Dolo preterintenzionale e legittima difesa: un accertamento rigoroso

Il criterio distintivo tra l’omicidio volontario e l’omicidio preterintenzionale risiede nell’elemento psicologico, che, in assenza di univoca dimostrazione dell’animus necandi, deve risultare da un rigoroso accertamento degli elementi oggettivi della condotta. Ugualmente rigoroso deve essere l’accertamento del giudice di merito circa la sussistenza o meno dell’esimente della legittima difesa.

Così si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 43564/16 depositata il 14 ottobre. Il caso. La Corte di Assise d’appello Roma confermava la condanna dell’imputato per omicidio preterintenzionale quale conclusione di un violento litigio scoppiato tra l’imputato e la vittima per motivi attinenti allo spaccio di sostanze stupefacenti. Considerando la dinamica dell’evento, i giudici negavano la volontarietà del gesto riconducendolo all’istintivo, incontrollato e aggressivo scontro fisico intervenuto tra le parti, escludendo dunque la sussistenza di un dolo omicidiario. La sentenza viene impugnata dinanzi alla Corte di Cassazione sia dall’accusa, che lamenta l’erronea applicazione dell’art. 584 c.p., che dalla difesa che invece si duole per il mancato riconoscimento della legittima difesa reale e/o putativa. Omicidio preterintenzionale e volontario. Il ricorso presentato dal Procuratore generale si rivela infondato poiché, come ricorda il Collegio, nell’omicidio preterintenzionale il profilo soggettivo si compone di un elemento positivo – la volontà di offendere – e di uno negativo – la mancanza dell’intenzione di uccidere –mentre l’omicidio volontario è connotato proprio dall’intenzione di cagionare la morte di un individuo. Nel caso in cui le circostanze non evidenzino l’ animus necandi , l’esistenza o meno di tali fattori deve essere ricostruita tramite altri fattori quali i mezzi usati, l’intensità e la reiterazione dei colpi, le parti del corpo della vittima colpite, le situazioni di luogo e di tempo dell’azione. Sulla scia di tale apparato argomentativo, la motivazione della sentenza impugnata risulta aver correttamente applicato il principio giurisprudenziale secondo cui il criterio distintivo tra l’omicidio volontario e l’omicidio preterintenzionale risiede proprio nell’elemento psicologico nell’ipotesi preterintenzionale la volontà dell’agente è infatti diretta a percuotere o ferire la vittima con esclusione di ogni previsione dell’evento morte, mentre nell’omicidio volontario l’agente è mosso dall’ animus necandi , nelle gradazione del dolo diretto o eventuale come risultante da un rigoroso accertamento rimesso ad elementi oggettivi desunti dalle modalità della condotta. Legittima difesa. La doglianza dell’imputato risulta invece fondata. La costante giurisprudenza afferma infatti che l’accertamento relativo alla scriminante della legittima difesa reale o putativa e dell’eccesso colposo deve fondarsi su un’analisi ex ante calata nelle specifiche e peculiari circostanze concrete che connotano la fattispecie da esaminare, secondo una valutazione relativa e non astratta ed assoluta, condotta dal prudente apprezzamento del giudice di merito. Quest’ultimo non deve esaminare solo le modalità del singolo episodio, ma anche tutti gli elementi fattuali antecedenti che possono aver avuto incidenza sull’insorgenza dell’erroneo convincimento di dover agire per difendere sé o altri da un’ingiusta aggressione, ad esclusione di stati d’animo e timori personali che non possono essere considerati sufficienti. Nel caso di specie dunque sarebbe stato necessario un più attento esame delle circostanze fattuali dell’evento al fine di accertare la sussistenza o meno della scriminante della legittima difesa. Per questi motivi, la Corte annulla la sentenza limitatamente alla esimente in parola e rinvia ad altra sezione della Corte di Assise d’appello di Roma per un nuovo esame.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 14 giugno – 14 ottobre 2016, n. 43564 Presidente Silvio Bonito – Relatore Talerico Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 3 novembre 2014, la Corte di Assise di Roma riconosceva K.B. responsabile del delitto di cui all’art. 584 cod. pen. ai danni di L.M. , così qualificato il fatto contestato al capo A , nonché della contravvenzione ascrittagli al capo B e, escluse l’aggravante dei motivi abietti e la recidiva in relazione al delitto sub A, concesse in favore dell’imputato circostante attenuanti generiche, condannava il predetto alla pena di anni dieci di reclusione per l’omicidio preterintenzionale e a quella di mesi quattro di arresto ed Euro 1.000,00 di ammenda per il reato di cui all’art. 4 della legge n. 110 del 1975. 2. Con pronuncia dell’11 giugno 2015, la Corte di assise di appello di Roma, in parziale riforma di quella di primo grado, assegnava alla costituita parte civile, a titolo di provvisionale la somma di Euro 70.000,00, confermando nel resto la sentenza impugnata. 3. Secondo la ricostruzione operata da entrambi i giudici di merito, i fatti per cui è processo si erano svolti nel seguente modo verso le ore 20,10 del omissis , una pattuglia dei Carabinieri era intervenuta nell’area pedonale del quartiere omissis dove era stato segnalato un accoltellamento giunti sul posto, i militari avevano trovato un uomo in terra con un’evidente ferita al collo e accanto a lui numerosi omissis , i quali riferivano che l’autore del ferimento si era allontanato verso la Via omissis inseguito da altre persone e si era rifugiato in un bar raggiunto detto locale, i Carabinieri trovavano l’uomo indicato, identificandolo nell’imputato e lo traevano in arresto rinvenivano nei pressi della scala di ingresso del bar un taglierino con una lama sporca di sangue i successivi accertamenti rilevavano la presenza sul manico di detto taglierino in prossimità della lama un’impronta digitale corrispondente al pollice della mano sinistra dell’imputato la vittima, L.M. , cessava di vivere poco dopo essere stato ricoverato in ospedale per l’emorragia acuta causata dalla lesione alla vena giugulare. Sempre secondo i suddetti giudici, il tragico evento era l’epilogo di un violento litigio intervenuto tra l’imputato e la vittima dovuto al fatto che quest’ultima sospettava che la sua convivente C.M. detta M. avesse ceduto della marijuana, in precedenza sottrattagli, al K. per ottenere in cambio dell’eroina quanto all’esatta dinamica degli accadimenti, poteva ritenersi dimostrato che la morte di L. era stata una diretta conseguenza di un atto compiuto dall’imputato che aveva attinto la vittima con un taglierino all’altezza della gola, recidendogli la vena giugulare non poteva, invece, considerarsi provato il fatto sicuramente rilevante ai fini della sussistenza del dolo omicidiario che fosse stato l’imputato e non la vittima a impugnare per prima l’arma e a tenere un atteggiamento aggressivo, tanto più che era proprio il L. ad avere motivi di risentimento nei confronti del K. e non viceversa era stato, in ogni caso, dimostrato che, nella seconda fase dell’episodio, il K. , dopo essere riuscito a disarmare il L. , in risposta a un pugno ricevuto, aveva inferto con la mano che impugnava il taglierino un colpo nei confronti della vittima, la quale, dopo avere fatto alcuni passi indietro tenendosi una mano al collo, era caduta a terra. Sulla base di tali evenienze, i predetti giudici ritenevano che indubbiamente non si era trattato di un gesto involontario, incontrollato o istintivo dell’imputato, in considerazione della situazione di scontro fisico in cui si erano svolti gli accadimenti, caratterizzati da reciproca aggressività che, però non poteva affermarsi con altrettanta certezza che l’imputato, nel compiere quel gesto, avesse avuto l’effettiva intenzione di uccidere o che, comunque, avesse previsto che da quell’azione potesse derivare l’evento letale e avesse accettato il rischio del suo verificasi che, invece, era certo che la vittima era stata raggiunta da un solo fendente che la ferita mortale aveva una lunghezza di circa 6 centimetri e una profondità di circa 1,5 centimetri ed interessava la parte laterale destra e non quella centrale del collo che da tali dati si poteva dedurre che si era sostanzialmente trattato di un solo colpo di striscio e non di un colpo con traiettoria diretta che non era stata utilizzata un’arma propria ma un taglierino la cui lama era stata estratta solo parzialmente tanto da avere dimensioni estremamente ridotte che, dunque, lo strumento non aveva le caratteristiche intrinseche della micidialità ma poteva servire per uccidere sole se adoperato con abilità e precisione che l’oggetto era stato utilizzato nel corso di una colluttazione e cioè in un contesto di concitazione e di reciproco scambio di colpi che il gesto era stato compiuto repentinamente, in una frazione di secondo, il che significava che, per poter raggiungere intenzionalmente quel punto del collo in corrispondenza della vena giugulare era necessaria una particolare maestria. Concludevano, quindi, che i dati obiettivi della condotta posta in essere dall’imputato convincevano pienamente dell’intento di costui di provocare lesioni al L. ma che non potevano ritenersi idonei a fondare la certa affermazione della sussistenza di un dolo omicidiario. Ritenevano, quindi, non ricorrenti i presupposti dell’esimente della legittima difesa neppure per eccesso colposo in quanto l’imputato, una volta entrato in possesso dl taglierino, non si trovava più in una situazione di concreto pericolo per la propria incolumità e, anziché accettare lo scontro e la sfida, avrebbe potuto desistere dall’azione allontanandosi senza ulteriori danni, come aveva fatto in occasione della prima colluttazione o, comunque, avrebbe potuto continuare a difendersi senza utilizzare quell’arma. 4. Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale della Repubblica di Roma e l’imputato, per il tramite del suo difensore di fiducia, avvocato Sergio Olivieri. 4.1. Il Procuratore generale, con un unico motivo, ha denunciato l’erronea applicazione della legge penale in riferimento all’interpretazione dell’art. 584 cod. pen. secondo il ricorrente, al fine di individuare correttamente l’elemento psicologico del reato e a escludere il dolo preterintenzionale, sussistono plurimi dati oggettivi la profondità della ferita che non può definirsi superficiale avendo investito organi interni la caratteristica del colpo che è penetrato nel collo della vittima e, dunque, aveva forza sufficiente per determinare l’effetto letale la parte del corpo colpita il collo, sede di vasi vitali quali la carotide, la giugulare, la trachea la lunghezza della ferita di circa 6 centimetri nessuno elemento depone nel senso che l’imputato abbia agito soltanto per ledere anzi, nel ritenere dimostrata la volontarietà del colpo, l’impugnata sentenza incorre in un’insanabile contraddizione logica laddove sostiene che il dolo dell’imputato si sia interrotto alla volontà di ferire senza raggiungere l’intento di uccidere. 4.2. Con due distinti motivi, l’imputato ha denunciato violazione di legge, nonché difetto di motivazione in ordine al mancato riconoscimento dell’esimente della legittima difesa reale o putativa e/o dell’eccesso colposo in legittima difesa secondo la prospettazione difensiva, la condotta dell’imputato risulta connotata da istintiva reazione di fronte alla minaccia altrui la stessa appare volta essenzialmente a preservare la propria persona dal pericolo di un danno grave alla sua stessa incolumità fisica l’imputato aveva subito due aggressioni da parte della vittima, nel corso della prima aggressione era riuscito ad allontanarsi, nel corso della seconda, posta in essere dalla vittima armata del taglierino, era riuscito a schivare un primo colpo ed era riuscito a disarmare il suo aggressore quindi, era riuscito a passare il taglierino dalla mano destra a quella sinistra e, dopo avere ricevuto alcuni pugni, nel tentativo di allontanare da sé il L. , lo aveva colpito di striscio - con un movimento che non consente di supportare la tesi della volontarietà dell’atto - al collo con il predetto strumento le stesse impronte rilevate sul taglierino confermano il modo in cui il K. lo aveva impugnato nella descritta situazione, la reazione del predetto era da ritenersi legittima perché inerente alla necessità di difendere la propria persona dall’azione aggressiva del L. in ogni caso, la sentenza impugnata non aveva fornito nessuna motivazione in ordine alla ravvisabilità, nel caso di specie, di un eccesso colposo in legittima difesa. Considerato in diritto 1. Infondato è il ricorso del Procuratore generale che, per le ragioni di seguito indicate, deve essere respinto. Giova, in proposito, osservare che nell’omicidio preterintenzionale, sotto il profilo soggettivo concorrono un dato positivo e uno negativo la volontà di offendere con percosse o lesioni e la mancanza dell’intenzione di uccidere mentre, invece, l’elemento psicologico che connota l’omicidio volontario è proprio l’intenzione di cagionare la morte della vittima. Quando il complesso delle circostanze non evidenzia ictu oculi l’ animus necandi , per le difficoltà di riconoscere per via diretta il proposito dell’agente, sorreggono il ragionamento fatti certi che consentono di provare l’esistenza o meno di altri fatti ignoti attraverso un procedimento logico d’induzione. Fatti tesi a individuare la volontà omicida sono precipuamente i mezzi usati, l’intensità e la reiterazione dei colpi, la parte del corpo colpita, le situazioni di tempo e di luogo che favoriscono l’azione cruenta. Nel caso di specie, va rilevato che i giudici di merito hanno escluso l’animus necandi, in base a un percorso argomentativo del tutto logico, coerente e pienamente aderente alla ricostruzione dei fatti dai medesimi operata, evidenziando al riguardo a che non poteva considerarsi provato il fatto che sia stato proprio l’imputato e non la vittima a impugnare per prima il taglierino e a tenere un atteggiamento aggressivo, tanto più che era proprio il L. che aveva motivi di risentimento nei confronti del K. e non viceversa b che era certo che la vittima è stata raggiunta da un solo fendente e non vi è stata reiterazione di colpi c che la ferita mortale aveva un lunghezza di circa 6 centimetri e una profondità di circa 1,5 centimetri e interessava la parte laterale destra del collo e non quella centrale, il che dimostrava che si era trattato di un colpo di striscio e non di un colpo con traiettoria diretta d che lo strumento utilizzato non era un’arma propria, ma un taglierino, la cui lama, come risultava dalle fotografie agli atti, era stata estratta solo parzialmente, tanto da avere dimensioni estremamente ridotte e che lo strumento non aveva caratteristiche intrinseche di micidialità f che la condotta dell’imputato era stata posta in essere repentinamente in una frazione di secondo in un contesto concitato, sicché era errato affermare che l’imputato avesse mirato volontariamente a quel particolare distretto corporeo con l’intento di cagionare la morte. Orbene, siffatto percorso motivazionale è del tutto in linea con l’elaborazione della giurisprudenza di questa Corte Sez. 1, sentenza n. 25239 del 20/5/2001, Rv. 219433 , secondo cui il criterio distintivo tra l’omicidio volontario e l’omicidio preterintenzionale risiede nell’elemento psicologico, nel senso che nell’ipotesi della preterintenzione la volontà dell’agente è diretta a percuotere o a ferire la vittima, con esclusione assoluta di ogni previsione dell’evento morte, mentre nell’omicidio volontario la volontà dell’agente è costituita dall’ animus necandi , ossia dal dolo intenzionale, nelle gradazioni del dolo diretto o eventuale, il cui accertamento è rimesso alla valutazione rigorosa di elementi oggettivi desunti dalle concrete modalità della condotta conseguentemente, le deduzioni del ricorrente si risolvono a ben veder nella prospettazione di una diversa lettura delle risultanze processuali, inammissibile in questa sede. 2. Fondato è, invece, il ricorso dell’imputato. Per la costante giurisprudenza di questa Corte, l’accertamento relativo alla scriminante della legittima difesa reale o putativa e dell’ eccesso colposo deve essere effettuato con un giudizio ex ante calato all’interno delle specifiche e peculiari circostanze concrete che connotano la fattispecie da esaminare, secondo una valutazione di carattere relativo e non assoluto e astratto, rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito, cui spetta esaminare, oltre che le modalità del singolo episodio in sé considerato, anche tutti gli elementi fattuali antecedenti all’azione che possano aver avuto concreta incidenza sull’insorgenza dell’erroneo convincimento di dover difendere sé o altri da un’ingiusta aggressione, senza tuttavia che possano considerarsi sufficienti gli stati d’animo e i timori personali Sez. 1, n. 13370 del 05/03/2013, Rv. 255268 . Una volta ricostruiti i fatti nel modo in precedenza indicato, risulta fondata la censura difensiva relativa ai denunciati vizi di violazione di legge e di manifesta illogicità della motivazione del provvedimento impugnato in ordine alla insussistenza dei presupposti per ritenere operante la scriminante della legittima difesa reale o putativa ovvero dell’eccesso colposo. E in vero, secondo i giudici di merito, è risultato dimostrato che nella seconda fase dell’episodio il taglierino si trovava nelle mani della vittima e che l’imputato, dopo essere riuscito a disarmarla, l’aveva colpita con un solo colpo di striscio, come reazione a un pugno ricevuto in quel contesto di concitazione in cui si stavano svolgendo gli accadimenti. Sarebbe stato, allora, necessario sottoporre a un più attento esame le ritenute circostanze fattuali al fine di verificare se effettivamente l’imputato non si era avvalso della possibilità di evitare l’aggressione della vittima ancora in atto, se la reazione del medesimo aveva o meno assunto carattere del tutto sproporzionato rispetto all’offesa ricevuta e se l’azione posta in essere dallo stesso abbia o meno oltrepassato per errore i limiti imposti dalla necessità di difendersi. Non appare, infatti, congruo l’argomentare dei giudici di merito secondo cui l’imputato una volta entrato in possesso di quel taglierino, non si trovava più in una situazione di concreto pericolo per la propria incolumità e, anziché accettare lo scontro e la sfida, avrebbe potuto desistere dall’azione e allontanarsi senza ulteriori danni come aveva già fatto in occasione della prima colluttazione o, comunque, avrebbe potuto continuare a difendersi senza utilizzare quell’arma . E ciò in quanto, secondo la stessa ricostruzione dei giudici di merito, la condotta dell’imputato si era svolta in un contesto di concitazione mentre la vittima continuava ad aggredirlo. 3. Per le superiori considerazioni, la sentenza impugnata va annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di assise di appello di Roma, che dovrà rendere più congrua motivazione in ordine alla sussistenza o meno, nel caso concreto, dell’esimente della legittima difesa reale o putativa, ovvero di eccesso colposo della stessa. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla esimente della legittima difesa e rinvia per nuovo giudizio al riguardo ad altra sezione della Corte di assise di appello di Roma. Rigetta il ricorso del Procuratore generale.