusvalenza rispetto al prezzo d’acquisto del medesimo, plusvalenza peraltro in larga parte monetizzata già prima del momento in cui la prese in locazione il centro dall’acquirente e rilevò dallo stesso il contratto di sale and leaseback da questi nel frattempo stipulato con due finanziarie. Parimenti i giudici del merito avrebbero illogicamente ed immotivatamente svalutato la genesi del dissesto della fallita, da attribuirsi alla rilevante decurtazione dei diritti televisivi conseguita alla retrocessione della squadra del nella serie cadetta nel , nonché l’impossibilità per la fallita di accedere direttamente al credito bancario per garantirsi l’operatività finanziaria gravemente compromessa dal suddetto evento in forza dei limiti posti in tal senso dalla l. n. 91/1981 e delle conseguenze previste per la loro violazione. In definitiva il giudice dell’appello, ad avviso del ricorrente, avrebbe errato nel ricostruire come dissipativa un’operazione invece legittima e necessaria per finanziare la fallita, consentendole di proseguire la propria attività. 2.1.2 Analoghi vizi vengono dedotti con il secondo motivo in relazione all’acquisto del centro sportivo di omissis . In particolare viene contestata la tenuta logica e giuridica della sentenza impugnata nella misura in cui la stessa rimprovera all’imputato una mera scelta imprenditoriale per sua natura discrezionale. In tal senso il ricorrente osserva come gli stessi giudici dell’appello abbiano ammesso che la fungeva da cerniera finanziaria della fallita e ciononostante abbiano svalutato il rischio della fallita - qualora non avesse onorato il preliminare di vendita consentendo alla venditrice di finanziarsi - di vedere escussa la fideiussione prestata in favore della menzionata società per i debiti della stessa assunti con il sistema bancario. Né le circostanze addotte in motivazione a fondamento dell’asserita natura dissipatoria della scelta operata avrebbero imposto - come invece ritenuto dalla Corte territoriale - di soprassedere all’acquisto, atteso che solo una delle banche creditrici di aveva proposto istanza per il suo fallimento, cosicché l’esito concorsuale non poteva ritenersi certo, con il conseguente ulteriore rischio di dare vita ad un contenzioso con la cedente a causa del mancato rispetto del suddetto preliminare. Non di meno i giudici dell’appello non avrebbero tenuto conto del rilevante valore del bene acquistato, entrato a far parte della garanzia patrimoniale dei creditori della fallita, e, per l’appunto, del rischio di una pesante erosione di tale garanzia a seguito della prevedibile escussione della citata fideiussione. La motivazione della sentenza sarebbe poi apodittica in merito alla ritenuta perdita di valore del bene in conseguenza della scadenza della concessione edilizia, atteso che nel preliminare non era stato precisato a chi competesse realizzare le opere previste e che la stipula del contratto definitivo doveva intervenire in un termine sufficiente alla loro realizzazione. Spettava dunque alla Corte territoriale l’onere di dimostrare che il ritardo nella conclusione della vendita fosse addebitabile alla fallita piuttosto che alla ovvero, come più probabile, alla necessità di reperire attraverso la cessione del Centro le risorse finanziarie per l’acquisto di quello di omissis . Invero, secondo il ricorrente, ciò che i giudici del merito avrebbero ignorato o illogicamente svalutato è l’evidente connessione tra le due operazioni, sufficiente ad escludere alcun intento dissipativo, giacché la vendita del Centro e il successivo acquisto del contratto di leasing ad oggetto il medesimo ha conservato la possibilità di riscattare il bene e di reperire i mezzi per evitare invece la perdita dell’immobile di omissis . Sul punto il ricorso lamenta infine l’omessa considerazione da parte dei giudici del merito delle valutazioni compiute nella perizia giurata dell’ing. Cr. , anche sulla base di quelle compiute dall’ing. Ca. e nella consulenza L. in merito alla mancata perdita di valore del bene a seguito della scadenza della concessione edilizia, fondandosi le conclusioni rassegnate in sentenza esclusivamente sul parere del perito Z. , formulate a ben cinque anni dai fatti al contrario di quelle effettuate dai citati Cr. e Ca. in epoca prossima agli stessi. 2.1.3 Con il terzo motivo il ricorrente lamenta ancora errata applicazione della legge penale e difetto di motivazione in merito al titolo di imputazione del reato al F. , rilevando come la sua responsabilità sia stata affermata in relazione ad una contestazione elevata in riferimento all’art. 40 cpv. c.p., senza che la sentenza abbia chiarito quale sarebbe al fonte dell’obbligo giuridico presuntivamente violato, posto che oggetto di contestazione sarebbero mere scelte gestionali di natura discrezionali, al più rimproverabili esclusivamente ai sensi dell’art. 2634 c.c., costituendo invece una violazione del principio di correlazione l’intervenuta condanna per una condotta attiva di dissipazione. Non di meno, con riferimento all’elemento psicologico del reato, la sentenza avrebbe trascurato le valutazioni del curatore sulla sostanziale mera inadeguatezza della gestione, nonché il fatto che l’azione di responsabilità intentata nei confronti degli amministratori è stata rigettata in entrambi i gradi di merito. 2.2 Il ricorso proposto nell’interesse del C. articola otto motivi. 2.2.1 Con il primo articolato motivo vengono dedotti errata applicazione della legge penale e vizi della motivazione in merito alla sussistenza del reato di bancarotta dissipativa in relazione all’operazione di cui al capo 1 sub A. Sotto un primo profilo il ricorrente rileva come la sentenza abbia accomunato nella valutazione di dannosità per la fallita sia i negozi dell’aprile del 2000, che quelli stipulati il successivo settembre, giungendo alla conclusione che omissis sarebbe stata immotivatamente interposta, traendone vantaggio, nell’operazione tesa al finanziamento di . In proposito il ricorso eccepisce innanzi tutto come all’epoca delle prime pattuizioni il C. non rivestisse ancora la qualifica formale integrante il titolo soggettivo di imputazione del reato avendo assunto la carica di presidente del CdA della fallita solo nel luglio del , mentre mai gli sia stata contestata quella di concorrente extraneus nello stesso. In secondo luogo viene contestata la tenuta logica della valutazione compiuta dalla Corte territoriale in merito alla natura dell’operazione alla luce delle risultanze processuali, le quali dimostrerebbero come la mobilizzazione del bene fosse all’epoca l’unica soluzione praticabile per garantire alla fallita la liquidità necessaria per affrontare la stagione sportiva ed evitare il sostanziale azzeramento del valore del parco giocatori, attesa l’impossibilità di ricorrere al mercato del credito e i vincoli posti dalla l. n. 91/1981, nonché le conseguenze, non solo di natura sportiva, previste per il loro mancato rispetto. Né la successiva stipula da parte della citata omissis del contratto di sale and lease back può, secondo il ricorrente, essere logicamente interpretata alla stregua di una interposizione, atteso che la società era a tutti gli effetti divenuta proprietaria del centro . Illogica, in quanto fondata su una valutazione parziale ed erronea dei dati fattuali, sarebbe altresì la valutazione sulla ontologica identità tra i negozi stipulati ad aprile e quelli del successivo settembre, la cui comparazione rivela invece l’intrinseca diversità della loro natura, trovando giustificazione la differente onerosità per le casse della fallita nella circostanza che nel secondo caso i canoni dovuti erano quelli relativi alla locazione finanziaria. Maggior onere peraltro controbilanciato dalla più concreta ed agevole possibilità di riscattare il bene rispetto a quella offerta dalla clausola inserita nell’originario contratto di vendita dello stesso a omissis . Sotto diverso profilo il ricorso lamenta inoltre il difetto di motivazione in ordine alla natura effettivamente dissipatoria dell’operazione, la quale può essere ritenuta solo a seguito di una valutazione che tenga conto del settore di attività della fallita, delle finalità perseguite attraverso il negozio che si assume integrare l’illecito contestato rimanendo irrilevante la sua eventuale eccentricità rispetto all’oggetto sociale , nonché della sua idoneità - secondo una valutazione condotta ex ante e non ex post - a soddisfare le esigenze economiche della società. 2.2.2 Analoghi vizi vengono dedotti con il secondo motivo di ricorso con riguardo alla ritenuta rilevanza penale dell’operazioni omissis . In larga parte il ricorrente ripropone le medesime doglianze e argomentazioni svolte con il secondo motivo del ricorso del F. , alla cui illustrazione è dunque sufficiente rinviare. Va comunque evidenziato come la difesa del C. in maniera ancor più accentuata critichi quello che individua come il fondamento della conclusione cui è pervenuta la Corte territoriale, sottolineando come questo si risolva nell’indebita valutazione del merito della scelta imprenditoriale di onorare il preliminare stipulato con piuttosto che rischiare l’escussione della fideiussione prestata in favore della medesima. Non di meno la sentenza impugnata risulterebbe apodittica nella misura in cui, nel comparare le due opzioni, non avrebbe spiegato perché la prima sarebbe stata preferibile. Ancora il ragionamento dei giudici del merito è, per il ricorrente, viziato nella sua premessa per cui avrebbe potuto non dare corso alla stipulazione del definitivo nel timore del possibile fallimento della controparte, atteso che nel caso di specie verrebbe in conto non già il disposto dell’art. 1461 c.c. come contestato nell’imputazione e ritenuto in sentenza , bensì quello dell’art. 1481 c.c., che al più avrebbe consentito la mera sospensione dell’obbligazione, facoltà di cui in realtà, a mente del secondo comma dell’articolo da ultimo citato, la fallita nemmeno avrebbe potuto avvalersi. Ed invero, anche ritenendo applicabile nel caso di specie la prima delle disposizioni menzionate, i giudici del merito non avrebbero tenuto conto dell’insussistenza delle condizioni individuate dalla giurisprudenza per la sua effettiva operatività. Quanto poi alla concretezza del rischio di fallimento di , la sentenza avrebbe trascurato di considerare come l’istanza in tal senso proposta da una delle banche finanziatrici della società sia stata successivamente respinta dal Tribunale di Napoli nel novembre del 2000, evento che, rimuovendo il pericolo di escussione della fideiussione, dimostrerebbe la validità della scelta di consentire alla stessa di avere le risorse per rientrare dall’esposizione bancaria. Né l’iniziativa di un sola delle banche creditrici avrebbe realizzato la condizione risolutiva del preliminare, come ritenuto dalla Corte territoriale, la quale in proposito avrebbe omesso di valutare le risultanze documentali di segno contrario evidenziate con il gravame di merito. Il ricorrente eccepisce poi che, in realtà, oggetto dell’addebito di cui al capo 1 sub B fosse esclusivamente l’aver lasciato scadere la concessione edilizia, provocando una svalutazione del bene, ma non già la conclusione dell’acquisto del medesimo. 2.2.3 Con il terzo motivo vengono denunciati errata applicazione della legge penale e vizi della motivazione con riguardo alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato contestato, difettando nel caso di specie la coscienza e volontà dell’imputato di agire in spregio alle ragioni dei creditori attesa la giustificazione economica delle operazioni contestate. Gli stessi vizi, nonché quello di violazione di legge, vengono dedotti con il quarto motivo in ordine all’affermato concorso materiale tra il delitto di bancarotta patrimoniale e quello di cui all’art. 223 comma 2 n. 2 legge fall., reato quest’ultimo invece assorbito nel primo e in relazione alla cui configurabilità in concreto in ogni caso la sentenza avrebbe omesso di motivare. Conseguentemente con il quinto motivo viene eccepita l’insussistenza dell’aggravante della pluralità dei fatti di bancarotta, ritenuta dai giudici del merito proprio in ragione dell’affermato concorso materiale tra i due reati menzionati in precedenza. 2.2.4 Con il sesto motivo viene eccepita violazione di legge in merito al rigetto della richiesta ex art. 603 c.p.p. ad oggetto l’acquisizione della sentenza con la quale il Tribunale di Napoli ha deciso in ordine all’azione di responsabilità degli amministratori della fallita rigetto motivato dal difetto delle condizioni per l’applicazione dell’art. 238 c.p.p., mentre la menzionata sentenza poteva essere acquisita come documento ai sensi dell’art. 234 c.p.p. Con il settimo motivo il ricorrente lamenta invece errata applicazione della legge penale e vizi della motivazione in ordine alla denegata concessione delle attenuanti generiche, mentre con l’ottavo denuncia violazione di legge e vizi di motivazione in merito al motivo aggiunto d’appello con il quale la difesa aveva eccepito la nullità della sentenza di primo grado per la mancata sottoscrizione della stessa da parte del Presidente del collegio, non essendo ragione idonea a giustificare l’omissione la collocazione a riposo dello stesso. 3. L’8 giugno 2016 la difesa del C. ha depositato motivi nuovi, producendo in realtà una serie di documenti estratti dagli atti processuali a supporto dei rilievi svolti con l’impugnazione principale. Considerato in diritto 1. I ricorsi sono fondati nei limiti di seguito esposti. 2. Pregiudiziale è l’esame di alcune eccezioni processuali dedotte dai ricorrenti. 2.1 Inammissibile è innanzi tutto quella di cui all’ottavo motivo del ricorso del C. . Deve infatti rilevarsi come la stessa sia stata sollevata per la prima volta con i motivi aggiunti d’appello e quindi intempestivamente, atteso che quella prospettata con la suddetta eccezione è una nullità relativa e non assoluta Sez. Un., n. 14978/13 del 20 dicembre 2012, R.D., Rv. 254671 . Irrilevante è dunque la motivazione con la quale il giudice dell’appello ha rigettato la suddetta eccezione, che in realtà non avrebbe dovuto nemmeno prendere in considerazione. Motivazione che comunque deve ritenersi corretta, dovendosi ribadire che costituisce impedimento del presidente del collegio, che consente la sottoscrizione della sentenza da parte del componente anziano, il collocamento a riposo dello stesso, il quale causa la cessazione dell’appartenenza all’ordine giudiziario Sez. 6, n. 3920 del 14 gennaio 2009, Franzè, Rv. 242529 . 2.2 Inammissibile sotto diversi profili è anche l’eccezione relativa alla violazione del principio di correlazione sollevata con il terzo motivo del ricorso del F. . Innanzi tutto dal testo dell’atto di impugnazione non è nemmeno dato comprendere se il ricorrente abbia voluto effettivamente sollevare la suddetta eccezione, introdotta attraverso l’ambigua formula e ciò a prescindere dall’eventuale nullità della sentenza per violazione dell’art. 521 c.p.p. , che, tra l’altro, non trova riscontro nell’intestazione del motivo, dove non viene evocato il vizio di violazione di legge ex art. 606 lett. c c.p.p. Non di meno va rilevato che si tratta di eccezione manifestamente infondata. Ed infatti dalla formulazione del capo d’imputazione sub 1 , per quanto riguarda la posizione del F. , inequivocabilmente emerge che a quest’ultimo è stata contestata una condotta commissiva consistita nella deliberazione ed attuazione degli atti gestionali considerati dissipativi del patrimonio della fallita. Altrettanto inequivocabilmente risulta che l’evocazione dell’art. 40 c.p. e della condotta di mancato impedimento, pure descritta nell’imputazione, è riferita esclusivamente alla posizione del coimputato T. peraltro assolto già in primo grado , coinvolto nell’accusa nella sua qualità di presidente del collegio sindacale di . In tal senso alcuna distonia sussiste tra il fatto contestato all’imputato e quello ritenuto in sentenza, in riferimento al quale peraltro egli ha effettivamente svolto le proprie difese nei gradi di merito. Infine va ribadito, in sintonia con il consolidato insegnamento di questa Corte, come l’eventuale condanna dell’amministratore di una società per una condotta commissiva a fronte di un originario addebito omissivo o viceversa nell’ambito della contestazione di un fatto di bancarotta patrimoniale rimasto immutato nei suoi tratti essenziali non costituisce una violazione del principio di correlazione Sez. 5, n. 39329 del 20 settembre 2007, Gili, Rv. 238210 Sez. 5, n. 25432 del 11 aprile 2012, De Mitri e altri, Rv. 252991 . 2.3 Manifestamente infondata è l’analoga eccezione svolta con il secondo motivo del ricorso del C. p. 31 dell’atto d’impugnazione . Anche in questo caso è invero dubbia la stessa volontà del ricorrente di formalizzarla effettivamente non avendola anche in questo caso menzionata nell’intestazione del motivo . Non di meno il rilievo del ricorrente per cui l’oggetto della contestazione nel capo 1 sub B sarebbe esclusivamente la perdita di valore del complesso della omissis per la mancata realizzazione delle opere autorizzate nei termini fissati dalla concessione edilizia è manifestamente infondato. Dalla semplice lettura dello stesso capo d’imputazione si ricava, infatti, in maniera inequivocabile come sia stato contestato ai ricorrenti a titolo di dissipazione anche il mero fatto di aver proceduto all’acquisto definitivo del bene pur non sussistendone l’obbligo, come agevolmente si ricava, tra l’altro, dalla circostanza che la parte della contestazione relativa al mancato sfruttamento della concessione edilizia è introdotta dalla formula senza inoltre provvedere . 2.4 Inammissibile è altresì il sesto motivo del ricorso del C. , che si fonda su presupposti manifestamente infondati. La Corte territoriale ha giustamente respinto l’istanza di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale ad oggetto l’acquisizione di una sentenza civile, per di più non definitiva. 2.4.1 In proposito va infatti ricordato come questa Corte abbia ripetutamente affermato che l’acquisibilità delle sentenze divenute irrevocabili ai fini della prova dei fatti in esse accertati ai sensi dell’art. 238-bis c.p.p. riguarda esclusivamente le sentenze pronunziate in altro procedimento penale e non anche quelle pronunziate in un procedimento civile, attese le evidenti e sostanziali asimmetrie in ordine alla valutazione della prova che caratterizzano i due diversi ordinamenti processuali ex multis Sez. 5, n. 14042 del 4 marzo 2013, Simona ed altri, Rv. 254981 . 2.4.2 Se dunque nemmeno la sentenza civile definitiva può essere acquisita ed utilizzata nel procedimento penale a fini della prova dei fatti in essa valutati e ricostruiti a meno che, ovviamente, oggetto di prova non sia per qualche ragione la sua stessa esistenza o le vicende processuali in essa rappresentate , men che meno può esserlo quella non definitiva, conseguendone la piena legittimità del rigetto dell’istanza ex art. 603 c.p.p. avanzata dalla difesa dell’imputato nel giudizio d’appello, in quanto per l’appunto mirata all’acquisizione di un atto privo di vocazione probatoria nel processo penale in merito ai fatti in essa rappresentati. 2.4.3 Destituita di qualsiasi fondamento è poi la tesi sostenuta dal ricorrente per cui la sentenza emessa nel giudizio ex art. 2409 c.c. avrebbe potuto essere acquisita ex art. 234 c.p.p., costituendo in ogni caso un documento ai sensi della disposizione da ultima citata. Ed infatti tale disposizione deve essere necessariamente letta in coordinamento sistematico con quelle di cui agli artt. 236, 238 e 238-bis c.p.p., attraverso cui il legislatore ha chiaramente voluto dettare una disciplina autonoma e speciale per i verbali di prove assunte nel corso di un processo e per le sentenze, che pure formalmente rientrano nel concetto di documento così come delineato nell’art. 234, che non può dunque essere invocato per aggirare i limiti di acquisizione dei suddetti atti fissati dalla norme citate nello stesso senso, perfino con riferimento alla sentenza penale non definitiva emessa in altro procedimento v. Sez. Un., n. 33748 del 12 luglio 2005, Mannino, Rv. 231677 . 3. Venendo alle altre censure avanzate dai ricorrenti, infondate e per certi versi inammissibili devono ritenersi quelle proposte con il primo motivo del ricorso del F. . 3.1 Manifestamente infondata è innanzi tutto l’obiezione per cui i giudici del merito, nel concludere per la penale rilevanza dell’operazione finanziaria ad oggetto il centro , non avrebbero tenuto conto della plusvalenza generata dalla vendita alla omissis del bene ad un prezzo superiore a quello per cui lo stesso era stato solo due mesi prima acquistato dalla società di leasing che ne era proprietaria. La sentenza non solo ha registrato il dato, ma ha evidenziato come il depauperamento della garanzia patrimoniale di cui l’imputato deve ritenersi responsabile risieda per l’appunto nel fatto che, attraverso gli ulteriori sviluppi dell’operazione, la fallita ha finito per assumere oneri complessivamente superiori al valore della suddetta plusvalenza, raggiungendo un risultato pratico l’utilizzabilità del bene per gli scopi sociali che era già stato acquisito di fatto ab origine - addirittura cioè da quando lo stesso era stato concesso in locazione finanziaria alla facente capo al F. - e comunque era stato nuovamente conseguito a condizioni più favorevoli al momento della cessione a omissis del centro attraverso la contestuale stipulazione del primo contratto di locazione con la società del C. . Concentrare il senso della menzionata operazione sul primo segmento, al fine di valorizzarne il significato economico di segno positivo, è dunque logicamente scorretto e, soprattutto, non in linea con le risultanze processuali esposte, che ne evidenziano l’ispirazione unitaria, peraltro contraddittoriamente rivendicata dallo stesso ricorrente. 3.2 La manifesta infondatezza della doglianza, infatti, emerge proprio dalle ulteriori obiezioni svolte con il motivo in esame, attraverso cui si lamenta come la Corte territoriale non avrebbe colto l’effettiva essenza dell’intera operazione per l’appunto unitariamente considerata e cioè utilizzare il bene - pur mantenendone la costante disponibilità al servizio della società - per procurarsi quella liquidità necessaria a consentire alla fallita il prosieguo dell’attività sportiva in un frangente in cui la sua situazione non le consentiva l’accesso diretto al credito bancario. 3.3 Tale censura si fonda innanzi tutto sull’assunto per cui le disposizioni della I. n. 91/1981 avrebbero precluso per l’appunto a l’accesso a canali di finanziamento, per così dire, più diretti. Ipotesi che in realtà poggia su presupposti giuridici errati e non solo o non tanto per le ragioni rilevate in sentenza. Ed infatti la questione non è tanto se, come ricordato dai giudici dell’appello, l’eventuale negazione da parte degli organi federali dell’approvazione prevista dal secondo comma dell’art. 12 della legge menzionata non avrebbe compromesso la validità di eventuali contratti di mutuo stipulati con le banche, quanto, piuttosto, che lo stesso assoggettamento degli atti di gestione delle società professionistiche all’approvazione preventiva dell’autorità sportiva è stato abolito dal d.l. n. 495/1996 conv. con l. 586/1996 , il quale ha invece configurato un più generico potere di verifica successiva da parte di quest’ultima sull’equilibrio finanziario delle suddette società ed abrogato proprio il menzionato secondo comma dell’articolo citato. 3.4 Pertanto nel 2000 epoca in cui sono state compiute le operazioni incriminate poteva rivolgersi al mercato del credito senza necessità di ottenere preventive autorizzazioni di sorta. Prova ne sia che essa, nel contesto della medesima operazione, come si è ricordato e come opportunamente sottolineato dalla sentenza impugnata obiezione con la quale peraltro il ricorrente non si è confrontato , ha provveduto a vendere a omissis il centro senza che tale cessione risulti essere stata approvata dagli organi sportivi né il ricorrente ha sostenuto il contrario , mentre l’abrogato secondo comma del citato art. 12 prevedeva, per l’appunto, un vincolo di tal genere anche per gli atti alienazione degli immobili delle società assoggettate all’ordinamento sportivo. È sì vero che l’autorità sportiva conservava, in caso di esito non positivo della menzionata verifica sull’equilibrio finanziario della società, il potere di adottare i provvedimenti previsti dai regolamenti federali, ma va da sé che la soluzione nell’immediato della crisi di liquidità, asseritamente in grado di pregiudicare l’iscrizione al campionato, attraverso l’assunzione di pesanti oneri in grado di appesantire la situazione finanziaria di è operazione contraddittoria e che in realtà rivela esclusivamente l’intenzione di ritardare l’ineluttabile sorte della società, riducendo la residua garanzia patrimoniale del ceto creditorio. Infatti eccepire il timore che gli organi sportivi avrebbero contestato l’accesso al mercato del credito, significa sostanzialmente ammettere l’incapacità di di rispettare i parametri federali in ragione di una situazione di virtuale decozione nella quale si è scelto di aggravare consapevolmente lo squilibrio finanziario della società incidendo negativamente sulla sua consistenza patrimoniale in assenza di effettive prospettive. Né può per l’appunto rappresentare una giustificazione dell’operato degli imputati il fatto che alla società fosse di fatto precluso l’accesso ordinario al credito bancario, proprio perché tale preclusione era conseguenza di una non più sostenibile situazione debitoria. Non solo, il ricorrente è altresì contraddittorio laddove giustifica l’urgenza del reperimento di liquidità con la necessità di fronteggiare le spese dell’imminente campionato, ma al contempo, successivamente, evidenzia come l’operazione sarebbe stata il mezzo necessario per acquisire la finanza necessaria ad effettuare l’operazione omissis , rivelando la pretestuosità ed evanescenza dell’argomentazione. 3.5 Generiche e comunque inconferenti sono poi le censure relative alle cause del dissesto della fallita, individuate dal ricorrente nella drastica diminuzione dei diritti televisivi conseguita alla retrocessione della squadra all’esito del campionato 1997/98. In proposito deve osservarsi come sul punto la Corte territoriale abbia specificamente confutato il rilievo - già sollevato con il gravame di merito - con motivazione con la quale il ricorso sostanzialmente non si confronta, tralasciando di spiegare inoltre le ragioni della rilevanza della circostanza, posto che le cause del dissesto non interferiscono con la configurabilità del reato contestato. Incidentalmente va osservato peraltro come all’epoca dei fatti imputati, come notorio, il Napoli fosse già risalito in serie A e come potesse dunque nuovamente attingere nella sua pienezza alla menzionata fonte di finanziamento o per aver già incassato i proventi relativi ai suddetti diritti o per aver acquisito un credito certo sul loro futuro versamento, credito agevolmente spendibile sul mercato bancario. 4. Infondate o inammissibili si rivelano anche le censure proposte in merito all’operazione con il primo motivo del ricorso del C. . Alcune peraltro, attesa la loro sostanziale sovrapponibilità a quelle prospettate dal F. , sono già state confutate nel paragrafo precedente, cui pertanto si rinvia. 4.1 Venendo a quelle residue, invece, è infondata innanzi tutto la doglianza per cui la sentenza avrebbe indebitamente collegato i negozi posti in essere prima dell’avvento degli imputati alla guida della società e quelli stipulati nel corso della loro gestione. Ed infatti i giudici del merito hanno valutato quella di omissis come una mera interposizione sulla base della sequenza temporale dei contratti stipulati nel settembre del 2000 e dell’assenza di effettivi vincoli per ad accedere al mercato del credito. Tale sviluppo argomentativo appare tutt’altro che manifestamente illogico atteso che non solo la società del C. è stata proprietaria del complesso sportivo per meno di tre mesi, ma soprattutto è prontamente rientrata della spesa lucrando un guadagno attraverso il sale and lease back ed il trasferimento alla fallita dei relativi oneri. La sentenza ha inteso invece evocare i contratti stipulati nei mesi precedenti al solo fine di evidenziare la svantaggiosità di quelli negoziati in settembre e la sostanziale artificiosità del tortuoso percorso seguito per raggiungere obiettivi invero già raggiunti o perseguibili in maniera meno onerosa. Ma non v’è dubbio che la Corte territoriale abbia ritenuto integrato l’illecito contestato esclusivamente attraverso gli atti compiuti quando il C. già aveva assunto cariche sociali in , essendogli rimproverato proprio il cambio di strategia operato una volta assunta la guida della società e cioè trasformando la omissis da terminale attivo dell’operazione di finanziamento della fallita mediante la mobilizzazione dell’ asset in mero intermediario a pagamento nella stessa. Irrilevanti di conseguenza sono le ulteriore obiezioni del ricorrente sull’estraneità dell’imputato al ceto gestorio in epoca antecedente al luglio del 2000 ed all’omessa contestazione al medesimo, a titolo di concorso esterno, della consumazione degli atti posti in essere in quel periodo. 4.2 Per il resto i rilievi del ricorrente risultano sostanzialmente inammissibili perché incompatibili con l’oggetto del giudizio di legittimità, nella misura in cui i medesimi si risolvono nella prospettazione di una lettura alternativa e soggettivamente orientata del compendio probatorio tesa a sollecitare a questa Corte una indebita rivalutazione nel merito dello stesso. Come si è già evidenziato, infatti, l’interpretazione dei fatti accertati è stata sostenuta dai giudici del merito con motivazione non manifestamente illogica e coerente alle risultanze processuali, né il ricorrente ha saputo evidenziare effettivi vizi nello sviluppo del ragionamento probatorio, limitandosi a rilanciare la tesi dell’ineluttabilità delle scelte operate dagli imputati e della sostanziale giustificazione economica dell’operazione, rivelando in tal modo anche un profilo di genericità del motivo di ricorso, atteso che lo stesso non si confronta effettivamente con la specifica confutazione che la suddetta tesi ha trovato nella sentenza. 4.3 Va infatti ribadito che oggetto della contestazione non è l’operazione di mobilizzazione del bene a fine di finanziamento della società - che per le ragioni già esposte era comunque discutibile sul piano gestionale nella situazione data - quanto il fatto che, a fronte di condizioni già acquisite e meno onerose, queste, una volta che gli imputati hanno assunto la guida diretta di , il contratto di locazione sia stato rinegoziato in termini largamente meno favorevoli per quest’ultima senza una giustificazione economica razionale. Né tale giustificazione può rinvenirsi - come obiettato dai ricorrenti - nell’esigenza determinata dagli oneri derivanti dal sale and lease back stipulato da omissis . Innanzi tutto, come opportunamente sottolineato dalla sentenza e non contestato nei ricorsi, la già menzionata sequenza temporale dimostra che la rinegoziazione della locazione del centro ha preceduto e non seguito la conclusione del leasing. In secondo luogo la possibilità che - che di fatto se ne è sobbarcata i costi - ne acquisisse i vantaggi primo fra tutti il diritto di riscatto del bene è rimasto solo eventuale essendo oggetto di una mera promessa di cessione di tale contratto da parte della società del C. , rimanendo dunque evidente il carattere sfavorevole per la fallita delle nuove pattuizioni. 4.4 La difesa del C. ha poi contestato la natura effettivamente dissipatoria dei negozi posti in essere dagli imputati. In realtà i giudici del merito, coerentemente alle risultanze processuali ed al loro significato, nonché in maniera adeguatamente motivata, hanno ritenuto la tipicità ai sensi dell’art. 216 comma 1 n. 1 legge fall. del fatto di cui al capo 1 sub A , qualificandolo come una ipotesi di fraudolento e ingiustificato depauperamento del patrimonio societario. In tal senso hanno rinvenuto nella condotta accertata sia i geni della dissipazione, che quelli della distrazione, facendo alternativamente riferimento ad entrambe le fattispecie v. ad esempio p. 40 della sentenza , pur evidenziando una implicita preferenza per lo schema dissipatorio. Posto dunque che entrambe le condotte tipiche sono state oggetto di contestazione nel capo d’imputazione e che dunque i ricorrenti hanno avuto modo di difendersi sul punto, nonché tenuto conto della loro equivalenza ai fini della configurabilità del reato di bancarotta patrimoniale - la cui essenza è costituita per l’appunto dall’illecita depressione della garanzia patrimoniale dell’imprenditore - le censure del ricorrente non appaiono fondate nella misura in cui la Corte territoriale ha evidenziato, come già sottolineato, l’estraneità alla logica economica d’impresa non già della mobilizzazione del bene, bensì della sostituzione dello schema con cui originariamente ciò era stato effettuato con altro meno favorevole per la fallita. Ed in tal senso i giudici del merito hanno altresì messo in luce le ragioni per cui hanno ritenuto integrato il dolo tipico del reato, rivelandosi generica ed assertiva l’obiezione svolta nel terzo motivo del ricorso del C. circa la sua rappresentazione di non agire in spregio degli interessi dei creditori della fallita. 5. Fondate sono invece le doglianze avanzate con entrambi i ricorsi - che per la loro sostanziale sovrapponibilità possono essere trattate in maniera unitaria - in merito alla sussistenza dell’altro episodio di bancarotta patrimoniale contestato al capo 1, ma sub B . In questo caso la sentenza non ha saputo evidenziare l’insussistenza di una ragione economica idonea a giustificare l’operazione incriminata. 5.1 Oltre a quanto già messo in luce nei paragrafi precedenti, va infatti ribadito il consolidato insegnamento giurisprudenziale e dottrinario per cui, ai fini della configurabilità del delitto di bancarotta patrimoniale, è necessario che la condotta addebitata sia in grado di determinare quantomeno il pericolo di una effettiva diminuzione della garanzia patrimoniale che non trovi una sua giustificazione in una scelta gestionale compatibile con la logica d’impresa. I confini del sindacato sulla gestione dell’impresa sono dunque determinati dall’oggetto della tutela l’interesse dei creditori alla conservazione della garanzia , ma soprattutto dalle stesse modalità di aggressione selezionate per l’incriminazione distrazione, dissipazione, dissipazione e occultamento ed individuate attraverso il ricorso ad una terminologia immediatamente evocativa del disvalore intrinseco del fatto tipizzato e che altrettanto immediatamente rivela come oggetto di rimprovero non siano le scelte imprenditoriali dannose in sé eventualmente rilevanti, in determinati casi, ai sensi dell’art. 217 legge fall. , bensì e per l’appunto quelle che si risolvono in una ingiustificata e volontaria sottrazione dei beni dell’impresa alla loro naturale funzione di garanzia delle passività della medesima. 5.2 Sulla scorta di tali principi deve ritenersi erronea la qualificazione dei fatti contestati al capo 1 sub B ai sensi della norma incriminatrice contestata. 5.2.1 In entrambe le sentenze di merito, si dà atto di come l’esposizione della venditrice del complesso immobiliare omissis la più volte citata verso il sistema bancario fosse garantita in misura assai rilevante da una fideiussione prestata dalla fallita in epoca antecedente a quella in cui gli imputati ne hanno assunto formalmente la guida sulla cui genesi nulla riferiscono le sentenze medesime, talché deve ritenersi che il tema sia rimasto estraneo al presente procedimento . Dalle stesse sentenze emerge parimenti che il prezzo fissato per l’acquisto del bene fosse sostanzialmente coerente al suo valore di mercato. 5.2.2 Oggetto di rimprovero ai due imputati, secondo l’impostazione accusatoria accolta anche dalla Corte territoriale, è invece ed innanzi tutto la scelta di aver dato seguito al preliminare con cui nel 1998 si era impegnata ad acquistare il bene nonostante non potesse più ritenersi giuridicamente obbligata ad onorare il negozio essendosi avverata la condizione risolutiva pattuita in ragione della sopravvenuta proposizione da parte di una delle banche creditrici di istanza di fallimento di . 5.2.3 I giudici del merito e, di conseguenza, i ricorrenti si sono diffusamente impegnati nell’argomentare attorno all’effettivo realizzazione della menzionata condizione, in questo, val la pena sottolinearlo, fuorviati dall’impostazione in tal senso impressa dalla pubblica accusa alla contestazione. Ma in realtà che fosse o meno tenuta ad onorare il preliminare di compravendita è questione affatto irrilevante - risultando dunque parimenti irrilevante stabilire quale fosse esattamente il fatto dedotto in condizione o se lo stesso si fosse effettivamente avverato o, ancora, se nel caso di specie dovesse trovare applicazione la disciplina di cui all’art. 1461 c.c. piuttosto che quella dell’art. 1481 dello stesso codice - giacché, anche qualora dovesse ammettersi che la fallita avrebbe potuto legittimamente sottrarsi alla stipulazione del contratto definitivo, ciò ancora non è sufficiente per attribuire valore dissipatorio o distrattivo alla decisione di concluderlo. Infatti, come chiarito in precedenza, è necessario accertare altresì se la scelta imprenditoriale trovi o meno una giustificazione economica ed abbia effettivamente messo a repentaglio la conservazione della garanzia patrimoniale della fallita. 5.2.4 Va osservato in proposito come la Corte territoriale analogamente al giudice di primo grado abbia riconosciuto che la decisione di dare seguito al preliminare sarebbe stata determinata dall’esigenza di fornire a liquidità immediata al fine di sottrarla all’insolvenza e, soprattutto, che sulla stessa abbia influito il timore dell’eventuale escussione della fideiussione di cui la fallita si era caricata, ma ha al contempo ritenuto che sarebbe stato più conveniente evitare l’esborso immediato pur nel rischio di un esborso di pari valore all’esito dell’escussione della fideiussione in ragione della certezza della perdita subita concludendo il contratto rispetto alla mera eventualità della suddetta escussione. Affermazione questa che denuncia l’errore, sia logico che giuridico, in cui sono incorsi i giudici dell’appello. Sotto il primo profilo va infatti evidenziato che alla conclusione del contratto definitivo di vendita è sì conseguito l’esborso del prezzo pattuito, ma altresì l’acquisizione del bene al patrimonio della fallita. È dunque innanzi tutto scorretto definire una perdita il risultato netto dell’operazione censurata, che in realtà è risolta nella mera immobilizzazione di risorse liquide in un bene la cui funzionalità all’oggetto sociale della fallita gli stessi giudici non hanno invero negato. In tal senso non si vuol escludere che la trasformazione di asset patrimoniali possa assumere i crismi della tipicità della bancarotta fraudolenta, ma perché ciò possa essere ritenuto è necessario che l’operazione non avvenga nel rispetto dei valori di mercato ovvero che la stessa sia funzionale a rendere più difficoltosa la futura liquidazione del patrimonio ad esempio perché il bene su cui si è investito è di realizzo problematico . Condizioni che nel caso di specie non si sono verificate, atteso che entrambe le sentenze di merito hanno ritenuto congruo ed anzi inferiore il prezzo pagato da rispetto al suo valore di mercato, nonché in ragione della natura del bene, terreni a vocazione edificatoria e sui quali non si era ancora sostanzialmente edificato. Non può dunque sostenersi che il patrimonio della fallita abbia subito una effettiva diminuzione, come invece richiesto ai fini della configurabilità del reato, il che porta ad evidenziare il secondo errore di cui si è fatta menzione. Infatti la qualificazione del fatto come effettivamente tipico si fonda su una valutazione di mera opportunità del negozio, invero eccentrica rispetto al contenuto della fattispecie contestata. La scelta di fronteggiare il rischio di escussione della fideiussione - peraltro tutt’altro che remoto secondo lo stesso ragionamento della Corte, che ha sottolineato il pericolo di insolvenza della venditrice già raggiunta da una istanza di fallimento - attraverso un’operazione che assicurasse nuova finanza al debitore garantito mantenendo sostanzialmente invariata la consistenza del patrimonio della fallita può certo essere criticata o perfino ritenuta incauta sotto il profilo imprenditoriale, ma non solo per questo integra il reato contestato, dovendosene escludere la natura dissipatoria, attesa la funzionalità agli scopi dell’impresa Sez. 5, n. 47040 del 19/10/2011, Presutti, Rv. 251218 Sez. 5, n. 38835 del 23/10/2002, Galluccio, Rv. 225398 Sez. 5, n. 12874 del 07/03/1989, Bruzzese, Rv. 182141 Sez. 5, n. 5850 del 21/03/1979, Gilli, Rv. 142343 e quella distrattiva per le ragioni già esposte mentre le sue caratteristiche, per come descritte, escludono altresì la configurabilità delle fattispecie di cui ai nn. 2 e 3 dell’art. 217 comma 1 legge fall. di cui in ogni caso difettano i presupposti . 5.3 Come già illustrato, nell’ambito del capo 1 sub B agli imputati è mosso l’ulteriore addebito di aver comunque depresso il valore del bene non sfruttando i permessi concessi per edificare sui terreni acquistati da . 5.3.1 In proposito è innanzi tutto necessario evidenziare che l’ultima proroga delle concessioni edilizie, per come risulta dalla sentenza impugnata, sia scaduta nel 2002 e dunque oltre due anni dopo l’acquisizione del bene, mentre la Corte territoriale non ha escluso la possibilità che potesse essere richiesta una nuova concessione edilizia. È dunque chiaro che oggetto di contestazione è per l’appunto la presunta dispersione del valore del bene avvenuta successivamente al suo acquisto ad un prezzo ritenuto congruo anche tenuto conto dell’immediata ancorché vincolata in punto di destinazione d’uso vocazione edificatoria dei terreni. 5.3.2 Anche qualora dovesse ritenersi provato che gli imputati abbiano proceduto all’acquisto del bene con la riserva mentale di non dare seguito alle concessioni - il che peraltro non emerge dalla sentenza impugnata - tale decisione deve essere rapportata allo scopo dell’operazione, individuato, come già detto, nell’esigenza di preservare il patrimonio della fallita dal rischio di escussione della fideiussione prestata in favore di . Laddove invece dovesse concludersi che solo successivamente all’acquisto si è rinunciato a sfruttare le concessioni, tale decisione doveva essere parametrata alla capacità finanziaria della società nel momento in cui è stata assunta ed all’effettiva possibilità per la stessa di supportare il progetto piuttosto che altri aspetti della sua attività. 5.3.3 I giudici dell’appello, dunque, hanno ritenuto integrato il reato esclusivamente in ragione del presunto saldo negativo dell’operazione, peraltro senza tenere conto del suo più ampio contesto per come descritto e registrato in sentenza, finendo ancora una volta per effettuare una valutazione di mera opportunità di scelte gestionali non eccentriche rispetto agli scopi dell’impresa ed allo stesso adempimento del dovere di conservazione della garanzia patrimoniale. 5.3.4 Una volta esclusa la sussistenza del reato di bancarotta patrimoniale in relazione all’operazione Marinella, a medesime conclusioni deve pervenirsi con riguardo al residuo reato di bancarotta impropria da operazioni dolose, a questo punto astrattamente configurabile come autonomo ed unico titolo di imputazione penale dei fatti di cui al capo 1 sub B. Anche volendo prescindere dal carattere meramente apparente della motivazione resa in sentenza sul punto, è agevole però, alla luce di quanto illustrato in precedenza, escludere che le condotte contestate agli imputati presentino i caratteri di quella tipizzata dall’art. 223 comma 2 n. 2 legge fall. Infatti la scelta terminologica effettuata dal legislatore nella definizione dell’elemento materiale della fattispecie in questione, in connessione alla configurazione di un reato proprio del ceto gestorio di una società commerciale, evidenzia come le operazioni rilevanti siano esclusivamente quelle che si traducano in una attività attinente alla funzione che qualifica i soggetti attivi selezionati dalla norma incriminatrice. In secondo luogo il fatto che le operazioni debbano esse dolose evoca immediatamente come l’atto di gestione debba essere posto in essere dall’autore tipico con abuso della propria carica ovvero contravvenendo ai doveri che la stessa gli impone, atteso che tale attributo - altrimenti del tutto inutile sotto il profilo tecnico-penalistico alla luce dell’art. 43 c.p. - evidenzia un connotato d’intrinseca illiceità della condotta, anche a prescindere dai suoi effetti. In tal senso è allora evidente come gli atti di gestione contestati ai ricorrenti in relazione all’operazione di cui si tratta non presentino tali caratteri in ragione della rilevata coerenza economica dei medesimi. 5.4 In definitiva, in relazione all’imputazione di cui al capo 1 sub B la sentenza deve essere annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste in relazione ad entrambe i reati contestati, rimanendo assorbiti tutti i motivi di ricorso relativi al suddetto capo che non sono stati espressamente esaminati. 6. Colgono altresì nel segno le censure mosse con il terzo motivo del ricorso del C. in merito all’inconfigurabilità del concorrente reato di operazioni dolose per il quale gli imputati sono stati condannati in relazione ad entrambe i fatti descritti nel capo 1. Censure che ovviamente a questo punto non rilevano in riferimento ai fatti contestati al capo 1 sub B in ragione dell’annullamento senza rinvio disposto per tale capo anche in relazione alla rilevata insussistenza del reato di operazioni dolose. 6.1 La già ribadita consumazione attraverso l’operazione XXXXXXXX del delitto di bancarotta patrimoniale impedisce invece - come sostenuto dal ricorrente - di addebitare lo stesso fatto agli imputati anche sotto l’ulteriore titolo di reato menzionato. In proposito va chiarito come agli stessi i due reati siano stati contestati in concorso formale, ipotizzandosi per l’appunto che attraverso le due operazioni di cui si è detto essi avrebbero sia attentato all’integrità patrimoniale della fallita, che dolosamente causato o aggravato il suo dissesto. Erroneamente, pertanto, nella pronunzia di primo grado la condanna per le operazioni dolose era stata sostenuta richiamando Sez. 5, n. 8708 del 24 giugno 1992, Chiabotti, Rv. 191935, che invece riguarda la diversa ipotesi di concorso materiale tra i due reati. Ma altrettanto erroneamente i giudici dell’appello - peraltro evocando nell’occasione precedenti inconferenti in quanto non concernenti il reato di operazioni dolose - hanno confermato la condanna richiamandosi al medesimo principio, come detto eccentrico rispetto alla fattispecie in giudizio. 6.2 In realtà l’insegnamento di questa Corte - se si fa eccezione per un risalente ed isolato precedente Sez. 5, n. 3506 del 23 febbraio 1995, Barducco ed altri, Rv. 201057 - è da tempo consolidato nel senso per cui non è configurabile il concorso formale tra il reato di bancarotta fraudolenta e quello di bancarotta impropria da operazioni dolose, che deve considerarsi assorbito nel primo quando l’azione diretta a causare il fallimento sia la stessa sussunta nel modello descrittivo della bancarotta fraudolenta Sez. 5, n. 35066 del 5 luglio 2007, P.M. in proc. Ascone, Rv. 237716 Sez. 5, n. 34559 del 19 maggio 2010, Biolè e altro, Rv. 248167 Sez. 5, n. 24051 del 15 maggio 2014, Lorenzini e altro, Rv. 260142 . 6.3 Anche in relazione a tale reato, pertanto la sentenza deve essere annullata senza rinvio per insussistenza del fatto, annullamento che deve essere esteso, attesa la natura non esclusivamente personale della censura proposta dal C. , anche alla posizione del F. . 7. La sentenza deve essere infine annullata senza rinvio anche in relazione al riconoscimento dell’aggravante della pluralità dei fatti di bancarotta, non più configurabile a seguito del disposto annullamento parimenti senza rinvio della condanna per il reato di bancarotta patrimoniale in riferimento ai fatti di cui al capo 1 sub B ed a quella per il reato di bancarotta impropria da operazioni dolose. Il rigetto dei motivi di ricorso attinenti l’affermata responsabilità degli imputati per il reato di bancarotta patrimoniale contestato al capo 1 sub A comporta il passaggio in giudicato della relativa condanna, ma ne consegue altresì la necessità di disporre l’ulteriore annullamento della sentenza, questa volta con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli per nuovo esame, in merito alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio per il suddetto capo. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata senza rinvio limitatamente all’imputazione di cui al capo 1 sub B ed al reato di cui all’art. 223 comma 2 n. 2 legge fall. perché il fatto non sussiste e conseguentemente anche in relazione all’aggravante della pluralità dei fatti di bancarotta e con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli per la rideterminazione della pena relativamente all’imputazione di cui al capo 1 sub A. Rigetta nel resto i ricorsi.