Rapporto tra funzione general-preventiva e funzione rieducativa della pena

La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, pone in evidenza due temi molto importanti

La sentenza n. 37578/2016, al di là della specifica questione posta all’attenzione della magistratura di sorveglianza prima e del Giudice delle Leggi infine espiazione della pena dell’ergastolo in relazione a reati c.d. ostativi ex art. 4 bis O.P. ed accessibilità del detenuto ai benefici penitenziari e prescindendo anche dagli esiti prevedibilmente infausti delle doglianze difensive in prima istanza ed in sede di reclamo attesa la assenza, nel caso de quo , del presupposto indefettibile della avvenuta collaborazione ex art. 58 ter O.P. da parte del ricorrente , pone in evidenza due temi. Tempus regit actum. In primo luogo, la Suprema Corte conferma il proprio indirizzo giurisprudenziale in punto natura processuale delle norme sull’Ordinamento penitenziario ex lege n. 354/75, a tenore del quale le disposizioni e gli istituti giuridici contenutivi che non afferiscano alla cognizione del reato o alla irrogazione della sanzione, ma alle modalità esecutive della pena tra questi si inseriscono quelli regolanti l’accesso ai benefici extramurari ex art. 30 ter O.P. , non hanno natura sostanziale, bensì procedimentale e conseguentemente soggiacciono al principio tempus regit actum . Tale approccio ermeneutico ha non solo immediate ricadute sul piano concreto, per esempio in termini di successione di legge nel tempo e retroattività delle norme penali, ma soprattutto - per quanto in questa sede ci occupa - impone una coerente lettura di tutti i meccanismi previsti dall’O.P Politica criminale. Tra questi quindi - ed ecco il secondo dictum - anche l’art. 4 bis l. cit., il quale anzi, essendo posto non a caso tra i principi direttivi della disciplina penitenziaria Titolo I Capo I , deve permeare di sé tutti gli istituti previsti dalle successive norme carcerarie. La norma in parola è infatti il risultato della legittima e proporzionata scelta di politica criminale fatta propria dal Legislatore, tesa a rendere più difficile, in presenza di esecuzione di pene per reati espressione del fenomeno del c.d. crimine organizzato, l’accesso a misure esocarcerarie ed a subordinare tale fruibilità a scelte collaborative, in quanto tali ritenute indicative di resipiscenza e cesura rispetto al precedente agito antigiuridico. La collocazione sistemica di tale disposizione ed il suo testo letterale, unitamente alla intentio legis , non consentono impostazioni difformi ogni qual volta si voglia accedere ad una misura premiale ex lege n. 354/75, deve sempre aversi riguardo se il reato in espiazione sia uno tra quelli ricompresi ex art. 4 bis e coordinare tale disposto con il precetto della singola norma regolatrice dello specifico beneficio penitenziario cui si vuole accedere. In considerazione di quanto sopra rilevato, può affermarsi che l’arresto in commento si inserisce nel solco della giurisprudenza oramai cristallizzatasi In materia penitenziaria, tendente a far prevalere anche in executivis finalità securitarie/retributive anziché trattamentali/rieducative nella gestione del contrasto al fenomeno delinquenziale associativo.

Corte di Cassazione, sez. I penale, sentenza 3 febbraio – 9 settembre 2016, n. 37578 Presidente Vecchio – Relatore Minchella Rilevato in fatto Con ordinanza in data 05.02.2015 il Tribunale di Sorveglianza di Milano rigettava il reclamo proposto da M.R., detenuto in espiazione della pena dell'ergastolo, avverso il provvedimento con cui il Magistrato di Sorveglianza di Varese aveva dichiarato inammissibile la sua istanza di permesso premio. Rilevava il Tribunale di Sorveglianza che la declaratoria di inammissibilità aveva fatto seguito al rigetto dell'istanza di riconoscimento di una collaborazione con la giustizia ai sensi dell'art. 58 ter O.P. la competente DDA aveva evidenziato la strumentalità e la parzialità delle dichiarazioni del M. e che il M. aveva lamentato una interpretazione della norma che stabiliva una presunzione di non accessibilità ai benefici penitenziari. Ma si evidenziava che il detenuto stava espiando la pena dell'ergastolo con isolamento diurno per reati ostativi c.d. di prima fascia , rispetto ai quali non vi era stata né collaborazione con la giustizia né dichiarazione di impossibilità od irrilevanza di detta collaborazione pertanto il reclamo veniva rigettato. Avverso detta ordinanza propone ricorso l'interessato a mezzo del Difensore, deducendo i vizi di cui all'art. 606, comma 1 lett b ed e , cod.proc.pen. in primo luogo si contesta che dovrebbe farsi luogo all'applicazione della legge penale più favorevole, verificando se nella fattispecie si tratti di norme sostanziali o processuali in secondo luogo si sostiene che il testo dell'art. 30 ter O.P. farebbe chiaramente intendere che l'espiazione di dieci anni di pena renderebbe ammissibile comunque ogni istanza di permesso premio, per l'antinomia di detta norma con quella di cui all'art. 4 bis O.P., sottolineando che il condannato avrebbe già raggiunto detta soglia espiativa in terzo luogo, si afferma che la necessità della collaborazione con la giustizia costringerebbe un detenuto ad un dovere di collaborare che spingerebbe la pena fuori dalla finalità rieducativa in quarto luogo si lamenta che il Tribunale di Sorveglianza non avrebbe esaminato i profili di pericolosità sociale del condannato, ignorando che il M. era stato collocato nel circuito dei collaboratori di giustizia e che il suo clan di appartenenza sarebbe ormai disciolto. Il P.G. chiede dichiararsi inammissibile il ricorso, giacchè il ricorrente espia reati ostativi e non ha collaborato con la giustizia. Considerato in diritto Il ricorso è infondato e deve essere rigettato. La vicenda che ha dato origine al ricorso è stata sopra sintetizzata giova ribadire che il M. ha avanzato istanza di concessione di un permesso premio, dichiarata però inammissibile dal competente Magistrato di Sorveglianza a causa dell'espiazione in atto, da parte dell'instante, di una pena relativa alla commissione di reati c.d. ostativi , ricompresi nel novero della preclusione assoluta di cui all'art. 4 bis O.P. e della mancanza di una valida collaborazione con la giustizia o di una dichiarazione di impossibilità di detta collaborazione. Il condannato ha avanzato reclamo, ma il menzionato Tribunale di Sorveglianza non ha accolto la sua impugnazione, ribadendo le ragioni prima evidenziate. Il ricorrente, nel muovere le sue doglianze avverso la citata ordinanza, propone sostanzialmente una serie di motivi che possono riportarsi nel modo seguente 1 natura sostanziale delle norme regolatrici dell'esecuzione della pena, con conseguente applicabilità dell'applicazione della legge più favorevole 2 contrasto tra il disposto di cui all'art. 4 bis O.P. e quello di cui all'art. 30 ter, quarto comma lett. d , O.P., con prevalenza di quest'ultima norma e sufficienza dell'espiazione di anni dieci di reclusione per l'accesso ai permessi premio 3 estraneità della collaborazione con la giustizia dal tema della funzione rieducativa della pena 4 mancato esame dei profili di pericolosità sociale del ricorrente. Nessun motivo è fondato. È opportuno premettere che, in origine, la disciplina dei premessi premio non prevedeva presupposti oggettivi, corrispondendo in ciò alla premessa ideologica della permeabilità al trattamento di qualsiasi soggetto e alla scelta di politica penitenziaria consistente nel ritenere conveniente dare a tutti, in modo eguale, la possibilità di accedere ai benefici premiali. La necessità di contrastare più efficacemente la criminalità organizzata ed il verificarsi di alcuni episodi, denotanti un uso improprio dell'istituto, hanno indotto il Legislatore a modificare sensibilmente questa parte della normativa, introducendo, a partire da provvedimenti dell'anno 1991, nell'art. 30 ter O.P. alcuni limiti riferiti anche alla natura del reato ascritto al soggetto e nell'art. 4 bis O.P. ulteriori preclusioni, dipendenti da esigenze più spiccatamente ascrivibili alla politica penitenziaria. In particolare, il comma primo dell'art. 4 bis O.P. enumera una serie di delitti ordinariamente indicati come ostativi di prima fascia l'espiazione di una condanna relativa a tali delitti, infatti, non consente la concessione di una serie di benefici penitenziari, tra i quali va annoverato appunto il permesso premio. Questa condizione giuridica è superabile soltanto in presenza di alcuni requisiti di legge, espressamente previsti dal comma 1 bis dell'art. 4 bis O.P. e cioè, primariamente, l'avvenuta collaborazione con la giustizia oppure, da un lato, l'acquisizione di elementi tali da escludere l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata e, d'altro lato, l'impossibilità o l'irrilevanza di una collaborazione con la Giustizia per varie ragioni limitata partecipazione al fatto criminoso od integrale accertamento dei fatti , anche in ragione di quanto previsto dall'art. 58 ter O.P., secondo il quale l'avvenuta collaborazione elide le necessità del rispetto di determinate soglie di pena espiata. Tanto premesso, vanno esaminati i singoli motivi di doglianza. § 1 .In ordine alla natura delle norme dell'ordinamento penitenziario, va detto che la giurisprudenza della Corte EDU ha fortemente valorizzato la centralità dell'art. 7 della Convenzione, che sancisce il principio di legalità dei reati e delle pene la stessa Corte sent. 17 settembre 2009, Scoppola si è pronunziata sulla controversa costituzionalizzazione del principio di retroattività della lex mitior enunciato nell'art. 2 cod. pen. ed ha affermato che il richiamato art. 7 non sancisce solo il principio della irretroattività delle leggi penali più severe, ma anche, e implicitamente, il principio della retroattività della legge meno severa. Tale principio, enunciato quale riconosciuto frutto di un lento progresso dei pensiero giuridico, non diviene, però, per ciò solo, al contempo, un principio applicabile ad ogni branca dell'ordinamento intero. E' la stessa Corte che si perita di chiarire che resta ragionevole l'applicazione del principio tempus regit actum per quanto riguarda l'ambito processuale, pur dovendosi accuratamente definire, di volta in volta, se le norme di cui si discute appartengano o meno alla sfera del diritto penale sostanziale o di quello processuale. Nel caso di specie, il Collegio ritiene che le norme dell'ordinamento penitenziario abbiano natura processuale, così aderendo ad un consolidato orientamento giurisprudenziale di questa Corte , secondo il quale, in caso di successione di disposizioni diverse concernenti misure alternative alla detenzione, che non attengono né alla cognizione dei reato, né all'irrogazione della pena, ma alle modalità esecutive di questa, non operano le regole dettate dall'art. 2 cod. pen., né il principio costituzionale di irretroattività delle disposizioni in peius, ma quelle vigenti al momento della loro applicazione in quanto la normativa che regola la concessione di benefici penitenziari non ha natura sostanziale, ma processuale e pertanto non soggiace alle regole dell'art. 2 cod. pen., ma al principio tempus regit actum Sez. 1, n° 46649/2009, Rv. 245511 Sez. 1, n° 33890/2009, Rv 244831 . § 2. II secondo motivo di doglianza si fonda sull'assunto che sia erroneo ritenere che la disposizione di cui all'art. 4 bis O.P. sia speciale rispetto a quelle contenute negli artt. 30 ter e 58 ter O.P. si sostiene, cioè, che la materia dei permessi premio debba considerarsi soggetta ai limiti di pena stabiliti soltanto da queste ultime norme. Tuttavia questa prospettazione non può essere accolta, in quanto la struttura logica e giuridica delle norme richiamate coordina in termini sufficientemente chiari e condivisibili la normativa vigente in tema di permessi premio, ponendo in evidenza le interrelazioni esistenti tra le varie disposizioni che sono state oggetto dei plurimi interventi legislativi, non sempre rispondenti ad una visione organica della materia. L'indagine ermeneutica deve prendere correttamente l'avvio dall'esame dei testo dell'art. 4 bis, comma 1, O.P. che sancisce il divieto di concessione di taluni benefici previsti dall'ordinamento penitenziario ai condannati per determinati delitti, distinguendo due diversi gruppi di reati per i reati indicati nel primo gruppo il divieto cessa nella sola ipotesi in cui il condannato collabori con la giustizia a norma dell'art. 58 ter art. 4 bis, comma 1 , ovvero sia dimostrata la mancanza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica ed eversiva e la collaborazione risulti non utile o siano applicate determinate circostanze attenuanti art. 4 bis, comma 1 bis , mentre per l'altro gruppo di reati è prevista la possibilità di concessione dei benefici solo se non vi sono elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva art. 4 bis, comma 1 ter . Premesso che l'art. 58 ter O.P. conferma il collegamento con l'art. 4 bis, comma 1, dal quale, difatti, è esplicitamente richiamato al fine di indicare la sola condizione che fa venire meno il divieto, va rilevato che l'art. 30 ter, comma quarto, lett. d , O.P. ammette la concessione dei permessi nei confronti dei condannati all'ergastolo, dopo l'espiazione di almeno metà della pena e, comunque, di non oltre dieci anni disposizione questa da coordinarsi con la precedente lett. c che, nel riferirsi ai condannati a pene detentive temporanee, espressamente richiama il disposto di cui all'art. 4 bis O.P Nonostante il rinvio all'intero art. 4 bis, puntuali e convincenti ragioni logiche impongono di ritenere che la portata normativa della previsione dell'art. 30 ter, riguardi unicamente il secondo gruppo di reati, quelli, cioè, elencati dal comma 1 ter del citato articolo, chiaro essendo che il riferimento non può essere esteso al primo gruppo di reati per i quali il sistema normativo stabilisce l'alternativa costituita o dal divieto di concessione dei benefici, se manca la collaborazione con la giustizia, ovvero nei casi, appunto, di collaborazione nei termini indicati dall'art. 58 ter dall'applicazione delle regole ordinarie, senza l'osservanza dei limiti di pena prescritti dall'art. 30 ter, comma 4 Sez. 1, 12.07.2006, n. 30434, Rv 235266 . § 3. II terzo motivo di doglianza muove dal disposto dell'art. 27 Cost, terzo comma, e poggia sul presupposto che esso garantisca al condannato il diritto a vedere riesaminato se la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo pertanto, ne risulterebbe la violazione di quel principio, in quanto, in mancanza di collaborazione con la giustizia che peraltro nasce da una valutazione di convenienza processuale diverrebbe irrilevante il percorso rieducativo riabilitativo già compiuto, dal quale la collaborazione sarebbe, per altro verso, scollegata. Ancor più ciò sarebbe vero nei casi di collaborazione impossibile od irrilevante per come sostenuto dai ricorrente nella fattispecie che lo riguarda poiché il requisito della collaborazione si tradurrebbe in una pura e semplice inammissibilità ai benefici penitenziari, contraria al principio rieducativo al pari dell'adozione del metodo di tipizzazione per titoli di reato. Sul punto è opportuno chiarire che l'impossibilità od irrilevanza della collaborazione non preclude affatto il percorso di accesso ai benefici poiché detta condizione, valutata in uno all'assenza di collegamenti con forme di criminalità organizzata, consente di ottenere i permessi-premio dapprima e le misure alternative in seguito nel caso di specie, però, l'ordinanza impugnata ben mette in evidenza che non è stata ritenuta sussistere detta impossibilità od irrilevanza della collaborazione a causa delle negative informazioni pervenute dalla competente DDA, dalle quali risultava che egli, dopo aver reso dichiarazioni agli inquirenti, si era rifiutato di rispondere a domande dinanzi alla Corte di Assise di Taranto e che l'istruttoria dibattimentale aveva disvelato tanto la parzialità strumentale delle prime dichiarazioni tese a proteggere persone a lui vicine e ad addossare responsabilità a coloro con i quali era entrato in contrasto quanto la sua possibilità di collaborare concretamente, in virtù del ruolo svolto nella organizzazione criminosa di appartenenza. Chiarito questo punto preliminare, reputa il Collegio che la normativa in esame è frutto di scelte di politica criminale che si muovono in una duplice direzione la prima di tali scelte consiste nell'enucleazione di una serie di figure delittuose che, per se stesse o per le modalità della condotta, sono espressive del fenomeno della c.d. criminalità organizzata e nella statuizione, in via generale, che ai condannati per tali reati non sono concedibili i benefici che comportano un sia pur temporaneo distacco, totale o parziale, dal carcere. Il Legislatore ha ritenuto di adottare una misura drastica, nettamente ispirata a finalità di prevenzione generale e di tutela della sicurezza collettiva, nella convinzione che per il contenimento del crimine organizzato fosse necessaria una decisa inversione di tendenza rispetto agli indirizzi della legge n. 663/1986. La seconda scelta legislativa è consistita nello stabilire che, invece, tutti i benefici penitenziari sono concedibili ai detenuti per delitti di criminalità organizzata che si inducano a collaborare con la giustizia art. 8 della Legge n. 203/1991 art. 630, comma settimo, cod. pen. , con conseguente ammissione a speciali programmi di protezione ed esenzione dagli inasprimenti della quota di pena necessaria per l'ammissione a taluni benefici penitenziari art. 58-ter O.P. . Tale differenziazione che certo rappresenta un forte incentivo alla collaborazione è essenzialmente espressione di una scelta di politica criminale, e non penitenziaria il fulcro dell'intervento legislativo non sta solo nel contributo alle indagini che la collaborazione comporta, ma anche nel presupposto che la scelta collaborativa è la sola atta ad esprimere con certezza la volontà di emenda, onde essa assume una valenza anche penitenziaria. La condizione che vi sia la prova dell'inesistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata rivela la convinzione che dalla commissione di determinati delitti di criminalità organizzata si può dedurre una presunzione di persistenza dei collegamenti con questa, richiedendosi la dimostrazione della loro rottura. Alla luce delle suesposte premesse, ed in osservanza dei principi espressi dalla Corte Costituzionale sentenza n° 306/1993 , i motivi di doglianza relativi alle condizioni di ammissione ai benefici penitenziari non possono ritenersi fondati. Va innanzitutto ribadito, al riguardo, che tra le finalità che la Costituzione assegna alla pena da un lato, quella di prevenzione generale e difesa sociale, con i connessi caratteri di afflittività e retributività, e, dall'altro, quelle di prevenzione speciale e di rieducazione, che tendenzialmente comportano una certa flessibilità della pena in funzione dell'obiettivo di risocializzazione dei reo non può stabilirsi a priori una gerarchia statica ed assoluta che valga una volta per tutte ed in ogni condizione sentenza Corte Costituzionale n. 282/1989 . II Legislatore può cioè nei limiti della ragionevolezza far tendenzialmente prevalere, di volta in volta, l'una o l'altra finalità della pena, ma a patto che nessuna di esse ne risulti obliterata. Per un verso, infatti, il perseguimento della finalità rieducativa non può condurre a superare la connotazione di afflittività insita nella pena detentiva determinata nella sentenza di condanna, ma, per altro verso, il privilegio di obiettivi di prevenzione generale e di difesa sociale non può spingersi fino al punto da autorizzare il pregiudizio della finalità rieducativa In questo quadro appare certamente rispondente alla esigenza di contrastare una criminalità organizzata aggressiva e diffusa la scelta del Legislatore di privilegiare finalità di prevenzione generale e di sicurezza della collettività, attribuendo determinati vantaggi ai detenuti che collaborano con la giustizia, e così non precludendo in modo assoluto ed irragionevole nemmeno ai condannati per delitti gravissimi il percorso di rieducazione parimenti insito nell'espiazione penale. § 4. La quarta ragione di doglianza è del tutto priva di fondamento l'analisi dei profili di pericolosità sociale fa seguito alla verifica dei presupposti di ammissibilità della richiesta di benefici penitenziari ma poiché il rigetto del Tribunale di Sorveglianza verteva appunto, in via preliminare, su questo determinato aspetto di ammissibilità, la soluzione in senso negativo precludeva ogni altro ulteriore accertamento. Al rigetto del ricorso consegue di diritto, ai sensi dell'art. 616 cod.proc.pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.