Gli incerti confini tra le due fattispecie ove ai maltrattamenti in famiglia seguano gli atti persecutori post separazione

Salvo il rispetto della clausola di sussidiarietà prevista dall’art. 612-bis, comma 1, c.p. – che rende applicabile il più grave reato di maltrattamenti quando la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della relativa fattispecie – è invece configurabile l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori in presenza di comportamenti che, sorti nell’ambito di una comunità familiare o a questa assimilata , ovvero determinati dalla sua esistenza o sviluppo, esulano dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare ed affettivo o comunque dalla sua attualità temporale.

Questo il principio di diritto stabilito dalla Sesta sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 30704/2016, la quale si inserisce in un solco giurisprudenziale che tende a consolidarsi in seno al Giudice di legittimità, riguardante il non semplice rapporto tra i delitti di maltrattamenti e di stalking. La questio iuris. In alcuni casi, infatti, si pone il problema se certe condotte vessatorie, perpetrate dall’imputato nel periodo relativo alla cessazione della convivenza possano inquadrarsi nel concorso apparente di norme con applicazione della sola figura di reato dei maltrattamenti o se rientrano all’interno della punibilità del delitto di atti persecutori, concorrendo l’art. 612- bis con l’ipotesi criminosa dell’art. 572 c.p. per le violenze domestiche precedenti alla cessazione del rapporto . Il caso concreto. È ciò che è avvenuto nel caso sottoposto alla Suprema Corte ove con una cd. doppia conforme un uomo è stato condannato in primo e secondo grado, condannandolo sia per il delitto di maltrattamenti perpetrati ai danni della convivente e poi, dal capodanno del 2011 ossia da quando la persona offesa lasciava l’abitazione familiare per andare a rifugiarsi dalla madre e poi in una struttura protetta per quello di stalking, in quanto dopo l’allontanamento dalla casa familiare l’agente aveva continuato a bersagliarla di messaggi e telefonate, seguendola in più occasioni, inveendo anche in pubblico per il suo abbigliamento e ingiuriando anche le sue amiche, accusate di essere sue complici. Il ricorso per cassazione. Tra i motivi di ricorso l’imputato si duole della mancata applicazione dei Giudici di seconde cure del concorso apparente di norme, affermando invece il concorso tra le due fattispecie incriminatrici, criticando l’operazione di perimetrazione dei fatti ove il muro divisorio delle due norme era stato fatto dipendere dall’allontanamento della persona offesa maltrattamenti durante la convivenza, condotte persecutorie post separazione . La risposta della Suprema Corte. Gli Ermellini rigettano il ricorso ritenendo che pur essendo possibile in astratto il concorso apparente di norme, come codificato dalla clausola si sussidiarietà prevista dall’art. 612- bis , comma 1, c.p. che rende applicabile il più grave reato di maltrattamenti quando la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della relativa fattispecie è invece configurabile il reato di atti persecutori in presenza di comportamenti che sorti nell’ambito di una comunità familiare o a questa assimilata , esulano dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare ed affettivo o comunque dalla sua attualità temporale orientamento costante, a partire dal Sez. V, n. 24575/2012 , da ultimo, Sez. II, n. 17719/2016 . Nel nostro caso – proseguono i Giudici di legittimità poiché, a seguito dell’allontanamento dal domicilio familiare, la persona offesa aveva palesato la sua intenzione di interrompere la convivenza, correttamente era pervenuta la condanna sia per i maltrattamenti durante il rapporto di convivenza, che per le condotte moleste e persecutorie consumate dopo l’allontanamento. Maltrattamenti e stalking una storia che comincia da lontano. Per comprendere a fondo le conclusioni della Corte regolatrice, ed evidenziarne alcuni profili critici, occorre ricordare che, in assenza di una previsione nel sistema penale italiano di una specifica fattispecie di reato, il fenomeno dello stalking ha trovato comunque spazio in giurisprudenza attraverso la sua parziale sussunzione in altre figure di reato molestie ex art. 660 c.p., violenza privata e laddove gli atti persecutori erano conseguenti alla cessazione della convivenza tra coniugi o conviventi, il giudice, non senza qualche acrobazia interpretativa, li aveva inquadrati nei maltrattamenti in famiglia. Maltrattamenti anche senza convivenza. Ma per giungere a tale soluzione ha dovuto estendere l’art. 572 c.p. anche ai casi di cessata convivenza. Emblematiche due pronunce 1 una nella quale è punito un marito per maltrattamenti per aver pedinato la moglie su tutto il territorio nazionale per convincerla a tornare insieme Sez. V, n. 26571/2008 2 ancor di più, in una pronuncia cautelare nella quale numerose condotte di molestie e disturbo poste in essere da un coniuge ai danni dell’altro erano state inquadrate nei maltrattamenti in famiglia, poiché tra la deliberazione della sentenza e il deposito delle motivazioni è entrato in vigore il decreto legge 23.2.2009 n. 11, la penna” dell’estensore si è spinta a qualificare correttamente gli atti persecutori e considerarli come qualificanti una unitaria e abituale condotta di stalking caratterizzata da aggressioni di carattere fisico e morale della persona offesa, tali da dar luogo, da parte dell’indagato non disposto ad accettare senza virulente reazioni la separazione delle consorte ad una vera e propria sindrome dell’assalitore assillante” . La questione si complica. Una volta introdotto il delitto di atti persecutori, il mantenimento di quella posizione sulla punibilità dei maltrattamenti anche dopo la separazione permanendo il reato, nel caso in cui vi siano doveri di reciproco rispetto, assistenza morale e materiale nascenti dal rapporto coniugale o dal rapporto di filiazione, fino a quando non interviene il divorzio, Sez. VI, n. 50333/2013 , dovrebbe portare alla conclusione che laddove le condotte vessatorie e minatorie iniziate durante la convivenza, siano proseguite dopo la cessazione della stessa, dovrebbe applicarsi solo la più grave fattispecie dei maltrattamenti in famiglia, come peraltro sancito dalla clausola di sussidiarietà con la quale esordisce l’art. 612- bis c.p Ed in tal senso si attestano certe decisioni di merito Tribunale Firenze, sez. I, 8.12016, n. 50 sez. I, 11.12.2015, n. 3999 . La posizione di legittimità. Ed invece, la Suprema Corte, da un lato continua a ritenere che nei maltrattamenti in famiglia non è necessaria una convivenza intesa come dimora stabile ed esclusiva nel medesimo luogo di tutte le persone interessate, poiché ciò che conta è l'esistenza di un rapporto abituale tale da far sorgere sentimenti di umana solidarietà e doveri di assistenza morale e materiale Sez. VI, n. 47896/2014 dall’altro ammette il concorso in presenza di comportamenti sorti all’interno delle mura domestiche e poi portate avanti anche dopo la cessazione del vincolo relazionale. Le condotte sono differenti? In proposito viene valorizzata la strutturale differenza tra i due reati, evidenziando che il reato di maltrattamenti si sostanzia in una condotta vessatoria che unifica e dà senso a molteplici offese, sì da prevaricare e umiliare costantemente e abitualmente il familiare, mentre quello di atti persecutori offende la persona rectius la sua libertà morale e può essere commesso da tutti al di fuori di una necessaria interrelazione personale con la vittima già, Sez. I, n. 4133/2016 . Tale assunto non convince. La clausola generale maltratta” prevista dall’art. 572 c.p., che si deve realizzare con una condotta idonea ad offendere l’incolumità psico-fisica della vittima, consente di ricomprendere quelle condotte reiterate con le quali si minaccia o molesta un soggetto in modo da cagionare un grave e perdurante stato di ansia e di paura, un fondato timore per la sua incolumità e un cambiamento delle abitudini di vita. Quindi, sembra preferibile ritenere che laddove la condotta persecutoria si realizza nell’ambito dei rapporti previsti dall’art. 572 c.p. prevale quest’ultima fattispecie più grave. Si tratta di reati commessi con violenza sulla persona. Non convince neanche la distinzione fondata sulla diversità del bene giuridico tutelato dalle fattispecie di reato la salvaguardia della comunità familiare nel delitto di maltrattamenti, la libertà morale in quello di atti persecutori . Tale differenza non coglie nel segno, essendo superato dalla più attuale e pregnante riconducibilità dei due reati descritti negli artt. 572 e 612- bis c.p. all’interno di delitti commessi con violenza sulla persona che di recente ha portato la Suprema Corte ad allineare le relative discipline processuali, prevedendo che l’art. 408, comma 3- bis , c.p.p. sancente l’obbligo di dare avviso alla persona offesa della richiesta di archiviazione con riferimento ai delitti commessi con ‘violenza alla persona’ , è riferibile anche ai reati di atti persecutori e di maltrattamenti, perché l’espressione ‘violenza alla persona’ deve essere intesa alla luce del concetto di violenza di genere, quale risulta dalle pertinenti disposizioni di diritto internazionale recepite e di diritto comunitario Sezioni Unite, n. 10959/2016 . Ed ancora, in materia di delitti commessi con violenza alla persona, la vittima vulnerabile”, i cui diritti sono stati fissati con d.lgs. n. 212/2015, deve essere avvertita dell'eventuale provvedimento di revoca del divieto di avvicinamento imposto per i reati di stalking e maltrattamenti Sez. VI, n. 6864/2016 . Quando cessa il vincolo affettivo? In ogni caso, non è semplice individuare la cessazione del vincolo affettivo, non coincidente il più delle volte con il semplice allontanamento dalla casa familiare sicuramente non lo è in caso di matrimonio o di convivenze con figli , finendo spesso per essere rimesso alla volontà della persona offesa, cioè di un dato non controllabile e non sempre comprensibile dall’agente.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 19 maggio – 19 luglio 2016, n. 30704 Presidente Conti – Relatore Giordano Ritenuto in fatto 1. Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Potenza ha confermato quella del giudice monocratico del Tribunale di Potenza che, ritenuta la contestata recidiva nella forma della recidiva infraquinquennale, unificati i reati sotto il vincolo della continuazione e assorbito il reato di violenza privata in quello di cui all’art. 612-bis cod. pen., aveva condannato D.A. alla pena di anni due e mesi otto di reclusione e al risarcimento dei danni, da liquidare in separato giudizio, in favore della parte civile. 2. Il D. è stato riconosciuto responsabile dei reati di maltrattamenti art. 572 cod. pen. e atti persecutori art. 612-bis cod. pen. in danno della convivente G.R. . I giudici di merito hanno ritenuto accertato che, durante la convivenza, il D. ha maltrattato la G. fino a quando, in occasione del Capodanno , la G. si risolveva a lasciare l’abitazione familiare e a rifugiarsi prima presso l’abitazione della madre e poi in una struttura protetta. A fondamento della condanna sono state poste le dichiarazioni rese dalla persona riscontrate, su specifiche circostanze di fatto, da quelle della madre e di due colleghe di lavoro della G. . In particolare la G. riferiva che il regime di vita difficile al quale era stata sottoposta negli anni precedenti si era aggravato, divenendo insopportabile, a partire dagli anni 2008/2009, cioè dal momento in cui aveva cominciato a lavorare, perché il D. , accecato da una gelosia morbosa, aveva cominciato a seguirla, pattugliando anche il posto di lavoro, e l’aveva sottoposta ad un controllo continuo, spintosi fino al punto di verificare l’abbigliamento intimo che indossava che, in più occasioni, il D. l’aveva picchiata, accusandola di essere scostante nei rapporti intimi e, comunque, non attenta nei suoi confronti. Aggiungeva che dopo l’allontanamento dalla casa familiare il D. l’aveva bersagliata di messaggi e telefonate, queste anche di contenuto minatorio che l’aveva seguita costantemente, inveendo in pubblico nei suoi confronti a causa del suo abbigliamento e, in qualche occasione, aveva seguito o ingiuriato sue amiche, che accusava di essere sue complici che una sera l’aveva inseguita con l’auto tanto che era stata costretta a rivolgersi alla Polizia mentre, in un’ altra occasione, la Polizia l’aveva contattata riferendole che il D. aveva denunciato la sua scomparsa e sosteneva che la donna avesse propositi suicidiari. 3. Con i motivi di ricorso, sottoscritti dal difensore e qui sintetizzati ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen. nei limiti strettamente indispensabili ai fini della motivazione, il ricorrente deduce 3.1 vizio di violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento agli artt. 516, 521 e 522 cod. proc. pen. principio di correlazione tra imputazione e sentenza . Rileva che, avuto riguardo ai reati in contestazione, la data di commissione dei fatti-reato in Potenza dal maggio 2009 al maggio 2012 , denuncia un’ insanabile aporia essendo funzionale il delitto di cui all’art. 612-bis cod. pen. a sanzionare condotte che esulerebbero dal reato di maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo di convivenza e che il giudice di primo grado, individuando quale data di cessazione della convivenza il Capodanno , lungi dall’effettuare un’operazione rilevante solo sul piano della qualificazione giuridica della condotta, ha compiuto una operazione di perimetrazione dei fatti, con conseguenze rilevanti ai fini del ritenuto concorso di reati, sulla loro gravità, sulla misura della pena e sull’operatività di eventuali cause estintive, operazione che rendeva necessario l’intervento, ex art. 516 cod. proc. pen., del pubblico ministero, la cui mancanza ha prodotto una nullità già eccepita dinanzi alla Corte territoriale che, tuttavia, nulla ha rilevato sul punto 3.2 vizio di motivazione per contraddittorietà e mera apparenza della motivazione in ordine all’attendibilità della persona offesa, G.R. e omessa valutazione delle dichiarazioni rese da G.A. , D.G. e D.B.C. . Apodittiche sono le motivazioni attraverso le quali la Corte territoriale ha compiuto la valutazione del giudizio di attendibilità della persona offesa nella parte in cui ha ricondotto a sentimenti di paura per ulteriori violenze le ragioni che l’avrebbero indotta a non riferire a terzi dettagli imbarazzanti o scabrosi delle violenze subite in quanto valutazione riferibile al solo reato di maltrattamenti e non anche al reato di cui all’art. 612-bis cod. pen. che, per le sue stesse modalità esecutive, si consuma in danno di un soggetto esterno rispetto alla sfera di presunto controllo dell’autore erroneo è anche l’assunto della Corte di ritenere attendibili intrinsecamente le dichiarazioni rese dalla persona offesa e comunque supportate dai narrati di altri soggetti che sono però portatori di un patrimonio conoscitivo limitato poiché, in tal caso, era necessario che il controllo e la veridicità del narrato di ciascun teste venisse posto in raffronto con quei segmenti delle dichiarazioni rese dalla persona offesa relativi ai medesimi fatti, circostanze o situazioni. La Corte territoriale non ha, dunque, proceduto ad una valutazione frazionata delle dichiarazioni rese dalla G. con riguardo agli episodi riferiti da G.A. , madre della persona offesa da D.G. figlio della coppia D. /G. , circa un episodio in cui il D. avrebbe inseguito la persona offesa tentando di speronarla con l’auto e sulle telefonate che anche la donna faceva al marito da D.B.C. che sarebbe stata contattata da un’amica della G. prima di essere ascoltata in fase di indagini, onde convincerla a riferire fatti favorevoli alla G. . 3.3 violazione di legge e vizio di motivazione sull’abitualità della condotta di maltrattamenti risoltasi in un unico episodio di percosse ai danni della G. , risalente al Capodanno , fatto che determinava la G. a lasciare l’abitazione coniugale 3.4 vizio di violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al reato di cui all’art. 612-bis cod. pen. poiché la Corte territoriale ha posto a fondamento della decisione il racconto della G. relativo alle condotte tenute dal D. durante tutto l’arco della convivenza con ciò realizzando un vulnus della sistematica codicistica poiché, invece, il campo valutativo, e prima ancora la ricostruzione in fatto, doveva investire unicamente le condotte ascritte al ricorrente a partire dal Capodanno , epoca di cessazione della convivenza. Sulla scorta dello stesso racconto della G. le condotte del D. non possedevano connotati minacciosi e intimidatori gli sms inviatile dal D. dopo l’allontanamento erano addirittura di tono amoroso e le telefonate, sia pure di tono acceso, non presentavano contenuto minatorio e, comunque, la Corte territoriale è pervenuta all’affermazione del giudizio di responsabilità solo sulla base della ricostruzione della persona offesa 3.5 vizio di motivazione per la utilizzazione ai fini valutativi delle dichiarazioni rese dalla G. dell’ordinanza di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere intervenuta a carico del D. in separato procedimento penale 3.6 violazione di legge e vizio di motivazione per il diniego delle circostanze attenuanti generiche in mancanza di un’analisi approfondita delle modalità del fatto e con mero richiamo al disvalore sociale dei fatti - reato. Considerato in diritto 1. Il ricorso deve essere rigettato perché infondato e perché contiene, al di là della riconduzione ai vizi di violazione di legge e vizio di motivazione, con riguardo alle censure che relative alla valutazione della prova, censure in fatto, non consentite nel giudizio di legittimità quando la ricostruzione e valutazione compiuta dai giudici del merito - siamo, infatti in presenza di doppia conforme e, quindi, di una motivazione che va letta come un corpus unitario - sia fondata su motivazione congrua e non manifestamente illogica. 2. Infondato è il primo di ricorso. Dalla lettura dei capi di imputazione, a prescindere dal riferimento finale alle date di commissione dei fatti indicate dal maggio 2009 al maggio 2012, si rileva che le distinte condotte di reato ascritte al ricorrente fanno riferimento, quella di maltrattamenti contestati al capo A , alle condotte di reato consumate durante il periodo della convivenza fra la G. ed il ricorrente e quella del reato di atti persecutori alle condotte riferibili alla cessazione della convivenza, allorquando, a partire dal Capodanno , la G. , insieme ai figli, si allontanava dalla casa familiare e trovava ricovero prima a casa della madre e poi in una comunità. Deve, pertanto, escludersi che la sentenza impugnata, nella parte in cui ha precisato la scansione temporale del rapporto di convivenza tra il ricorrente e la G. abbia proceduto ad una immutazione del fatto, tanto più che la giurisprudenza della Corte di legittimità, condivisa dal Collegio, esclude che finanche la modifica della data di commissione del fatto integri la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, potendo l’imputato difendersi in relazione a tutti gli altri elementi dell’imputazione Sez. 2, n. 3614 del 19/01/1981, D’Angelo Rv.148470 . Né, per altro verso, la censura difensiva è fondata con riguardo alla possibilità di configurare, a titolo di concorso, il delitto di atti persecutori in presenza di una sequenza cronologica che parte, come nel caso in esame, dai maltrattamenti in famiglia, durante la convivenza, e prosegue con le condotte persecutorie post separazione, secondo la prospettazione condivisa dalla Corte territoriale. E noto che la giurisprudenza di legittimità è pervenuta ad individuare l’ambito di applicazione della fattispecie di maltrattamenti in famiglia sulla scorta della estensione della nozione di rapporti basati sui vincoli familiari, intendendosi per famiglia non solo quella fondata sul matrimonio ma ogni gruppo di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, si siano instaurati rapporti di assistenza e solidarietà reciproche, senza la necessità pure ricorrente della convivenza o di una stabile coabitazione. La operatività dell’art. 572 cod. pen. è stata progressivamente estesa a qualunque relazione sentimentale che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l’insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale Sez. 6, n. 31121 del 18/03/2014, C., Rv. 261472 . Per altro verso, richiamando i doveri di rispetto reciproco, assistenza morale e materiale e di solidarietà nascenti dal rapporto coniugale o dal rapporto di filiazione la giurisprudenza ha affermato che il reato di maltrattamenti in famiglia a carico del coniuge è configurabile anche in danno di persona non convivente o non più convivente con l’agente quando quest’ultimo e la vittima siano legati da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione Sez. 6, n. 33882 del 08/07/2014, C., Rv. 262078 precisando, tuttavia, che quando la condotta di maltrattamento è in danno del coniuge, la permanenza cessa allorché interviene il divorzio cui non segua la ricomposizione di una relazione e consuetudine di vita improntata a rapporti di assistenza e solidarietà reciproche Sez. 6, n. 50333 del 12/06/2013, L., Rv. 258644 . Le conclusioni accennate meritano ulteriori approfondimenti e precisazioni a seguito dell’entrata in vigore del d.l. 23 febbraio 2009, n. 11 convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, che ha introdotto nell’ordinamento il reato di atti persecutori. È agevole osservare che l’oggettività giuridica delle due fattispecie di cui agli artt. 572 e 612 bis cod. pen. è diversa, poiché il primo è un reato contro l’assistenza familiare ed il secondo è un reato contro la libertà morale e che diversi sono i soggetti attivi e passivi delle due condotte illecite, ancorché le condotte materiali dei reati appaiano omologabili per modalità esecutive e per tipologia lesiva. Il reato di atti persecutori è, infatti, un reato che può essere commesso da chiunque con atti di minaccia o molestia reiterati reato abituale e che non presuppone l’esistenza di interrelazioni soggettive specifiche tra l’agente e il soggetto passivo del reato mentre, al di là della lettera della norma incriminatrice chiunque il reato di maltrattamenti familiari, si connota come reato proprio, potendo essere commesso soltanto da chi ricopra un ruolo nel contesto della famiglia coniuge, genitore, figlio e soltanto in pregiudizio di un soggetto che faccia parte dell’aggregazione familiare, lato sensu intesa. Venendo ai rapporti fra le due fattispecie incriminatrici si è condivisibilmente ritenuto che, salvo il rispetto della clausola di sussidiarietà prevista dall’art. 612-bis, comma primo, cod. pen. - che rende applicabile il più grave reato di maltrattamenti quando la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della relativa fattispecie - è invece configurabile l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori in presenza di comportamenti che, sorti nell’ambito di una comunità familiare o a questa assimilata , ovvero determinati dalla sua esistenza e sviluppo, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare ed affettivo o comunque della sua attualità temporale. Sez. 6, n. 24575 del 24/11/2011 dep. 2012 Frasca, Rv. 252906 . Nella motivazione della sentenza si precisa che ciò può valere, in particolare, in caso di divorzio o di relazione affettiva definitivamente cessata con la persona offesa, ravvisandosi viceversa il reato di maltrattamenti in caso di condotta posta in essere in presenza di una separazione legale o di fatto. Tale conclusione è fondata sul rispetto dei doveri di rispetto reciproco, assistenza morale e materiale e di solidarietà nascenti dal rapporto coniugale che neppure la separazione vale a porre nel nulla. Risalente nella giurisprudenza è, infatti, l’affermazione secondo la quale, poiché la convivenza non rappresenta un presupposto della fattispecie criminosa in questione, il suddetto stato di separazione non esclude il reato di maltrattamenti, quando l’attività persecutoria si valga proprio o comunque incida su quei vincoli che, rimasti intatti a seguito del provvedimento giudiziario, pongono la parte offesa in posizione psicologica subordinata Sez. 6, n. 282, 26/1/1998, Traversa, Rv. 210838 . Le conclusioni alle quali è pervenuta la sentenza Frasca innanzi richiamata possono ritenersi applicabili anche al caso in esame tenuto conto che, a seguito dell’allontanamento dal domicilio familiare, la G. aveva chiaramente palesato la sua intenzione di interrompere il rapporto di convivenza con il D. e, quindi, il sodalizio familiare e affettivo instaurato con il ricorrente. Ritiene il Collegio che, in un caso come quello in esame, entrambi i reati contestati, quello di maltrattamenti, per i fatti commessi fino alla data di interruzione della convivenza, e quello di atti persecutori, per i fatti commessi a partire dalla cessazione del rapporto di convivenza, ben possono concorrere trattandosi di reati che appaiono strutturalmente intesi a realizzare la protezione di differenti beni giuridici la salvaguardia del legame giuridico intercorrente fra persone appartenenti alla medesima famiglia, o a vincolo ad esso assimilabile, con conseguente tutela dell’integrità psicofisica, del patrimonio morale, della libertà e del decoro del soggetto passivo del reato, il reato di maltrattamenti , la libertà morale della persona offesa quello di atti persecutori. Tale reato, in particolare, appare idoneo a sanzionare comportamenti che, seppure sorti in seno alla comunità familiare o assimilata , esulerebbero dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo o sodalizio familiare e affettivo o comunque della sua attualità e continuità temporale, assumendo rilievo, ovviamente in presenza di comportamenti connotati dall’abitualità ed idonei a cagionare almeno uno degli eventi indicati nell’enunciato normativo di cui all’art. 612 bis cod. pen., quale condotta intesa a condizionare la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo, il più delle volte proprio per indurla a ritornare sui suoi passi e riprendere una relazione affettiva, attraverso atteggiamenti persecutori, dunque in mancanza di un’ attuale e perdurante relazione tra i due soggetti. 4. Sono manifestamente infondati i motivi di ricorso che denunciano vizio di contraddittorietà della motivazione e, più, in generale vizi di motivazione sul giudizio di attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa e conseguente possibilità di configurare, sulla scorta del racconto della G. , i reati di maltrattamento ed atti persecutori. 5. I motivi di ricorso enunciati al punto 2.2, infatti, appaiono sostanzialmente orientati a riprodurre un quadro di argomentazioni già esposte dinanzi ai Giudici di merito, già ampiamente vagliate e correttamente disattese dalla Corte distrettuale, ovvero intese a sollecitare una rivisitazione meramente fattuale delle risultanze processuali, in tal guisa richiedendo, sul presupposto di una valutazione alternativa delle fonti di prova, l’esercizio di uno scrutinio improponibile in questa Sede, a fronte della linearità e della logica conseguenzialità che caratterizzano la scansione delle sequenze motivazionali dell’impugnata decisione. Il ricorso, dunque, non è volto a rilevare mancanze argomentative ed illogicità ictu oculi percepibili, né a sviluppare un adeguato confronto critico-argomentativo rispetto all’ordito motivazionale, bensì ad ottenere un non consentito sindacato su scelte valutative compiutamente giustificate dal Giudice di appello, che ha linearmente ricostruito il compendio storico-fattuale posto a fondamento dei temi d’accusa. 6. In particolare rileva il Collegio che, il contributo narrativo offerto dalla persona offesa è stato attentamente esaminato dalla Corte territoriale, che del resto ha proceduto all’esame della G. nel corso del dibattimento di appello proprio per spiegare talune apparenti discrasie del suo racconto rispetto alla ricostruzione compiuta dalla madre della G. e dalle persone escusse nel corso del dibattimento di primo grado. In proposito non appaiono affatto illogiche le argomentazioni con le quali la Corte ha superato tali apparenti e marginali divergenze evidenziando che i comportamenti del D. , durante il periodo della convivenza, erano improntati a particolare invadenza della sfera di vita privata ed intima della G. , circostanze che la G. , del tutto comprensibilmente, non aveva rivelato né alla madre alla quale pure confidava le condotte aggressive del ricorrente riconducibili alla quotidiana gestione del menage familiare - circostanze che infatti G. Assunta ha confermate - né alle amiche, anche per il timore di ritorsioni ed ulteriori violenze alle quali si trovava esposta dopo avere lasciato il domicilio familiare. Avuto riguardo alla esistenza di un pregresso rapporto intimo e familiare con l’imputato non può apprezzarsi la logicità delle deduzioni difensive incentrate, piuttosto che sulla valutazione dei sottostanti rapporti personali tra vittima ed imputato, sulla natura del reato di atti persecutori che implica, ma non nel caso in esame come detto, la estraneità tra vittima e autore delle condotte illecite e, quindi, una minore permeabilità della vittima a condotte minatorie che, peraltro, non costituisce affatto massima di esperienza essendo, viceversa, notorie le condizioni di prostrazione psicologica ed assoggettamento che connotano le vittime del reato di atti persecutori. 7. Né è scorretta sul piano metodologico l’operazione valutativa della Corte che, pur sottoponendo a rigoroso vaglio critico le dichiarazioni rese dalla G. , non è pervenuta alla scomposizione e valutazione frazionata di dette dichiarazioni, secondo l’assunto della difesa, avendo viceversa argomentato il giudizio di attendibilità del complessivo resoconto compiuto dalla G. attraverso il racconto reso dalla madre e da una delle amiche della donna che ne aveva ricevuto le confidenze. 8. Manifestamente infondate sono anche le censure di cui al punto 3.3. La sentenza impugnata, in vero, si salda e va letta in una a quella di primo grado nella quale sono riportate e fatte oggetto di specifica analisi le dichiarazioni rese dalla G. sulle continue aggressioni, verbali e fisiche, subite negli anni della convivenze ed intensificatesi a partire dagli anni OMISSIS ed affatto esauritesi nell’episodio di percosse che, il Capodanno XXXX, la indusse a lasciare l’abitazione familiare. Le dichiarazioni hanno formato oggetto - in relazione agli specifici motivi di gravame devoluti alla Corte territoriale - di puntuale analisi del giudice del gravame a prescindere dalla puntuale riproposizione del contenuto dichiarativo che, del resto, il giudice di primo grado aveva selezionato ricostruendo separatamente le condotte riconducibili ai reato di maltrattamenti rispetto a quelle relative al reato di atti persecutori. 9. Né meritano censura le conclusioni della Corte a riguardo della ritenuta configurabilità dei reati di maltrattamenti in famiglia ed atti persecutori. Con riguardo al reato di maltrattamenti, sulla scorta delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, la Corte territoriale ha del tutto ragionevolmente ritenuto accertato che durante gli ultimi anni della convivenza la G. fosse stata sottoposta ad una serie di atti di vessazione tali da cagionarle sofferenze, privazioni, umiliazioni, disagio continuo, in altre parole un regime incompatibile con normali condizioni di vita. Dalla sentenza di primo grado, confermata da quella oggetto di impugnazione, emerge che il D’. non era affatto nuovo a picchiare la G. oltre allo schiaffo assestatole il giorno di Capodanno la G. ha riferito di un precedente episodio occorso il 7 ottobre quando il convivente l’aveva colpita con schiaffi e pugni nella schiena sol perché la donna si era coricata sul lettino con il figlio e non accanto a lui che la donna riceveva continue percosse e ingiurie a causa del rifiuto di avere rapporti intimi ed era fatta segno di episodi continui di violenza verbale che la G. aveva raccontato alla madre ed alla Gr. che tali circostanze hanno confermato ,pur riconducendo l’aggressività del D’. a futili motivi, ovvero ad un generico sentimento di gelosia. Nel condividere il significato complessivo del quadro probatorio posto in risalto nella sentenza del Giudice di primo grado, la Corte di merito ha esaminato e puntualmente disatteso la diversa ricostruzione dei fatti prospettata nei rilievi difensivi - sulla unicità dell’episodio di aggressione fisica consumata in danno della G. che la determinò a lasciare l’abitazione familiare in occasione del Capodanno XXXX - ed ha richiamato la pluralità di aggressioni subite dalla G. e le costante sottoposizione ad un regime di vessazioni, costituito da pesanti insulti, continue minacce, controlli ripetuti anche sull’abbigliamento e igiene intime accompagnati da controlli sul luogo di lavoro e connotati dall’ossessione di tenere sotto controllo tutti i movimenti della G. , comportamenti emblematici, al pari della condotte sussunte nella fattispecie di atti persecutori, della volontà di dominazione sessuale. Quanto al reato di atti persecutori nelle sentenze di merito sono richiamate le condotte poste in essere dopo che la G. aveva lasciato il domicilio familiare estrinsecatesi in continui episodi di pedinamento, aggressioni in pubblico, insulti ed epiteti ingiuriosi che hanno coinvolto anche le amiche della G. , minacce telefoniche e culminati nell’inseguimento con l’auto e nella denuncia di inesistenti propositi suicidiari della G. alla Polizia di Stato. Sulla stregua delle rappresentate emergenze probatorie, deve ritenersi che l’impugnata pronuncia abbia fatto buon governo del quadro di principii che regolano la materia in esame, avendo questa Suprema Corte ormai da tempo affermato il principio secondo cui il reato di maltrattamenti in famiglia è integrato dalla condotta dell’agente che sottopone la convivente ad atti di vessazione reiterata e tali da cagionarle sofferenza, prevaricazione ed umiliazioni, in quanto costituenti fonti di uno stato di disagio continuo ed incompatibile con le normali condizioni di esistenza Sez. 6, n. 55 del 08/11/2002, dep. 08/01/2003, Rv. 223192 . Rilevano, entro tale prospettiva, come si è poc’anzi evidenziato, non soltanto le percosse, le lesioni, le ingiurie, le minacce, le privazioni ed umiliazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di disprezzo e di offesa arrecati alla sua dignità, che si risolvano nell’inflizione di vere e proprie sofferenze morali Sez. 6, n. 44700 del 08/10/2013, Rv. 256962 . Sotto altro profilo, integrano il reato di atti persecutori le descritte condotte del ricorrente risoltesi in controlli, inseguimenti, telefonate, anche minatorie, la telefonata alla Polizia con la quale il D. denunciava i propositi suicidiari della G. e che hanno avuto eco nell’ambiente anche lavorativo della persona offesa cagionandole, per reiterazione, ampiezza, durata e carica spregiativa della condotta criminosa, un grave e perdurante stato d’ansia. Del tutto irrilevante si rivela, ai fini della sussistenza del descritto quadro probatorio, l’utilizzazione delle dichiarazioni rese dalla G. in separato procedimento con conseguente infondatezza della relativa censura difensiva. Conclusivamente, deve ritenersi che la Corte d’appello ha compiutamente indicato le ragioni per le quali ha ritenuto sussistenti gli elementi richiesti per la configurazione dei delitti oggetto dei correlativi temi d’accusa, ed ha evidenziato al riguardo gli aspetti maggiormente significativi, dai quali ha tratto la conclusione che la ricostruzione proposta dalla difesa si poneva solo quale mera ipotesi alternativa, peraltro smentita dal complesso degli elementi di prova processualmente acquisiti. 10. Manifestamente infondato, infine, deve ritenersi l’ultimo profilo di doglianza dal ricorrente prospettato, mirando lo stesso a censurare un potere discrezionale il cui esercizio è stato oggetto di congrua motivazione da parte dei Giudici di merito, che hanno fatto riferimento alla gravità della condotta, sì come rivelata dalla sua reiterazione nel tempo e dal grado di violenza esercitata nei confronti della G. , in tal guisa esprimendo la piena giustificazione di un apprezzamento di merito come tale non assoggettabile a sindacato in questa Sede, ponendosi, di contro, le deduzioni difensive al riguardo genericamente formulate nella mera prospettiva di accreditare una diversa ed alternativa valutazione in ordine alla sussistenza dei presupposti fattuali che giustificherebbero la concessione delle invocate attenuanti. 11. Per le considerazioni or ora esposte, dunque, il ricorso deve essere rigettato con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed alle spese processuali in favore della parte civile, liquidate, in ossequio ai parametri di cui al D.M. 55 del 2014 come in dispositivo ed in favore dello Stato, poiché la G. risulta ammessa a patrocinio a favore dello Stato. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché a rifondere alla parte civile G.R. la spese sostenute nel grado che liquida in Euro 3.500,00 oltre alle spese generali, I.V.A. e C.A.P., con pagamento in favore dello Stato.