MAE: è necessaria la residenza in Italia per l’annullamento della sentenza

Il mancato radicamento di un cittadino rumeno in territorio italiano comporta la sua espulsione dallo Stato.

Con la sentenza n. 24804/2016, depositata il 15 giugno, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso. Il caso. A seguito di mandato di arresto europeo emesso dal Tribunale di Moinesti nei confronti di un cittadino rumeno, conseguente ad una sentenza di condanna a 3 anni di reclusione per furto, la Corte di Cassazione annullava con rinvio la sentenza della Corte d’appello di Catania che disponeva l’esecuzione dello stesso mandato di arresto per non essere stati adeguatamente considerati i motivi prospettati dal ricorrente. La Corte d’appello di Catania disponeva dunque nuovamente la consegna del condannato alle Autorità romene in esecuzione del suddetto mandato di arresto europeo. Il condannato proponeva ancora una volta ricorso per cassazione. La rilevanza della residenza. Il ricorrente lamenta che la valutazione della Corte d’appello si sia incentrata sulla mancanza di stabile attività lavorativa del condannato senza considerare altri elementi, come la legalità della sua presenza in Italia – già riconosciuta dalla stessa Corte con altro provvedimento – ed il notevole lasso di tempo trascorso tra la commissione del reato e l’accertata presenza sul territorio italiano. A riguardo della legalità della presenza in Italia del ricorrente, la Corte di Cassazione, alla luce dei dati emersi nella sentenza della Corte territoriale, nonostante il tempo trascorso dal reato commesso, non ritiene di poter riconoscere un comprovato stabile radicamento dello stesso sul territorio nazionale, non risultando essere stato ivi fissato il suo centro di interessi lavorativi e affettivi. Gli elementi esposti dal ricorrente nel ricorso, appaiono sì significativi di una sua assidua presenza sul territorio italiano, ma risultano inidonei a dimostrare la data del suo effettivo ingresso in Italia e se tale soggiorno si sia protratto in modo ininterrotto precario oppure stabile. Alla luce di questi elementi, non potendosi ritenere il condannato residente o legato da un qualche rapporto con altri soggetti residenti nel ragusano, la Suprema Corte rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 10 – 16 giugno 2016, n. 24804 Presidente Fumu – Relatore Imperiali Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 10/12/2015 questa Corte di Cassazione annullava la sentenza della Corte d'appello di Catania in data 21/10/2015, che aveva disposto la consegna alle Autorità romene di B.C.I., in esecuzione di mandato di arresto europeo n. 29, emesso dal Tribunale di Moinesti il 7/9/2007 a seguito di sentenza di condanna alla pena di anni tre di reclusione per un delitto di furto, pronunciata allo stesso Tribunale dì Moinesti il 5/3/2007. La sentenza della Corte distrettuale veniva annullata con rinvio per un nuovo giudizio per non essere stati adeguatamente considerati i motivi prospettati dal ricorrente, ed in particolare per avere tale sentenza soltanto apoditticamente motivato in ordine all'inapplicabilità della disposizione di cui all'art. 18 lett. r della legge n. 69/2005. 2. Con sentenza del 15/4/2016, fondata su un'informativa dei Carabinieri di Acate in relazione all'effettivo radicamento dei prevenuto sul territorio italiano, la Corte d'appello di Catania ha nuovamente disposto a consegna del B. alle Autorità romene in esecuzione dei già menzionato mandato di arresto europeo. 3. Propone ricorso per cassazione il B., a mezzo del suo difensore, lamentando che la Corte territoriale ha incentrato la sua valutazione sulla mancanza di stabile attività lavorativa dei ricorrente senza considerare adeguatamente altri elementi, quali la legalità della sua presenza in Italia, trattandosi di cittadino comunitario, la sua residenza in Acate Rg , come riconosciuto dalla stessa Corte con altro provvedimento che ivi applicava al ricorrente la misura degli arresti domiciliari, ed il notevole lasso di tempo trascorso tra la commissione del reato per il quale viene richiesta la consegna e l'accertata presenza sul territorio italiano. Considerato in diritto II ricorso è infondato e va rigettato per le ragioni di seguito indicate. 1. È noto, alla luce dì un pacifico insegnamento giurisprudenziale di questa Suprema Corte sez. F., n. 33865 del 30/7/2015, Rv. 264372 Sez. 6, n. 9767 del 26/02/2014, Rv. 259118 Sez. 6, n. 50386 del 25/11/2014, Rv. 261375 , che la nozione di residenza rilevante - dopo la sentenza n. 227/2010 della Corte costituzionale - ai fini del rifiuto di consegna di un cittadino di altro Paese membro dell'Unione, ai sensi dell'art. 18, lett. r , della I. 22 aprile 2005 n. 69, presuppone un radicamento reale e non estemporaneo della persona nello Stato, desumibile dalla legalità della sua presenza in Italia, dall'apprezzabile continuità temporale e stabilità della stessa, dalla distanza temporale tra quest'ultima e la commissione del reato e la condanna conseguita all'estero, dalla fissazione in Italia della sede principale anche se non esclusiva e consolidata degli interessi lavorativi, familiari ed affettivi, dal pagamento eventuale di oneri contributivi e fiscali. La nozione di dimora , rilevante ai medesimi fini, si identifica, inoltre, con un soggiorno nello Stato stabile e di una certa durata, idoneo a consentire l'acquisizione di legami con lo Stato pari a quelli che si instaurano in caso di residenza sez. F., n. 33865 del 30/7/2015, Rv. 264372, cit. . 2. Nel caso di specie, una valutazione ponderata di tali elementi ha legittimamente indotto la Corte territoriale a non riconoscere un comprovato stabile radicamento del B. sul territorio nazionale. Per quanto non siano privi di rilevo né la legittimità della presenza del ricorrente sul territorio nazionale, in quanto cittadino comunitario, né il tempo trascorso dal reato commesso in Romania nel 2006, di cui alla condanna del 2007, la Corte di Appello di Catania ha però rilevato, sulla scorta di un approfondimento istruttorio dei carabinieri di Acate, l'insussistenza di elementi idonei a comprovare un reale radicamento del B. sul territorio nazionale, non risultando essere stato ivi fissato ìl centro degli interessi lavorativi e/o affettivi del ricorrente. Sulla scorta del predetto approfondimento, invero, la sentenza impugnata ha in primo luogo evidenziato che il ricorrente non ha residenza anagrafica in Italia, pur avendo formalizzato una denuncia in Agate nel 2011, ed ha spostato più volte la dimora, anche in c.da Berdia di Vittoria, ed ha riportato due condanne per fatti commessi in Vittoria, peraltro senza mai svolgere lavoro regolare nella provincia di Ragusa. Alla luce dell'accertamento dei CC. riportato in sentenza, pertanto, deve ritenersi che soltanto impropriamente la stessa Corte di Appello di Catania, in altra occasione, nell'applicare al B. la misura degli arresti domiciliari, con ordinanza del 19/8/2015 ebbe a definire residenza del predetto la sua abitazione in Agate, via Bixio n. 43. Gli elementi valorizzati dal ricorrente nel ricorso, pertanto, appaiono significativi di un'assidua presenza dei B. sul territorio nazionale, negli ultimi anni, ma correttamente la Corte territoriale ha rilevato che si tratta di elementi inidonei a dimostrare la data dell'effettivo ingresso dei B. in Italia e, soprattutto, se tale soggiorno si sia protratto in modo ininterrotto e precario oppure stabile. Conseguentemente, uniformandosi al quadro di prìncipi dinanzi ricordati, la Corte di merito ha puntualmente esaminato i dati emergenti dalla documentazione prodotta dal ricorrente e, alla luce degli accertamenti dei Carabinieri di Agate, ne ha motivatamente escluso, con lineari argomentazioni, ogni profilo di rilevanza al fine sopra indicato, osservando a che il B. non risulta formalmente residente in Italia b che non vi è alcuna prova dei suo asserito inserimento nel mondo del lavoro in Italia c che non vi è prova nemmeno in ordine allo stabilimento dì parenti del predetto nella zona del ragusano, atteso anche che il ricorrente ha perfino omesso l'indicazione dei nomi di tali familiari o parenti, e che dai provvedimenti dell'A.G. rumena risulta celibe e senza figli d che non è stato prodotto alcun documento di identità italiano né del ricorrente né di familiari asseritamente stabilitisi in Italia. 3. Al rigetto del ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. La Cancelleria curerà l'espletamento degli incombenti di cui alla L. n. 69 del 2005, art. 22, comma 5. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Si provveda ai sensi dell'art. 22 comma 5 della legge n. 69/2005.