La critica all'attività giudiziaria: quando diventa diffamazione?

L'esercizio del diritto di critica giudiziaria non può trasmodare nella accusa di malafede all'organo inquirente, non essendo consentito ledere la reputazione professionale e la sfera di onorabilità della persona offesa.

Così ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, con la sentenza n. 41671 depositata il 4 ottobre 2016. L'ultimo colpo di coda del G8 di Genova. I fatti oggetto della sentenza che oggi passeremo in rassegna traggono la loro origine in un incontro pubblico dedicato al decennale del G8 di Genova 2001-2011. Tutti ricorderanno i gravi incidenti che si verificarono 15 anni fa nel capoluogo ligure e gli strascichi giudiziari che ne derivarono. Tra i numerosi episodi di cronaca giudiziaria, oltre a quello dell'irruzione nella scuola Diaz, il più noto – anche per le forti polemiche che ne scaturirono – è quello della morte del giovane Carlo Giuliani, colpito da un proiettile esploso da un Carabiniere. Non ci addentreremo per ovvi motivi nel merito di queste vicende – tristi per l'Italia intera - peraltro ampiamente affrontate nelle sedi più disparate. La premessa però era, come si usa dire, d'obbligo nel corso della giornata dedicata al decennale, un avvocato avrebbe mosso dure critiche ad un magistrato, capo dell'ufficio inquirente che si occupava di far luce su quegli episodi di guerriglia urbana. L'accusa mossa al PM, stando alle frasi riportate in sentenza, è quella di avere condotto una pseudo-indagine” di aver indagato, insomma, con la voglia di non farlo. Da queste critiche, poi riportate in un articolo apparso su un noto quotidiano nazionale, scaturisce la querela per diffamazione. La questione sulla rinnovazione istruttoria in appello. Condannato in primo e secondo grado, il ricorrente avanza minuziose critiche nei confronti della sentenza d'appello. Tra le varie doglianze, ve n'è una relativa al rigetto di una precisa richiesta di rinnovazione parziale dell'istruzione dibattimentale. La Suprema Corte ha condiviso le conclusioni del giudice di seconda istanza dopo ampi richiami al merito della vicenda, che risparmiamo ai lettori, si è sostenuto che nel giudizio di appello la rinnovazione istruttoria implica una valutazione, da parte del giudice di merito, della prova da acquisire come elemento potenzialmente idoneo ad incidere sulla valutazione del complesso degli elementi acquisiti . In altri termini, al giudice dell'impugnazione si richiede di saper indovinare” il risultato probatorio ottenibile da specifici mezzi di prova prima ancora – ed è ovvio – che essi siano acquisiti. Ognuno può ben immaginare la difficoltà di un'operazione valutativa del genere, ma soprattutto, stante il principio appena riportato, l'assoluta imprevedibilità degli esiti di una richiesta di rinnovazione. Il controllo sulla legittimità di un rigetto della richiesta di rinnovazione istruttoria sarà operato sulla motivazione, con il limite che questa potrà essere censurata soltanto per ragioni logiche e non di merito. La critica giudiziaria confini e limiti. E veniamo adesso al punto dolente della vicenda, che traspare a chiare lettere dal testo della sentenza impugnata si può criticare o contestare un provvedimento giudiziario, o l'operato di questo o di quel magistrato? O meglio la critica può esprimersi anche al di fuori del contesto processuale? nel corpo di un atto di impugnazione è scontato che si possano esprimere – coi dovuti limiti lessicali – tutte le critiche possibili e immaginabili . In un regime democratico, ispirato al principio di libera manifestazione del pensiero, la risposta al quesito non può che essere positiva. Anche la Suprema Corte è naturalmente di questo avviso, così come traspare a chiare lettere dal testo della sentenza in commento. Vi sono, però, dei paletti. Vero è che la modalità con cui la Procura ha condotto una determinata indagine può ben essere soggetta a critica, ma le censure non possono trasmodare in accuse di malafede dell'organo inquirente, cui, secondo la Corte, non può essere attribuito di avere condotto le indagini in base ad un'idea precostituita e preconcetta . Il principio generale secondo cui la sfera del decoro professionale debba essere intangibile è a dir poco encomiabile, soltanto ci si augura – e sarà certamente così – che esso abbia valenza generale, e che sia riferibile a tutti gli operatori del mondo giustizia”.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 7 luglio – 4 ottobre 2016, n. 41671 Presidente Fumo – Relatore Catena Ritenuto in fatto 1. Con la sentenza impugnata il Tribunale di Torino, in composizione monocratica ed in funzione di giudice di appello, confermava la sentenza emessa in data 25/09/2014 dal Giudice di pace di Torino nei confronti di M.E.P. in relazione al delitto di cui all’art. 595, commi 1 e 2, cod. pen., perché, nel corso dell’incontro pubblico tenutosi in occasione del decennale del G8 di , offendeva l’onore ed il decoro del sostituto procuratore della Repubblica di , dott. F.S. , titolare del procedimento relativo al decesso di G.C. , rilasciando le seguenti dichiarazioni F. voleva chiudere l’indagine in un sol modo, prima ancora di cominciarla. Infatti quella sulla morte di G.C. è stata una pseudo-indagine , nonché riferendo falsamente che non era stata fatta l’autopsia sul corpo di G.C. , così ingenerando l’idea nel pubblico che il pubblico ministero avesse svolto le funzioni inquirenti contrariamente ai suoi doveri di ufficio, non con il fine di accertare la verità, ma di archiviare il caso con l’aggravante dell’attribuzione di un fatto determinato. In omissis . 2. Con ricorso il difensore del M.E.P. , Avv.to Gilberto Pagani, deduce 2.1. violazione di legge e vizio di motivazione, ex art. 606, lett. b ed e , cod. proc. pen., in relazione all’art. 595 cod. pen., rilevando come la sentenza di appello abbia modificato l’impianto motivazionale della sentenza di primo grado, affermando che l’intenzionalità delle omissioni, attribuite al pubblico ministero dott. F.S. dal ricorrente, non attenesse al requisito della continenza, bensì al contenuto stesso della comunicazione, ed aggiungendo che l’asserita incompletezza delle indagini rientrava nel nucleo oggettivo della comunicazione stessa, della quale doveva verificarsi la veridicità alla luce degli elementi all’epoca disponibili e non di quelli emersi successivamente, giustificando in tal modo il rigetto dell’istanza di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale ciò costituirebbe una motivazione illogica proprio perché la sentenza contiene un riferimento a materiale video che il pubblico ministero nella sua richiesta di archiviazione riteneva esistente, ma che gli inquirenti non avevano avuto a disposizione, sottolineando la difesa come detti materiali, invece, fossero contenuti proprio nel video di cui era stata chiesta l’acquisizione ex art. 603 cod. proc. pen., non intendendosi affatto sottoporre materiale all’epoca dei fatti non disponibile, bensì proprio quel materiale già a disposizione della Procura e del Giudice delle indagini preliminari e dagli stessi non correttamente valutato, ed attualmente necessario al ricorrente per dimostrare in maniera tecnica le ragioni delle sue critiche all’operato del pubblico ministero, materiale che è stato in sentenza qualificato come collage , con evidente valenza dispregiativa, pur non essendo lo stesso mai stato visionato dal Tribunale in ogni caso, poi, nessuna motivazione sarebbe stata fornita dalla sentenza impugnata in ordine alla richiesta formulata ai sensi dell’art. 603, cod. proc. pen., di esaminare i testi G. e Pa. il secondo, in particolare, quale consulente delle parti lese, avrebbe avuto la possibilità di riferire sulla incompletezza delle indagini. La illogicità della motivazione della sentenza, quindi, apparirebbe evidente nella misura in cui si sostiene che le affermazioni del ricorrente siano diffamatorie in quanto contrarie alla verità, seppure esposte in maniera continente, impedendo però all’imputato di dimostrare la fondatezza di quanto da lui asserito, con particolare riferimento alla ricostruzione della traiettoria del proiettile sparato dal P. , dalla ferita a forma di stella rilevata sulla fronte di G.C. , rilevata dall’autopsia e visibile dalle foto alla stessa allegate, su cui nessuna indagine era stata effettuata 2.2. violazione di legge ex art. 606, lett. b , cod. proc. pen., in relazione all’art. 530, comma 2, cod. proc. pen., in quanto si è pervenuti alla sentenza di condanna senza prova certa in ordine alle frasi pronunciate, basandosi la sentenza su due frasi pronunciate in occasione di un intervento pubblico e poi pubblicate sul quotidiano omissis in un articolo a firma del giornalista C.M. , non avendo il Tribunale messo in dubbio la corrispondenza tra quanto riportato dall’articolo e quanto affermato dal ricorrente, il quale nel corso dell’esame ha riconosciuto il senso complessivo del suo intervento, affermando peraltro di non ricordare le frasi specifiche, dato il tempo trascorso in particolare si sottolinea come sarebbe stato impossibile che il ricorrente, nella sua qualità di legale della famiglia G. e, quindi, a conoscenza degli atti processuali, avesse potuto affermare che non fosse stata effettuata l’autopsia sul corpo di G.C. , dal che sarebbe dovuto emergere evidente l’errore del cronista, considerato che l’Avv.to M. aveva, in realtà, criticato l’improvvida decisione di autorizzare la cremazione della salma ancor prima di aver letto le risultanze dell’esame autoptico, emergendo come del tutto erronea la motivazione della sentenza sul punto, che da un lato sottolinea la qualifica personale dell’Avv.to M. , senza però operare analoga valutazione in ordine al teste C. , che ben avrebbe potuto confondersi nel riportare le frasi pronunciate durante il convegno 2.3. violazione di legge ex art. 606, lett. b , cod. proc. pen., in relazione all’art. 596 cod. pen., che ammette sempre la prova della verità del fatto quando la persona offesa sia un pubblico ufficiale ed il fatto ad esso attribuito si riferisca all’esercizio delle funzioni, avendo, quindi, il giudice erroneamente impedito l’acquisizione delle prove che avrebbero condotto a chiarire la putatività del fatto in sostanza l’Avv.to M. aveva sostenuto che la decisione del pubblico ministero di autorizzare la cremazione fosse stata avventata ed avesse precluso la possibilità di ulteriori indagini, ed inoltre che nuovi elementi non fossero stati vagliati, il che induceva a ritenere che il pubblico ministero titolare delle indagini si fosse formato un’idea preconcetta della dinamica della morte di G.C. , non essendo stato disponibile a verificare la verosimiglianza anche di altri scenari, come peraltro sottolineato dagli stessi consulenti della Procura di in tal senso a nulla rileva affermare che la famiglia G. avesse richiesto la cremazione, in quanto la stessa famiglia certamente non poteva essere a conoscenza delle indagini in corso, per cui solo il titolare delle stesse avrebbe potuto valutare l’opportunità o meno di rilasciare il nulla osta alla cremazione ne conseguirebbe, pertanto, che la motivazione sul punto della sentenza risulti palesemente contraddittoria inoltre quanto espresso dall’Avv.to M. costituirebbe una critica all’operato anche del Giudice dell’udienza preliminare, che avrebbe fondato il suo provvedimento su di una testimonianza anonima trovata in Internet, documento privo di qualsivoglia valore legale, con la conseguenza che le affermazioni del ricorrente si baserebbero su circostanze di fatto supportate dagli atti processuali e costituirebbero manifestazione del diritto di critica, che annovera tra i propri elementi anche la putatività del fatto, come sarebbe stato possibile dimostrare attraverso la richiesta rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale. Considerato in diritto Il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato. La ricostruzione dell’iter argomentativo della sentenza impugnata, al fine di valutare la rilevanza critica delle doglianze poste a fondamento del ricorso, impone di considerare che - secondo quanto si evince chiaramente dalla formulazione della contestazione - al ricorrente è stata attribuita la formulazione di diverse affermazioni, di cui una riportata testualmente - F. voleva chiudere l’indagine in un sol modo, prima ancora di cominciarla. Infatti quella sulla morte di G.C. è stata una pseudo-indagine - e l’altra riportata sinteticamente - consistente nell’aver affermato che il pubblico ministero titolare delle indagini non avrebbe disposto l’autopsia sul corpo di G.C. . Ferma restando la necessità metodologica - correttamente seguita dal percorso motivazionale di entrambe le sentenze di merito - di valutare il significato complessivo risultante da dette affermazioni, ai fini della sussistenza del reato contestato, va detto che i motivi di ricorso hanno sviluppato molteplici argomentazioni al fine di confutare la sussistenza dell’elemento materiale del reato, come individuato. Il primo motivo - premesso che la sentenza di appello, a differenza di quella di primo grado che aveva fondato la motivazione sull’aspetto della continenza, ha affermato che l’interpretazione delle omissioni attribuite dall’imputato al dott. F. non attenga al requisito della continenza elaborato dalla giurisprudenza bensì al contenuto stesso della comunicazione - ha sottolineato la necessità di verificare la verità delle affermazioni del ricorrente alla luce del materiale video oggetto dell’istanza di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, rigettata in grado di appello. La formulazione delle argomentazioni a tale proposito è, tuttavia, piuttosto confusa, non consentendo di comprendere quale fosse il tipo di materiale video che si intendeva sottoporre alla giudice di appello in particolare si afferma in ricorso che si trattava di materiale già a disposizione degli inquirenti e da questi non attentamente esaminato, il che contrasta con la motivazione della sentenza, dalla quale, al contrario, si evince - in riferimento alla motivazione del decreto di archiviazione - che il detto materiale fosse frutto di un successivo assemblaggio di immagini riconducibili ad operatori facenti capo al movimento omissis e non consegnate agli inquirenti all’epoca delle indagini. Anche volendo prescindere dalla scarsa chiarezza in ordine all’individuazione del materiale di cui era stata avanzata richiesta di acquisizione in sede di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, ciò che risulta del tutto criptico, alla luce della formulazione del ricorso, appare il nesso funzionale tra il materiale citato e le doglianze poste a base del ricorso stesso, non comprendendosi, cioè, in che modo il video potesse essere funzionale alla dimostrazione della veridicità delle affermazioni formulate dall’Avv.to M. . Questi, infatti, ha affermato di voler dimostrare che le indagini furono condotte in maniera superficiale, senza, tuttavia, confrontarsi, sotto detto aspetto, con la motivazione della sentenza, la quale ha sottolineato - tra gli altri argomenti a sostegno dell’accuratezza delle indagini stesse - come nel corso dell’attività i legali delle parti avessero partecipato largamente alle fasi delle indagini, anche a prescindere dalla irripetibilità delle stesse. Sotto un ulteriore aspetto - con particolare riferimento alla frase concernente la mancata effettuazione dell’autopsia - il ricorso contrappone il possibile errore del cronista, in relazione peraltro ad una frase non riportata tra virgolette, alla specifica competenza professionale del ricorrente che, in quanto legale della famiglia G. e come tale a conoscenza dello svolgimento delle indagini, mai avrebbe potuto affermare quanto a lui evidentemente noto, cioè che l’autopsia fosse stata eseguita, avendo egli affermato circostanza del tutto diversa, ossia che fosse stata improvvida la decisione del pubblico ministero di autorizzare la cremazione del cadavere a soli tre giorni dalla morte, senza aver atteso l’esito dell’autopsia, in tal senso essendosi incentrata la critica su una decisione frettolosa che, in concreto, aveva impedito l’approfondimento delle indagini, come sarebbe stato possibile dimostrare attraverso l’esame dei testi G.G. , padre di G.C. , e Pa.Pi. , consulente della famiglia G. . A tale proposito va osservato che la sentenza di primo grado, nel riportare la deposizione del teste C.M. - autore dell’articolo comparso sul quotidiano omissis , edizione di omissis , a seguito dell’incontro tenutosi in occasione del decennale della morte di G.C. ha ricordato che il teste, tra le altre frasi riportate nell’articolo come pronunciate dall’Avv.to M. , aveva confermato in particolare la seguente frase sarebbe stato fondamentale eseguire l’autopsia sul corpo del giovane ucciso ma i genitori ne chiesero la cremazione . Non lo fece, F. voleva chiudere l’indagine in un certo modo prima ancora di cominciarla, infatti quella della morte di G.C. è stata una pseudo indagine . Il teste, inoltre, aveva espressamente specificato che nessuna aggiunta alle frasi dell’Avv.to M. era stata riportata nel corpo dell’articolo. A sua volta la sentenza di secondo grado ha fondato la valutazione di attendibilità del teste C. sull’affermazione di questi, di aver riportato fedelmente le frasi dopo averne avuto conferma in un colloquio telefonico con l’Avv.to M. precedente la pubblicazione dell’articolo e finalizzato all’approfondimento del tema oggetto dello stesso né la valutazione di credibilità del teste, a parere del giudice di secondo grado, sarebbe scalfita dalle dichiarazioni dell’imputato, che in sede di interrogatorio aveva confermato e rivendicato il senso generale delle sue affermazioni, pur dichiarando di non ricordare con esattezza il tenore delle frasi pronunciate. In conclusione la metodologia del giornalista - consistente nel basarsi su appunti presi nel corso dell’incontro, ottenendo poi conferma delle frasi in un successivo colloquio telefonico - e la sostanziale conferma da parte dell’Avv.to M. del senso delle frasi, costituiscono elementi convergenti nel senso dell’attendibilità del giornalista. Vero è che la sentenza di secondo grado ha utilizzato dette argomentazioni unicamente in riferimento alla frase riportata tra virgolette nel capo d’imputazione - con esclusione, quindi, dell’affermazione concernente il mancato espletamento dell’autopsia, non riportato tra virgolette nel citato capo d’imputazione - ma evidentemente, integrando la motivazione della sentenza oggetto del vaglio di legittimità con quella di primo grado, deve operarsi un esame complessivo della tenuta logica della motivazione globalmente intesa, in relazione alla sussistenza di un reato che, nel concreto svolgersi della condotta, deve essere valutato nella sua interezza, non potendo parcellizzarsi il tenore diffamatorio o meno delle singole affermazioni, né potendo darsi rilevanza alla circostanza che nel descrivere la condotta sia stato omesso di riportare una delle affermazioni tra virgolette, laddove risulta chiaramente dalla motivazione del primo giudice come tutte le frasi incriminate fossero state, in realtà, indicate dall’articolo come pronunciate direttamente dal ricorrente nel medesimo contesto. Né, in ogni caso, la presenza o meno delle virgolette può determinare una diversa metodologia nella valutazione di attendibilità del teste C. , a fronte della cui ricostruzione dei fatti neanche il ricorrente ha recisamente negato di aver pronunciato le frasi a lui attribuite, confermando il contenuto generale della critica formulata all’operato del dott. F.S. , titolare delle indagini. Ne deriva che in sede di legittimità non appare possibile ribaltare la valutazione di attendibilità del teste C. sulla scorta di quella che appare una mera illazione, ossia l’erronea interpretazione da parte del giornalista di quanto ascoltato, a fronte dei dati specifici evidenziati dai giudici di merito in ordine alla metodologia seguita nel redigere l’articolo, non avendo la difesa del ricorrente neanche in sede di giudizio di appello dedotto e neppure allegato circostanze fattuali idonee a dimostrare che la frase circa la mancata effettuazione dell’autopsia non fosse mai stata pronunciata. Appare infatti evidente che solo in sede di merito - ad esempio attraverso la registrazione dell’intervento dell’Avv.to M. nel corso dell’incontro pubblico, ovvero attraverso prove testimoniali - sarebbe stato possibile introdurre elementi di segno opposto in grado di gettare un ragionevole dubbio sulla bontà del ricordo del giornalista solo ove ciò fosse avvenuto, e nel caso in cui di dette prove in sede di merito non si fosse tenuto conto in maniera corretta dal punto di vista valutativo, la difesa avrebbe potuto far valere il travisamento della prova. Al contrario, invocare una violazione di legge in conseguenza della mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, al fine di dimostrare che la frase concernente l’autopsia non sarebbe mai stata pronunciata, non può apparire rilevante in questa sede, non solo perché non emerge da alcun passaggio motivazionale delle sentenze di merito che il ricorrente abbia mai negato di aver pronunciato detta frase, ma soprattutto in quanto seppure le deposizioni dei testi G. e Pa. avessero dimostrato - secondo l’intento difensivo - che le indagini avrebbero meritato ulteriori approfondimenti non effettuati, ciò non avrebbe in alcun modo dimostrato automaticamente e conseguentemente che l’Avv.to M. non avesse anche affermato che l’autopsia non era stata effettuata. Chiaro è l’intento difensivo di addivenire, attraverso una prova logica, alla dimostrazione dell’insussistenza della frase indicata, ed altrettanto pacifico e corretto è il principio cui ci si richiama - ossia quello secondo cui è sempre ammessa la prova liberatoria allorquando la persona offesa sia un pubblico ufficiale ed il fatto ad esso attribuito si riferisca all’esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell’art. 596, comma terzo, n. 1, cod. pen. - ciò che tuttavia deve osservarsi è che, nel caso specifico, le prove richieste in sede di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale non sarebbero state in alcun modo idonee a fornire detta dimostrazione. Ed infatti, come risulta dal capitolato di prova articolato dalla difesa del ricorrente - riportato nella motivazione della sentenza di primo grado - i testi G. e Pa. avrebbero dovuto essere escussi sulle circostanze relative alla morte di G.C. , sul contenuto delle indagini svolte dalla Procura della Repubblica di e sugli accertamenti tecnici eseguiti dai consulenti della Procura di Genova, sulla presenza, sulla fronte di G.C. di una ferita del diametro di cm. 5, sulla dinamica in seguito alla quale venne causata tale ferita proprio su dette circostanze le deposizioni sono state ritenute dal primo giudice irrilevanti rispetto alla formulazione del capo d’imputazione e, anche nel silenzio della sentenza di secondo grado sul punto, appare evidente come anche il secondo giudice abbia condiviso detta motivazione. In realtà le prove come articolate avrebbero potuto - in ipotesi astratta dimostrare che la critica di incompletezza o di lacunosità delle indagini fosse fondata, ma non certamente che l’Avv.to M. non avesse mai pronunciato l’affermazione circa la mancata effettuazione dell’autopsia. E che detta frase contrasterebbe con il patrimonio cognitivo e professionale del ricorrente risulta, pertanto, in assenza di prove specifiche prodotte o almeno allegate in sede di giudizio di merito, una mera affermazione congetturale del tutto priva di riscontro fattuale. Inoltre la linea difensiva sottesa al ricorso - secondo cui il ricorrente in realtà aveva pronunciato solo una frase di critica avente ad oggetto il rilascio del nullaosta alla cremazione e non certamente la frase sul mancato espletamento dell’autopsia sul corpo di G.C. - risulta espressamente contraddetta dalla motivazione della sentenza di primo grado, da cui si evince che il ricorrente aveva pronunciato tutte le predette affermazioni. Ed infatti, a pag. 3 della sentenza il primo giudice, nel riportare la deposizione della persona offesa, ha ricordato che questi si fosse sentito diffamato ed offeso sia come persona che nel suo ruolo professionale da alcune affermazioni dell’avv. M. , secondo cui l’indagine da lui svolta relativamente ai fatti del G8 di del , durante i quali aveva perso la vita il giovane G.C. , fosse già decisa nelle conclusioni e che si trattasse di una pseudo-indagine” ed inoltre veniva riportato un fatto non corrispondente al vero e cioè che non era stata effettuata la perizia autoptica sul corpo del G. , circostanza questa, ha tenuto a precisare il dott. F. , che se fosse stata vera avrebbe costituito certamente una abnormità in un procedimento di indagine per omicidio. In ordine ad altra dichiarazione dell’avv. M. e però il P.M. doveva avere il buonsenso di impedire la cremazione. Non lo fece, ha ancora chiarito il dott. F. che, ultimate le operazioni autoptiche, per evidenti motivi, il corpo viene consegnato nella disponibilità dei parenti, i quali possono decidere in merito al seppellimento o alla cremazione della salma, con decisione rimessa alla volontà degli stessi . Ne consegue che proprio detta motivazione finisce per smentire le argomentazioni difensive - secondo cui il ricorrente non avrebbe potuto riferire della mancata effettuazione dell’autopsia, essendosi egli limitato a considerare inopportuno il rilascio del nulla-osta alla cremazione - atteso che egli aveva effettuato entrambe le affermazioni, secondo il citato passaggio motivazionale della sentenza di primo grado, che non risulta in alcun modo contestato. In ogni caso, va ricordato che nel giudizio di appello la rinnovazione istruttoria implica una valutazione, da parte del giudice di merito, della prova da acquisire come elemento potenzialmente idoneo ad incidere sulla valutazione del complesso degli elementi acquisiti, ossia, se trattasi di prova sopravvenuta, della idoneità del dato probatorio a determinare un effettivo ampliamento delle capacità cognitive in chiave di ricostruzione della vicenda. Nel caso in esame, per le ragioni indicate, ciò non si è verificato, con la conseguenza che la mancata rinnovazione dibattimentale in grado di appello non appare in questa sede censurabile, non essendosi verificate, nell’apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, alcuna lacuna o manifeste illogicità, ricavabili dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza, le quali sarebbero state presumibilmente evitate provvedendosi all’assunzione o alla riassunzione di determinate prove in appello, non essendo, in tal caso, necessaria una motivazione esplicita del rigetto, enucleabile dalla sussistenza di elementi sufficienti ad affermare la responsabilità dell’imputato Sez. 6, sentenza n. 1400 del 22/10/2014, Rv. 261799 Sez. 6, sentenza n. 11907 del 13/12/2013, Rv. 259893 . Inoltre va considerato che la condotta diffamatoria ascritta al ricorrente non consiste in una semplice critica alle modalità - più o meno superficiali e lacunose - di conduzione delle indagini, il che, evidentemente sarebbe stato del tutto compatibile con il diritto di critica ciò che si contesta alla persona offesa, infatti, è di avere svolto il proprio ruolo professionale sulla scorta di una idea preconcetta, in base ad una precostituita decisione che avrebbe condotto ad una richiesta di archiviazione, in funzione della quale sarebbe stata volontariamente svolta una indagine carente e superficiale, ossia una pseudo-indagine , tale essendo il senso palese ed inequivoco della frase F. voleva chiudere l’indagine in un sol modo, prima ancora di cominciarla. Infatti quella sulla morte di G.C. è stata una pseudo-indagine . Rispetto a detto nucleo centrale della condotta l’affermazione concernente la mancata disposizione di eseguire l’autopsia assume un ruolo di completamento della portata offensiva dei beni giuridici tutelati, già pienamente realizzatasi con la pronuncia della frase riportata tra virgolette nel capo di imputazione. Chiarito detto aspetto appare del tutto fuorviante concentrarsi sul profilo dell’autorizzazione alla cremazione della salma rilasciata più o meno opportunamente dal pubblico ministero - aspetto su cui la motivazione della sentenza impugnata appare peraltro non proprio puntuale, atteso che la valutazione delle possibilità di successive indagini non può non essere presa in considerazione dal pubblico ministero al fine di considerare e decidere se rilasciare o meno il nulla-osta alla cremazione - così come appare del tutto incongruo rispetto alla condotta contestata focalizzarsi sulla prova liberatoria, in quanto il ricorrente non aveva formulato accuse di negligenza al pubblico ministero titolare delle indagini, bensì aveva chiaramente affermato che questi avesse condotto le stesse in base ad un un’idea precostituita e preconcetta. Non vi è alcun dubbio, infatti, che l’esercizio del diritto di critica giudiziaria non possa consistere nella gratuita attribuzione di malafede a chi conduce le indagini, non potendo, cioè, realizzarsi in una critica che venga esercitata in maniera lesiva della reputazione professionale e della intangibilità della sfera di onorabilità del magistrato del pubblico ministero pur potendo ogni provvedimento giudiziario essere oggetto di critica anche aspra, questa, tuttavia, non deve risolversi in un attacco alla stima di cui gode il soggetto criticato. Si deve peraltro ribadire che, in tema di diffamazione a mezzo stampa, la supposta sussistenza della verità obiettiva del fatto diffamante, anche se di per sé rilevante, non esclude in alcun modo il dolo del reato. Occorre infatti ricordare che per la sussistenza dell’elemento psicologico della diffamazione è sufficiente il dolo generico, vale a dire la consapevolezza di offendere l’altrui onore o l’altrui reputazione, anche nella forma del dolo eventuale ne consegue che, allorquando il carattere diffamatorio delle espressioni rivolte assuma una consistenza diffamatoria intrinseca, come verificatosi nel caso in esame, che, tra l’altro, non può sfuggire all’agente, dato il suo livello professionale specifico, non è necessaria alcuna particolare indagine sulla presenza o meno dell’elemento psicologico Sez. 5, sentenza n. 11663 del 23/09/1997, Cantonetti, Rv. 209262 . Ciò risulta del tutto conforme anche a quanto affermato dalla Corte EDU che, con la sentenza del 02/11/2006, Kobenter e Standard c/ Austria, ha affermato - in un caso di diffamazione a mezzo stampa - la necessità che in una società democratica il pubblico sia informato del funzionamento del sistema giudiziario, al fine di verificare se i giudici assolvano le loro alte responsabilità in modo conforme alle finalità per le quali sono stati investiti tuttavia l’apparato giudiziario deve essere tutelato da attacchi distruttivi essenzialmente infondati, che minano la fiducia del pubblico nella giustizia, soprattutto in considerazione del fatto che i giudici chiamati in causa hanno un dovere di discrezione che impedisce loro di poter replicare alle accuse subite. Nel caso in esame proprio il ruolo professionale del ricorrente rende evidente come egli fosse consapevole della portata fortemente lesiva delle affermazioni da lui fatte in relazione all’operato del pubblico ministero titolare delle indagini sulla morte di G.C. , nonché della inesattezza delle affermazioni stesse, la cui valenza risulta ben al di là di quella che avrebbe potuto essere una legittima critica di insufficienza delle indagini, che ben avrebbe potuto essere articolata con modalità adeguate alla funzione informativa ed allo stesso diritto di critica. Dal rigetto del ricorso discende, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.