Successi professionali grazie a un ‘padrino’: sospetto pesante valutabile come diffamazione

Condannato il direttore di un periodico. Inequivocabile il contenuto di un articolo da lui firmato in esso si lascia intendere che un avvocato abbia ottenuto incarichi e consulenze solo grazie a un ‘protettore’.

Carriera, incarichi e successi legati non a meriti personali bensì ai favori concessi da un ‘padrino’. Questo sospetto, fatto balenare dalle colonne di un giornale locale e relativo a un professionista legale, è valutabile come una diffamazione in piena regola. Cassazione, sentenza numero 44107, sezione Quinta Penale, depositata il 18 ottobre 2016 Termine. Scenario della vicenda è il Salento. A scatenare polemiche e battaglie giudiziarie è l’articolo pubblicato da un periodico e firmato dal direttore. Nello scritto si fa riferimento, in maniera indiretta, a un noto avvocato, facendo intendere che egli debba le proprie fortune professionali all’opera di un ‘padrino’. Entrando più nello specifico, si parla di consulenze bene retribuite e del patrocinio di collaboratori di giustizia . Tutto donato all’avvocato dal suo ‘protettore’, secondo l’articolo. Ora quel richiamo alla figura di un ‘padrino’ è valutato come assolutamente negativo. Evidente anche per i magistrati della Cassazione, come già per i giudici del Tribunale e della Corte d’appello, che l’autore del pezzo giornalistico si sia responsabile del reato di diffamazione nei confronti del professionista legale. Inequivocabile, difatti, il significato negativo del termine. Difatti, il giornalista ha lasciato intendere che l’avvocato avesse ottenuto vantaggi sociali e professionali superiori alle sue effettive capacità personali grazie all’intervento di un ‘protettore’ che avrebbe agito a suo favore in modo trasversale, nell’ambito delle istituzioni statuali, in modo comunque non trasparente .

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 20 settembre – 18 ottobre 2016, n. 44107 Presidente Savani – Relatore Gorjan Ritenuto in fatto La Corte d'Appello di Lecce con la sentenza impugnata, resa il 20.2 - 26.5.2015, ha rigettato l'appello esposto da R.M. avverso la decisione di condanna a suo carico emessa dal Tribunale di Lecce-Galatina in relazione al delitto di diffamazione a mezzo della stampa. La Corte salentina aveva rigettato l'appello osservando come l'utilizzo del termine padrino , con il quale l'imputato nel suo articolo di stampa aveva appellato l'avv. G., avesse comunque connotato diffamatorio evocando persona potente che agisce in modo parallelo al potere statuale anche a voler dimenticare la connotazione propriamente mafiosa del termine. Avverso la sentenza resa dalla Corte distrettuale ha proposto ricorso per cassazione il difensore fiduciario del M., rilevando come concorrevano e vizio di violazione di legge e di motivazione in quanto la Corte aveva malamente ritenuto diffamatoria l'espressione padrino , la quale invece nel contesto dell'articolo appariva utilizzato solamente per indicare persona destinataria d'eredità forse non meritata. All'odierna udienza pubblica compariva il difensore dell'imputato,che sollecitava l'accoglimento del ricorso, mentre il P.G. concludeva per il rigetto. Ritenuto in diritto Il ricorso de quo s'appalesa privo di fondamento giuridico e va rigettato. In buona sostanza l'impugnante articola un ragionamento critico fondato su una diversa valutazione circa il significato del termine,indicato in capo d'imputazione, se apprezzato nel contesto dell'articolo. Tuttavia l'alternativa ricostruzione offerta dall'impugnante, secondo la quale il termine padrino era coerente con il significato di aver ereditato posizione professionale e sociale di rilievo senza merito conseguente alle qualità personali, non supera la motivazione della Corte distrettuale poiché non ne evidenzia aporia semplicemente si configura siccome alternativa. Difatti la Corte salentina,non già,ha escluso il riferimento all'ambiente di tipo mafioso con il termine padrino , bensì più semplicemente ha esposto ulteriore motivazione per illustrane la valenza diffamatoria, anche a voler escludere il primo significato ritenuto dal Tribunale. Puntualmente la Corte di Lecce ha illustrato come,comunque, il termine utilizzato lumeggiava come la parte offesa avesse ottenuto vantaggi sociali e professionali, superiori alle sue effettive capacità personali, per l'intervento di un protettore che agiva in modo trasversale nell'ambito delle istituzioni statuali, ossia in modo comunque non commendevole e trasparente. Quindi non concorrono i vizi di legittimità denunziati poiché la Corte salentina non ha attribuito arbitrariamente alla frase d'imputazione significato secondo ricostruzione meramente soggettiva, bensì, stante l'inequivoca allusione agli incarichi lucrosi ricevuti,ha colto il significato oggettivo del termine teso proprio a lumeggiare la circostanza che l'avv. G. ebbe a godere di favoritismi poco trasparenti da parte di soggetto potente. Al rigetto dei ricorso, ex art 616 cod. proc. pen., consegue la condanna dei M. alla rifusione delle spese processuali in favore dell'Erario. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. Così deciso in Roma il 20 settembre 2016.