Mancata contestazione dell’aggravante in sede di cognizione: insuperabile dal Tribunale di sorveglianza

In caso di delitti commessi dopo il 12 giugno 1991, il Tribunale di sorveglianza non può rivalutare la sentenza di condanna emessa dal giudice della cognizione, ritenendo esistente l’aggravante di cui all’art. 7 d.l. n. 152/1991 e, quindi, operante il divieto di concessione dei benefici penitenziari ai sensi dell’art. 4-bis, comma 1, ord. pen., quando tale aggravante non sia stata contestata dal pm e, conseguentemente, non sia stata riconosciuta come sussistente dal Giudice della cognizione.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 42815/16, depositata il 10 ottobre. Il caso. Il Tribunale di sorveglianza di Catanzaro respingeva la richiesta del Magistrato di sorveglianza della sede di accertamento della condotta di collaborazione con la giustizia o di situazione equivalente, ex artt. 58 -ter e 4, commi 1 e 1 -bis , legge n. 354/1975, ritenuta incidentale alla domanda di permesso premio proposta dall’imputato, condannato alla pena di 25 anni e 3 mesi di reclusione per associazione per delinquere di tipo mafioso e per omicidio del proprio fratello. Nel procedimento diretto all’accertamento della condotta di collaborazione con la giustizia o di una situazione equivalente, per impossibilità o irrilevanza di essa, funzionale alla rimozione del divieto di accesso al beneficio richiesto, il Tribunale, pur risultando già scontata la pena per il reato associativo, riteneva che il delitto di omicidio con pena in esecuzione fosse connotato dalla finalità di agevolazione dell’associazione di tipo mafioso, di cui entrambi i fratelli erano stati membri, siccome motivato dalla necessità di evitare che la collaborazione con la giustizia intrapresa dalla vittima potesse nuocere non solo al fratello, riconosciuto autore dell’omicidio, esponendolo a ritorsioni da parte dei componenti del sodalizio, per non aver controllato il germano, ma anche mettere in pericolo la stabilità e le attività del sodalizio criminale come tale. Il Tribunale ravvisava pertanto nel fatto omicidiario la circostanza aggravante di cui all’art. 7 del d.l. n. 152/1991. Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato. Finalità erroenea. A detta del ricorrente, il Tribunale avrebbe erroneamente attribuito all’omicidio la finalità di agevolazione dell’attività dell’associazione di tipo mafioso, sulla base del solo contesto in cui il fatto fu commesso, mentre l’aggravante prevista dall’art. 7 del d.l. n. 152/1991 postula il dolo specifico di favorire ovvero facilitare, con delitto posto in essere, l’attività del gruppo criminale di tipo mafioso . Diniego di concessione di permesso premio legittimo. Il ricorso è fondato. La giurisprudenza costante della Corte ha infatti ritenuto legittimo il diniego di concessione di permesso premio al condannato per reato commesso per motivi di mafia che il Tribunale abbia accertato attraverso l’esame della sentenza, non rilevando la circostanza che nel giudizio non sia stata contestata l’aggravante prevista dall’art. 7 del d.l. 152/1991 . Tale giurisprudenza, però, attiene a tutti i casi di delitti commessi prima dell’entrata in vigore, in data 13 maggio 1991, del d.l. citato, che ha introdotto la circostanza aggravante di cui all’art. 7. La Corte ritiene che essa non possa conservare validità con riferimento ai delitti commessi in epoca successiva. L’aggravante di cui all’art. 7 d.l. n. 152/1991. Va dunque affermato il principio di diritto secondo cui in caso di delitti commessi dopo il 12 giugno 1991, il Tribunale di sorveglianza non può rivalutare la sentenza di condanna emessa dal giudice della cognizione ritenendo sostanzialmente esistente l’aggravante di cui all’art. 7 d.l. n. 152/1991, convertito dalla legge n. 203/1991 e, quindi, operante il divieto di concessione dei benefici penitenziari ai sensi dell’art. 4 -bis , comma 1, ord. pen., quando tale aggravante non sia stata contestata dal pm e, conseguentemente, non sia stata riconosciuta come sussistente dal giudice della cognizione . La Corte annulla pertanto la sentenza impugnata e rinvia per un nuovo esame al Tribunale di sorveglianza di Catanzaro.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 6 maggio – 10 ottobre 2016, n. 42815 Presidente Cortese – Relatore Mazzei R1. Il Tribunale di sorveglianza di Catanzaro ha respinto la richiesta del Magistrato di sorveglianza della sede di accertamento della condotta di collaborazione con la giustizia o di situazione equivalente, ex artt. 58 ter e 4, commi 1 e 1-bis, legge 26 luglio 1975, n. 354 abbreviata in Ord. Pen. , ritenuta incidentale alla domanda di permesso premio proposta da I.M. , condannato alla pena di 25 anni, 3 mesi e 13 giorni di reclusione, giusta provvedimento di esecuzione di pene concorrenti comprendente due condanne una per associazione per delinquere di tipo mafioso fino al 1996 inflitti anni quattro di reclusione ed un’altra per omicidio del proprio fratello, I.E. , in continuazione con i delitti di detenzione e porto illegale di armi, commessi nel 1994 inflitti anni ventotto di reclusione . Nel procedimento diretto all’accertamento della condotta di collaborazione con la giustizia o di una situazione equivalente, per impossibilità o irrilevanza di essa, funzionale alla rimozione del divieto di accesso al richiesto beneficio, il Tribunale, pur risultando già scontata la pena per il reato associativo, ha ritenuto che il delitto di omicidio con pena in esecuzione fosse connotato dalla finalità di agevolazione dell’associazione di tipo mafioso, di cui entrambi i fratelli I. erano stati membri, siccome motivato dalla necessità di evitare che la collaborazione con la giustizia intrapresa da I.E. la vittima potesse nuocere non solo al fratello, I.M. riconosciuto autore dell’omicidio , esponendolo a ritorsioni da parte dei componenti del sodalizio per non aver controllato il germano, ma anche mettere in pericolo la stabilità e le attività del sodalizio criminale come tale. Il Tribunale ha, pertanto, ravvisato nel fatto omicidiario la circostanza aggravante di cui all’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, convertito dalla legge n. 203 del 1991, benché non formalmente contestata ha ritenuto che la collaborazione del condannato con la giustizia fosse possibile e rilevante, considerata la sua conoscenza della realtà associativa di tipo mafioso cosca di [] , di cui era stato partecipe ha, quindi, osservato che l’accertata mancanza di tale collaborazione non consentiva di rimuovere l’ostacolo normativo all’ammissione ai benefici penitenziari derivante dal tipo di reato commesso, al fine di agevolare l’attività dell’associazione di tipo mafioso di appartenenza. 2. Avverso la predetta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione I. tramite il difensore, avvocato Valerio Vianello Accorretti, il quale deduce otto motivi di ricorso. 2.1. Con il primo denuncia violazione ed erronea applicazione dell’art. 4 bis, comma 1, legge n. 354 del 1975 e dell’art. 58 ter Ord. Pen., in relazione all’art. 7 della legge n. 203 del 1991. Il Tribunale avrebbe erroneamente attribuito all’omicidio la finalità di agevolazione dell’attività dell’associazione di tipo mafioso, sulla base del solo contesto in cui il fatto fu commesso, mentre l’aggravante prevista dal citato art. 7 d.l. n. 152 del 1991 postula, per dettato normativo e costante giurisprudenza, il dolo specifico di favorire ovvero facilitare, con il delitto posto in essere, l’attività del gruppo criminale di tipo mafioso. La lettura della motivazione della sentenza di condanna rivelerebbe la matrice esclusivamente familiare e personale del delitto, per il timore di I.M. di subire le conseguenze giudiziarie derivanti dalle propalazioni del fratello e le ritorsioni dei sodali, i quali gli avrebbero imputato di non aver impedito la collaborazione giudiziaria del germano. 2.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 125 cod. proc. pen. dell’art. 4 bis, comma 1, e 58 ter Ord. Pen. in relazione all’art. 7 d.l. n. 152 del 1991 la mancanza di motivazione con riguardo alla ritenuta aggravante mafiosa dei delitti di omicidio e di detenzione e porto illegale di armi da sparo. L’interessato aveva precisato che la suddetta aggravante ad effetto speciale, benché già in vigore al tempo dei fatti, non era stata contestata per alcuno dei reati giudicati e ciò, secondo il difensore, era segno inequivocabile della ritenuta non ricorrenza di essa nel processo di cognizione e, dunque, dell’impossibilità di riconoscerla nel procedimento di sorveglianza il Tribunale, su tale decisivo rilievo, aveva totalmente omesso di motivare. 2.3. Con il terzo motivo, simile al precedente, è dedotta la violazione ed erronea applicazione dell’art. 4 bis, comma 1, e dell’art. 58 ter Ord. Pen., in relazione all’art. 7 legge n. 203 del 1991, con specifico riguardo alla condanna per omicidio. Tale reato era stato commesso nel 1994, nella vigenza dell’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, convertito dalla legge n. 203 del 1991, sicché la mancata contestazione della circostanza aggravante in sede di cognizione doveva ritenersi insuperabile da parte del Tribunale di sorveglianza, per il principio di intangibilità del giudicato, tanto più in malam partem e ciò in linea con la più recente giurisprudenza di legittimità, poiché il precedente orientamento contrario, richiamato nell’ordinanza impugnata, il quale ammetteva la legittimità della ricognizione in via interpretativa del metodo o della finalità di mafia da parte della magistratura di sorveglianza, si riferiva a fatti commessi prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 152 del 1991, allorché l’aggravante da esso introdotta non era ancora prevista e, tuttavia, emergeva in modo inequivocabile come concretamente presente nei fatti giudicati. 2.4. Con il quarto motivo il ricorrente deduce la violazione dell’art. 125 cod. proc. pen. e degli artt. 4 bis e 58 ter della legge n. 354 del 1975, nonché la mancanza di motivazione, in relazione al richiesto accertamento, nel caso di specie, della situazioni di collaborazione impossibile o irrilevante. Il fatto omicidiario era stato completamente ricostruito in ogni sua fase anche col riconoscimento della propria responsabilità da parte di I.M. . La collaborazione da valutare non poteva che essere riferita al solo reato oggetto del processo definito con la condanna in esecuzione e non anche ad altri fatti, ivi incluso quello associativo, diverso dal delitto di omicidio in espiazione. 2.5. Con il quinto motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 125 cod. proc. pen., in relazione alla richiesta di scissione del cumulo giuridico e la mancanza di motivazione sul punto. Il Tribunale di sorveglianza avrebbe illegittimamente omesso lo scioglimento del cumulo, al fine di individuare il solo omicidio come reato con pena in attuale esecuzione, e sulla richiesta di scissione non avrebbe reso alcuna motivazione. 2.6. Con il sesto motivo il difensore deduce la violazione dell’art. 125 cod. proc. pen., in relazione alla ritenuta espiazione - scisso il cumulo giuridico - dell’intera pena di quattro anni di reclusione subita per il delitto di cui all’art. 416 bis cod. pen., e l’assenza di motivazione al riguardo. 2.7. Con il settimo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 125 cod. proc. pen. e dell’art. 78 cod. pen. e la mancanza di motivazione sulla necessità di scindere il cumulo, anche nella ritenuta valenza ostativa ai benefici penitenziari di tutti i reati con pene unificate, sussistendo l’interesse del condannato alla specificazione del delitto in attuale espiazione con riferimento al quale, e solo ad esso, avrebbe dovuto apprezzarsi l’eventuale condotta collaborativa ovvero l’impossibilità o l’irrilevanza di essa, variando evidentemente il pertinente giudizio a seconda del tipo di reato con pena in corso di esecuzione. 2.8. Con l’ottavo motivo il difensore lamenta la violazione degli artt. 4 bis e 58 ter Ord. Pen., in relazione alla cosiddetta collaborazione impossibile e/o irrilevante, nonché l’assenza di motivazione. Era stato segnalato il tempo ristretto di partecipazione di I. al sodalizio mafioso assolto dal reato associativo fino al 1991 e condannato, invece, per il medesimo reato fino al 1996, con ammesso patteggiamento in appello a riprova della limitata gravità dei fatti a lui attribuiti . Nessuno degli indici rivelatori di inesigibilità per inutilità o irrilevanza della pretesa collaborazione era stato preso in considerazione dal Tribunale che, con motivazione apodittica, ne aveva affermato la possibilità con generico riferimento al contesto mafioso del delitto, senza discernere, come avrebbe dovuto, il delitto in attuale espiazione costituito dal solo omicidio, in relazione al quale soltanto avrebbe dovuto essere valutata la condotta di collaborazione o una situazione equivalente. Diversamente opinando, quanto al reato da assumere come parametro dell’accertamento, si determinerebbe un allargamento a dismisura e non controllabile della discrezionalità della magistratura di sorveglianza, in contrasto con i precisi confini dell’ambito di rilevanza della condotta di collaborazione delineati dal legislatore. Considerato in diritto 1. Il ricorso è fondato. Esaminando in ordine logico le censure sollevate dal ricorrente, va innanzitutto affrontata la questione di diritto prospettata con il secondo ed il terzo motivo di ricorso, relativa alla possibilità, per il giudice di sorveglianza, di ritenere che un delitto sia stato commesso avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis cod. pen. o per agevolare l’attività di un’associazione mafiosa, pur in assenza di contestazione, nel procedimento di cognizione penale, dell’aggravante di cui all’art. 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203. Va premesso che l’art. 4 bis, comma 1, Ord. Pen. pone il divieto di concessione dei benefici penitenziari con testuale riferimento ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo 416 bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste , senza limitarsi dunque al mero richiamo normativo dei delitti aggravati a norma dell’art. 7 legge n. 203 del 1991, cit. È vero che la suddetta aggravante è integrata proprio dalle concrete fattispecie indicate per esteso all’interno dell’art. 4 bis, ma tale ripetizione del testo normativo, in luogo del rinvio normativo all’art. 7 della legge n. 203 del 1991, ha indotto a ritenere che il divieto sussista anche per i delitti rispetto ai quali la medesima aggravante non sia stata formalmente contestata, ma che comunque risultino commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso. Tale conclusione appare confermata dalla genesi storica delle norme in esame, entrambe introdotte dal d.l. n. 152 del 1991, convertito dalla legge n. 203 del 1991, cit. Il divieto posto dall’art. 4 bis non avrebbe potuto avere effetto immediato se avesse fatto riferimento ai soli reati aggravati ai sensi dell’art. 7 l’aggravante era stata, infatti, introdotta con la medesima legge e non avrebbe potuto essere contestata per i fatti antecedenti, con la conseguenza che il divieto sarebbe divenuto efficace, per i delitti aggravati dall’art. 7, solo se commessi nel vigore di essa, a partire dal 13 maggio 1991, previo passato in giudicato delle pertinenti sentenze di condanna. La formulazione descrittiva adottata dall’art. 4 bis, comma 1, Ord. Pen. consentiva, invece, di estendere il divieto anche ai delitti commessi in precedenza, per i quali la circostanza aggravante de qua non poteva essere contestata, lasciando ai giudici di sorveglianza, in sede di concessione dei benefici penitenziari, di valutare se i delitti in espiazione fossero stati commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis cod. pen. o per agevolare l’attività di associazioni di tipo mafioso. Coerentemente la giurisprudenza ha ritenuto legittimo il diniego di concessione di permesso premio al condannato per reato commesso per motivi di mafia che il tribunale abbia accertato attraverso l’esame della sentenza, a nulla rilevando la circostanza che nel giudizio non sia stata contestata l’aggravante prevista dall’art. 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito dalla legge 12 luglio 1991, n. 203 così Sez. 1, n. 34022 dell’11/07/2007, Saraceno, Rv. 237295 conformi Sez. 1, n. 17816 del 9/04/2008, Sanfilippo, Rv. 240005 Sez. 1, n 4091 del 07/01/2010, Dragone, Rv. 246053 . Tale giurisprudenza, però, attiene a tutti casi di delitti commessi prima dell’entrata in vigore, in data 13 maggio 1991, del d.l. n. 152 del 1991 che ha introdotto la circostanza aggravante di cui all’art. 7 in esame. Ritiene la Corte che essa non possa conservare validità con riferimento a delitti commessi in epoca successiva, allorquando la medesima aggravante avrebbe potuto essere contestata, ma non risulta ascritta nel caso di specie il delitto di omicidio, con pena in attuale esecuzione, è stato commesso nel 1994 senza che sia stata contestata l’aggravante ostativa . Se, infatti, la formula descrittiva usata nell’art. 4 bis, comma 1, Ord. Pen., che, come detto, ripete testualmente il contenuto dell’art. 7 della legge n. 203 del 1991, senza richiamarlo come tale, si è resa necessaria, secondo la richiamata giurisprudenza di legittimità, per ricomprendere nel divieto di concessione dei benefici penitenziari anche fatti antecedenti di chiara valenza mafiosa, non contestabili però come tali nell’ambito del sistema normativo all’epoca vigente, consentendo quindi al giudice di sorveglianza il potere di valutare tale connotazione mafiosa per metodo o finalità, in aderenza al contenuto ed alle argomentazioni della sentenza di condanna da eseguire, una volta entrata in vigore la nuova normativa, con l’introduzione della circostanza aggravante di cui all’art. 7, devono trovare applicazione le regole generali del processo penale sia in tema di intangibilità del giudicato, sia in tema di correlazione tra accusa e sentenza. Conseguentemente, in sede di esecuzione, non può essere modificata la valutazione operata dal giudice della cognizione e, dunque, qualora per un delitto fosse stata contestata l’aggravante di cui all’art. 7 e il giudice della cognizione ne avesse escluso la ricorrenza, il giudice di sorveglianza non potrebbe, in contrasto con tale valutazione, ritenere che il delitto sia stato commesso avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis cod. pen. o per agevolare l’attività di un’associazione mafiosa parimenti è pacifico che, in assenza di contestazione di un’aggravante, la stessa non possa essere ritenuta dal giudice della cognizione e, quindi, tanto meno possa attribuirsi tale potere al giudice di sorveglianza, sia pure ai limitati fini della ammissibilità dei benefici penitenziari. Del resto, anche in relazione ad una condizione desumibile da elementi obiettivi, come quella del recidivo, è indispensabile, affinché la recidiva possa dispiegare i suoi effetti, che vi siano una contestazione ed una correlativa declaratoria in sentenza, in assenza delle quali non può esservi spazio per un’autonoma determinazione da parte del giudice di sorveglianza. Così avviene, ad esempio, in tema di concessione della detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47 ter, commi 01 e 1-bis, Ord. Pen., ove peraltro è espressamente previsto che la recidiva sia stata applicata con sentenza ma anche per la decorrenza del termine per la riabilitazione, ai sensi dell’art. 179, secondo comma, cod. pen., ove il generico riferimento ai recidivi nei casi preveduti dai capoversi dell’art. 99 è stato interpretato nel senso che la recidiva debba essere debitamente contestata e ritenuta in sentenza. Se fosse consentito al giudice di sorveglianza di travalicare il giudicato, si dovrebbe ammettere la possibilità di qualificare come recidivo, semplicemente sulla scorta dei precedenti penali, anche il soggetto che non sia stato ritenuto tale dal giudice della cognizione, per omessa contestazione della recidiva da parte del pubblico ministero. Non è, dunque, ravvisabile alcuna ragione per giungere a diverse conclusioni in relazione ai delitti aggravati dall’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, cit., per i quali, anzi, la valutazione del giudice di sorveglianza non sarebbe ancorata a dati obiettivi, ma alla sola interpretazione della motivazione della sentenza. Ne discende la necessità di differenziare il caso dei delitti commessi prima del 13 maggio 1991, data di entrata in vigore del d.l. n. 152 del 1991 introduttivo dell’art. 7, da quello dei delitti commessi successivamente al 12 maggio 1991, essendo necessario per questi ultimi, ai fini dell’operatività del divieto di accesso ai benefici penitenziari di cui all’art. 4 bis Ord. Pen., che la circostanza aggravante prevista dall’art. 7 sia stata contestata e ritenuta in sentenza. Tale interpretazione è già stata recepita dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 31636 del 09/05/2014, Parabita, non massimata, secondo la quale per i limiti intrinseci e strutturali che connotano la fase della esecuzione alla luce del principio di intangibilità del giudicato, l’attività interpretativa del giudice resta rigorosamente circoscritta entro i confini invalicabili del fatto contestato nell’imputazione e accertato nella sentenza, come giuridicamente qualificato nella pronuncia passata in giudicato, restando preclusa la possibilità di valutare e qualificare i fatti in modo difforme da quanto ritenuto dal giudice di merito, atteso che ciò comporterebbe la non consentita rideterminazione della res iudicata . Va, dunque, affermato il seguente principio di diritto in caso di delitti commessi dopo il 12 giugno 1991, il Tribunale di sorveglianza non può rivalutare la sentenza di condanna emessa dal giudice della cognizione ritenendo sostanzialmente esistente l’aggravante di cui all’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, convertito dalla legge n. 203 del 1991, e, quindi, operante il divieto di concessione dei benefici penitenziari ai sensi dell’art. 4 bis, comma 1, Ord. Pen., quando tale aggravante non sia stata contestata dal pubblico ministero e, conseguentemente, non sia stata riconosciuta come sussistente dal giudice della cognizione. È vero che tale orientamento, come affermato nell’ordinanza impugnata, risulta isolato, ma le pronunce difformi si riferiscono, tutte, a delitti commessi prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 152 del 1991, ad esclusione della sola pronuncia di cui alla sentenza della Sez. 1, n. 40043 del 05/07/2013, Rv. 257408, singolarmente emessa nei confronti dello stesso ricorrente, Parabita, che figura nel procedimento definito con la più recente sentenza della stessa Sez. 1, n. 31636 del 09/05/2014, che ha optato, invece, per la soluzione conforme a quella qui sostenuta, nel rispetto dei principi di correlazione tra accusa e sentenza e di intangibilità del giudicato. 2. L’accoglimento dei motivi finora esaminati rende superfluo l’esame delle altre censure di violazione di legge e vizio di motivazione che prescindono dal principio di diritto come sopra enunciato. 3. Segue l’annullamento dell’ordinanza impugnata e il rinvio degli atti per nuovo esame al Tribunale di sorveglianza di Catanzaro che dovrà uniformarsi a quanto stabilito nella presente sentenza. P.Q.M. Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di sorveglianza di Catanzaro.